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Telmo Pievani – La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi [il Mulino, Bologna 2012, pp. 185, € 15]


Catastrofe / Disastro / Nemesi / Estinzione / Apocalisse: queste sono le parole chiave che Telmo Pievani prende in esame. Parole che rimandano tutte simultaneamente a un evento distruttivo e catartico, in grado di concludere un “qualcosa” – una specie, un determinato ambiente naturale, un periodo storico, ecc. – e creare così le condizioni per un nuovo inizio. Pievani passa in rassegna un elenco piuttosto nutrito di profezie che non si sono realizzate, di pandemie che poi si sono rivelate meno virulente e mortifere delle epidemie influenzali stagionali, di terremoti e maremoti epocali che hanno fatto gridare al castigo morale e alla incipiente e purificatrice fine del mondo. Ma il suo obiettivo non è quello di trattare con arguzia questi fenomeni, quanto piuttosto di sottolinearne il sostrato, per così dire, metafisico. Un elemento sul quale insiste a più riprese è, difatti, il carattere assolutamente – e aggiungerei inevitabilmente – autocentrato dell’uomo, peculiarità che lo porta a interpretare ogni cosa in funzione delle sue esigenze e dei suoi progetti. In altre parole: l’uomo ha da sempre manifestato la tendenza a considerare i fatti naturali come dotati di un senso preciso che lo chiama direttamente in causa. Non riesce perciò ad accettare che la natura non è una divinità capricciosa che castiga o premia a seconda delle azioni compiute, ma è, al contrario, un neutrale campo di relazioni che include tutti gli uomini e che ha una sua storia, e in quanto tale non ascolta né invocazioni né maledizioni. Ragion per cui cercare di ricavare un messaggio di ordine morale dai cataclismi naturali o dalle ellissi solari o dai tramonti infuocati o da qualsiasi altra cosa è opera completamente vana, spia luminosa dell’incapacità dell’uomo di accettare la propria finitezza fisica e temporale. Del resto, un elemento che con prepotenza emerge dalla teoria evoluzionistica e post-evoluzionistica è proprio il ruolo cruciale ricoperto dal caso, oltre che dalla necessità, nel processo che ha portato dapprima alla comparsa della vita sulla Terra e poi, col passare del tempo, alla formazione della specie Homo, che è solo una specie tra le altre cui non compete primato di sorta. E il fatto che «siamo figli della fine del mondo degli altri», cioè che siamo riusciti a prevalere in seguito a un fenomeno di estinzione di vasta portata, quale quella del Cretaceo, che ha interessato innumerevoli varietà di organismi, non deve spingere nessuno a considerare l’uomo un’opera grandiosa, degna dell’intervento eccezionale di una qualche divinità. L’uomo, come tutti gli altri animali, è il frutto di un processo lunghissimo, un processo, né coerente né unidirezionale, di trasformazioni e modificazioni. Più che il vertice della creazione, è, per dirla con Desmond Morris, nient’altro che una scimmia nuda, una scimmia, cioè, non ricoperta da un fitto e duro strato di peli, che, nel tempo, è riuscita a dotarsi di particolari strutture biologiche e sociali. Una “scimmia modificata”, insomma, che, spesso e volentieri, si arroga una supremazia su tutte le altre specie viventi, una supremazia figlia di una certa cultura “umanistica” antropocentrica che ancora oggi tarda a scomparire. Se, quindi, l’uomo è questo, ossia frutto di una serie di episodi contingenti, se non occupa un posto di primo piano nello scacchiere naturale, se, come è stato detto da Roberto Marchesini, è ora di parlare di antropo-decentrismo e quindi di una vera e propria “orizzontalità biotica”, significa che è anche giunto il momento di smetterla con tutte le previsioni catastrofistiche, di qualsiasi genere esse siano. Cioè a dire: se ci muoviamo in universo dominato prevalentemente dal caso, è inutile ogni salvifica e consolante filosofia della storia, così come è inutile farsi prendere quotidianamente dallo sconforto di fronte a circostanze che sebbene eccezionali devono essere comprese e non investite di un significato che non hanno. Al tempo stesso, però, non va dimenticato che proprio le previsioni catastrofistiche, proprio l’ansia escatologica o messianica, vanno analizzate con grande attenzione, perché possono dare utili informazioni circa i modi in cui l’uomo nel corso della storia ha tentato di esorcizzare il “demone” del tempo, che, sebbene non sia ente reale nel senso di oggetto tangibile e esperibile da parte dei sensi, riesce a suscitare un’angoscia profonda, tale da farci pensare, anche nelle situazioni più innocenti, di essere ormai alla fine della nostra permanenza su questo pianeta.

Ciro Incoronato

S&F_n. 8_2012

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