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Telmo Pievani – Serendipità. L’inatteso nella scienza [Raffaello Cortina Editore, Milano 2021]

Gli ultimi due anni che abbiamo vissuto testimoniano meglio di qualunque discorso quanto importante sia la comunicazione della scienza, al fine di restituirne una percezione corretta – ugualmente distante sia da un anacronistico positivismo sia dal relativismo post-moderno – tale da educare la collettività circa l’importanza e i limiti di questa titanica impresa umana, nella quale più si sa e più si scopre di non sapere. Ogni nuovo contributo in tal senso assume, pertanto, una valenza non solo accademica, ma anche civile.

Tale è il caso del saggio di Telmo Pievani, Serendipità. L’inatteso nella scienza. In questo libro, l’autore fa sapiente uso di una prospettiva plurale (che comprende l’etimologia, la storia delle idee, la sociologia della scienza, l’epistemologia) per bonificare questo termine dalla caligine degli aneddoti, talvolta impropri, usati comunemente per spiegarlo. Piuttosto, in ossequio all’ammonimento di Socrate, per cui la definizione di qualcosa è cosa diversa dall’enumerazione di esempi (Tht. 146c-147d), l’autore ci conduce in un itinerario, insieme narrativo e analitico, volto a far chiarezza su quel fenomeno curioso per cui, mentre si è alla ricerca di qualcosa, si trova tutt’altro.

E la prima sorpresa è che già solo questa definizione, radicata nel senso comune, cela una storia tortuosa, che affonda le radici nella novellistica medievale dell’Oriente. Nel racconto dei tre principi di Sarandib, la settima delle Otto novelle del paradiso del poeta indiano Amir Khusrau, il termine è codificato nel suo significato etimologico: «Sarandib era il nome persiano antico dello Sri Lanka, dell’isola di Ceylon, o Silan, prima ancora Serendip o Sarendip» (p. 26). Il re di Sarandib esilia i suoi figli affinché conoscano il mondo e acquisiscano saggezza al fine di governare il regno, secondo il classico modello del rito di iniziazione. I tre fratelli incarnano «il piacere della libera investigazione: affrontare le incertezze del mondo e provare a interpretarle, risalendo da indizi apparentemente trascurabili a realtà nascoste non immediatamente esperibili con i sensi» (ibid.). Essi non hanno un obiettivo preliminare e non lo trovano casualmente; non trovano per vie impreviste ciò che cercano né scovano qualcosa di inaspettato; per il semplice motivo che non cercano alcunché: i tre principi di Sarandib, nella novella di Khusrau (e ancor più nella trasposizione italiana rinascimentale di Cristoforo Armeno) sono piuttosto «l’archetipo del detective» (pp. 29-30) e maestri di abduzione.

La quale è una componente della serendipità, ma non la serendipità di per sé. Voltaire si ispira alla figura dell’investigatore che fa uso del ragionamento abduttivo per il personaggio di Zadig, saggio babilonese del IX secolo, protagonista dell’omonimo racconto filosofico. «Per Voltaire, ciò che noi oggi chiamiamo abduzione significa apprezzare le piccole differenze nei fenomeni osservati al fine di arrivare a un risultato preciso […]: descrivere un oggetto mai visto, prevedere l’esistenza di qualcosa che non è mai direttamente finito sotto i nostri sensi, o anche indovinare una serie di eventi del passato che, retrospettivamente, spiegano quegli indizi» (pp. 49-50). Tale è il mestiere del paleontologo, come osservò lo stesso Georges Cuvier, il quale scrisse «che il suo mestiere di investigatore del tempo profondo è proprio quello dello Zadig di Voltaire» (p. 51): è la «profezia retrospettiva», come la chiamò Thomas H. Huxley (p. 170).

Da dove nasce dunque il significato di serendipità noto ai più, quello per cui si trova qualcosa di inaspettato mentre si cerca tutt’altro? Il malinteso si deve a Horace Walpole, che nell’Inghilterra del Settecento conia la parola serendipity ancorandola all’universo semantico della ricerca antiquaria, del collezionismo eclettico, e enfatizzando le componenti di caso e sagacia della ricerca indiziaria dei principi di Sarandib (i quali sono sì sagaci, ma la cui ricerca si svolge all’insegna dell’abduzione più che del caso). Ciò che colpisce in questa storia dell’idea è che lo stesso termine serendipità nasce quindi da una deviazione, da un errore generativo, in modo serendipitoso: Walpole inventa la parola in maniera non del tutto fedele al senso della favola persiana, per un vezzo linguistico (pp. 40-42).

Tale narrazione è propedeutica al nucleo fondamentale del testo: la proposta di una «scienza dell’inatteso» (p. 83) che indaghi – al di là dell’ambito letterario in cui è sorta e dell’aneddotica che ne occulta il senso – l’importanza della serendipità nella scienza. E come ogni impresa in cui è necessario porre ordine nella complessità del molteplice, è necessaria una tassonomia dei significati storicamente codificati di questo concetto. Pievani propone una classificazione della serendipità, dalla più alla meno accidentale: 1. scoperta casuale (quella dei principi di Serendippo, i quali si imbattono accidentalmente in misteri da risolvere, senza cercarli di per sé); 2. serendipità in senso forte (che è quella di Walpole), ovvero «trovare qualcosa che nemmeno sapevi di star cercando, grazie al caso e alla sagacia, senza alcuna intenzionalità» (p. 75); 3. serendipità in senso debole, quando imprevedibile non è la scoperta (che è invece cercata con impegno), bensì la modalità con cui si perviene a essa; 4. processo indiziario, «quando l’indagatore sa benissimo qual è il problema e grazie alle sue capacità abduttive risolve il mistero come un detective» (pp. 75-76), o come un paleontologo, o come un medico, o come Zadig.

La serendipità in senso stretto, quella epistemologicamente più interessante, è la seconda. La serendipità in senso forte, osserva Pievani (p. 77), può infatti istruirci circa le modalità della scoperta scientifica. «Se capiamo le circostanze in cui la serendipità fiorisce, potremmo promuoverla con misure e finanziamenti adeguati. Il tema non è di intrattenimento. Dall’importanza quantitativa della serendipità dipende ad esempio la giustificazione o meno dei fondi dati alla ricerca di base, cioè quella non finalizzata a priori a un risultato applicativo bensì guidata dalla sola curiosità di conoscere la natura, un tipo di indagine che a prima vista sembrerebbe più consona alle gioie della serendipità» (p. 129). Ma se la serendipità è per definizione «l’inatteso che irrompe» (p. 130), appare paradossale cercare di ridurla a schemi che la rendano predicibile.

Se non possiamo pianificare a tavolino le ricerche serendipitose, nondimeno possiamo indagare quali sono le condizioni che le favoriscono: in altre parole, possiamo studiare l’ecologia della serendipità. Ingredienti fondamentali in tal senso pare siano: incoraggiare la ricerca libera, su argomenti scelti dal ricercatore, con scadenze dilatate, in gruppi di lavoro interdisciplinari e magari con membri diversi a livello di cultura, genere e religione (così come l’antico regno di Sarandib era un crocevia di civiltà diverse) (pp. 153-156).

“Libertà” è parola chiave della serendipità almeno quanto “sagacia” e “incertezza”. «Il piacere della serendipità sta nell’incertezza che per una volta non porta sciagure» (p. 136). Di fronte all’incertezza dell’esito e del percorso, la mente umana è sovente abituata a pensare in modo dicotomico: ciò vale in modo particolare per la serendipità, la quale è stata interpretata ora come massima fortuna (rimarcando la componente casuale e “democratica” del processo) ora come massima applicazione metodica (enfatizzando le capacità dello scienziato e sfociando talora nel mito dell’“eureka!”). «Serve una via mediana, quella indicata da Pasteur: il successo che arride agli audaci; il caso che premia i sagaci. Non è solo fortuna, ma non è nemmeno solo metodo» (ibid.). Bisogna che l’occasione imprevista, l’osservazione inaspettata venga colta e ponderata da una mente preparata, competente, capace di fare le giuste associazioni. La serendipità in tal senso è democratica (in quanto ci pone tutti ugualmente ignoranti di fronte all’ignoto) ma non qualunquista (le grandi scoperte non sono alla portata di chiunque) (pp. 137-138).

Spesso, l’abuso dell’argomento “fortuna” è sostenuto da una visione trionfalistica della scienza e teleologica della storia. L’antidoto intellettuale in questi casi è imparare a ragionare in modo controfattuale, a dare il giusto peso alle potenzialità espresse a fronte di quelle (molto più numerose) non realizzatesi. «Non vi è nulla di più pericoloso e fuorviante del senno di poi che addomestica le ricostruzioni a posteriori» (p. 140). Questo è un problema che deve indurci a assumere con cautela le testimonianze degli stessi scienziati, dalle autobiografie agli articoli scientifici, nei quali i requisiti di forma del saggio accademico impediscono il più delle volte di riferire il contesto psicologico e ambientale della scoperta, riducendo quest’ultima esclusivamente alla sua giustificazione logica e dando così l’impressione (falsa) che la sua genesi sia altrettanto lineare e razionale. «Insomma, non possiamo fidarci più di tanto dei racconti a posteriori degli scienziati! Ancor meno delle loro autobiografie celebrative. Sono tutte viziate dal senno di poi, dalle semplificazioni retrospettive, dal fatto inesorabile di sapere come è andata a finire la storia» (p. 143).

Ma se il caso deve accompagnarsi al talento, qual è la “valuta” per candidarsi alla serendipità? Oltre a una smaniosa curiosità, occorrono ampie conoscenze pregresse, contatti giusti con altri professionisti, una spiccata attenzione ai dettagli apparentemente secondari e una propensione ai campi di ricerca poco esplorati. «A una scoperta scientifica serendipitosa bisogna candidarsi, come si compra un biglietto della lotteria candidandosi alla vincita, non trovando per caso un biglietto vincente per terra. Un accidente resta un accidente, finché non succede alla persona giusta: a quel punto diventa una scoperta» (p. 148). Bisogna, poi, saper tollerare l’errore: invece di scartare le anomalie come imprecisioni fastidiose, avere l’onestà e il coraggio di approfondirle per comprenderne la causa; stabilire cioè se si tratta davvero di refusi o piuttosto di incongruenze promettenti, che svelano scenari di ricerca inediti. In tal senso, bisognerebbe proprio adottare un atteggiamento di «trascuratezza controllata» (p. 149), come scrisse il biologo italiano, naturalizzato statunitense, Salvador Luria.

«Secondo il filosofo della scienza Aharon Kantorovich, la scoperta serendipitosa, essenziale per comprendere la creatività scientifica soprattutto nelle fasi di forte cambiamento, è equiparabile alle mutazioni casuali nell’evoluzione biologica: errori e deviazioni involontarie perturbano le procedure di routine introducendo variazioni, sottoposte poi ai filtri selettivi della mente dello scienziato stesso e della sua comunità di riferimento» (pp. 151-152). Anche se tale analogia, come precisa Pievani, non va presa alla lettera, essa ci aiuta a comprendere il valore generativo dell’errore nella pratica scientifica. «Le vie dell’errore sono infinite e nella scienza si fa bricolage, anche resuscitando idee dormienti. Quale che sia, l’errore nella scienza non è necessariamente un allontanamento dalla verità, ma anche un modo per acquisire conoscenza. Evitare gli errori è meschino, sosteneva Karl R. Popper. La scienza deve affrontare problemi che siano sufficientemente difficili da rendere l’errore inevitabile, e generativo» (p. 153). Senza contare che, per certi versi, le teorie errate sono più interessanti di quelle corrette, non solo perché può capitare che dietro l’errore si nascondano scenari insospettabili forieri di teorie corrette, ma anche in quanto studiare a posteriori la genesi di una teoria errata mostra i percorsi tortuosi della scienza in atto (che solitamente non si conservano nei paper pubblicati). In tale senso, Pievani scrive icasticamente: «Le teorie giuste sono giuste nello stesso modo. Le teorie sbagliate sono sbagliate ognuna a modo suo» (p. 219).

Dietro un errore scientifico può celarsi una soluzione per un problema diverso da quello inizialmente considerato, tramite un riuso creativo delle risorse disponibili. Il bricolage è una delle analogie fra evoluzione biologica e evoluzione della scienza (pp. 227-228). Come l’evoluzione biologica è un’esplorazione di possibilità, che spesso opera mediante rabberciamenti, riutilizzo creativo di strutture preesistenti, sviluppatesi per un adattamento diverso o per nessuna ragione adattativa, così anche la storia della scienza è costellata da scoperte cooptate da una disciplina all’altra, secondo percorsi tortuosi e imprevedibili. «Esiste insomma un opportunismo serendipitoso sia nell’evoluzione sia nella cognizione» (p. 229), che costituisce l’onda lunga della nozione di exaptation.

Un’altra analogia fra evoluzione biologica e storia della scienza è il fenomeno della convergenza. Di fronte a problemi adattativi simili, specie distanti filogeneticamente finiscono per sviluppare i medesimi adattamenti. Accade talvolta che anche scienziati alle prese con una stessa domanda di ricerca raggiungano, indipendentemente fra loro, soluzioni coincidenti. In tal senso, l’argomento “la scoperta era nell’aria” è attendibile: non sempre le scoperte scientifiche sono serendipitose. Ma ciò non significa che esse sarebbero giunte necessariamente, prescindendo dagli scenari congiunturali in cui ogni scienziato opera. Darwin e Wallace svilupparono indipendentemente la teoria dell’evoluzione per selezione naturale; ma, come ricorda Pievani, «cosa avrebbero scoperto Darwin e Wallace senza le occasioni altamente serendipitose dei loro viaggi?» (p. 226). Come osservava Gould: «Dove sarebbe stato Darwin nel 1837 senza Gould, Owen e la dinamica vita scientifica di Londra e di Cambridge?» [S.J. Gould, Il sorriso del fenicottero (1985), tr. it. Feltrinelli, Milano 20092, p. 287].

Pievani sottolinea il paradosso per cui Internet, con le sue enormi potenzialità in termini di ricerca e condivisione delle informazioni, sia diventato uno strumento che consolida le vie già percorse, preclude l’inaspettato, rafforza in maniera retroattiva le idee preconcette: il nemico per eccellenza della serendipità. «Nel cosmo digitale è sempre più raro che si trovi qualcosa che non si stava cercando, tanto più che a ogni passo l’algoritmo ci propone connessioni prevedibili, scontate, ovvie, fastidiosamente fondate sul pregresso cumulativo delle nostre scelte e navigazioni» (p. 157). La storia della serendipità, in tutte le sue forme, ci mostra nella maniera più lampante che le scoperte più grandi si ottengono invece se si rinuncia alla logica dell’hic et nunc. «Serve una scienza più lenta, liberata dalla pressione di ottenere rapidamente risultati certi a breve termine, per rispondere a competizioni interne ai settori, a sollecitazioni di interessi economici e di mercato, o a ansie sociali emergenziali. La serendipità fiorisce sul terreno di una scienza più autonoma e indisciplinata, una scienza che rallenta un po’, per dare più importanza alle domande che alle risposte» (p. 159).

Ancora nei primi decenni dell’Ottocento, i naturalisti accompagnavano l’epiteto “filosofico” alle loro ricerche come sinonimo di “rigoroso”. Oggi potremmo ben parlare di scienza “filosofica” come scienza “serendipitosa”, se è vero che la filosofia, così come la serendipità, non solo ammette ma esige lentezza, ponderazione, il disinteressato piacere dell’indagine prima ancora che della scoperta.

Ma perché la serendipità è così diffusa? Essa intride talvolta non solo la storia della scienza, ma anche la storia degli individui: potenzialità, congiunture, fortuna e talento si mescolano nella vicenda umana e scientifica del biologo giapponese Osamu Shimomura (pp. 196-202). Essa mostra che la serendipità «è un atto perturbativo, proattivo, di ricerca, che porta a conseguenze non intenzionali. Come tutte le nostre azioni, una volta compiute entrano a far parte di un’ecologia più ampia di relazioni e interpretazioni, foriera di potenziali conseguenze inattese, e suggeriscono magari contributi involontari in altri contesti. La serendipità è un piccolo sassetto nello stagno che fa emergere l’inatteso. Succede quando la natura risponde in maniera imprevedibile alle nostre domande» (pp. 201-202). La frequenza della serendipità, specie quando si studiano i sistemi complessi, è dovuta all’abisso che intercorre fra conoscenza e realtà. «Da Zadig a Galileo, tutti cercano di decifrare il libro della natura per svelarne aspetti nascosti. Il problema affascinante è che nessuno sa quante pagine restano da leggere» (p. 203). Ciò vale non solo per le scienze fisico-matematiche, ma anche per la biologia, e in particolare per la classificazione biologica: «E fa grande tristezza pensare che noi stiamo estinguendo a spron battuto quella cornucopia di forme di vita che ancora non abbiamo nemmeno scoperto e studiato» (p. 214). Che il divario fra conoscenza e realtà sia abissale è ragione di sgomento e di meraviglia: ci ricorda la nostra finitudine e la fatica di Sisifo che lo scienziato sperimenta nello sfidarla (p. 217; cfr. anche T. Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020).

La suggestiva immagine di Pierre Duhem ripresa da Jacques Hadaman – per cui lo scienziato è come un pittore che prima dipinge un paesaggio, e poi apre la finestra per verificare il grado di approssimazione fra la sua opera e la realtà là fuori – è il pretesto usato da Pievani per introdurre l’ultimo ma fondamentale problema legato alla serendipità: spiegare come sia possibile che «concetti matematici nati per gioco, come esercizi formali ispirati dall’amore per bellezza e eleganza, senza alcuna applicazione immaginabile, si rivelano a posteriori come descrizioni potenti di nuove realtà fisiche» (p. 235). Il fisico Eugene Wigner chiamò questo tema “l’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali”. A tale questione sono state proposte diverse risposte. L’ipotesi di Pievani «è che un contributo alla soluzione di questo classico problema di filosofia della scienza (il rapporto fra matematica e realtà, fra mente e mondo) possa venire proprio dalla serendipità, e da un’interpretazione evoluzionistica della scienza» (pp. 223-224). «La serendipità, così importante tanto nell’evoluzione quanto nella cognizione, sembra suggerire che questa propizia consonanza tra mente e mondo, questa connessione tra enti mentali e forme naturali, non sia un dono miracoloso da accettare e basta, ma possa avere un’origine naturale. Dopo tutto, il nostro cervello è parte integrante della realtà che indaga e si è evoluto dentro quella realtà, adattandosi alle sue pressioni selettive e ai suoi vincoli. Non è stupefacente, quindi, che le sue costruzioni matematiche siano (talvolta, non sempre) in sintonia con la realtà» (p. 246). «In tal senso, la (non più?) irragionevole efficacia della matematica sarebbe una sintonizzazione evolutiva tra la naturalità della nostra mente e il resto della natura di cui fa parte» (p. 248).

Pievani propone dunque una soluzione naturalistica ma non riduzionistica alla misteriosa sintonia fra matematica e realtà fisica la quale, mentre sottolinea la pervasività della serendipità a livello storico e epistemologico, evidenzia d’altra parte che la mente umana stessa è prodotto dell’evoluzione. «La scienza dell’inatteso, in ultimo, ci parla insomma della natura umana. Ci parla niente meno che della natura della mente umana, o meglio: di una parte della natura, cioè la mente umana, alle prese con il resto della natura di cui fa parte» (p. 249).

Giovanni Altadonna

S&F_n. 27_2022

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