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Rossella Bonito Oliva – Vita ordinaria e senso del comune. Per un’etica dell’opacità [LED, Milano 2016]


Il testo, caratterizzato da cinque saggi scritti in momenti diversi, presenta tuttavia una profonda unità, tanto da poter essere letto tutto d’un fiato, poiché si snoda a partire da un interrogativo arduo, per certi versi impossibile, perché sostanzialmente ossimorico e tuttavia un interrogativo che trae origine da un’urgenza da cui non ci si può sottrarre, oggi più che mai, in una compagine storica e politica che sembra invocare lo sforzo e l’impegno di tutti alla costruzione di un rimeditato orizzonte di condivisione.

La domanda riguarda la “possibilità di fondazione dell’etica”, ed è già di per sé una sorta di contraddizione in termini, non solo perché la fine della metafisica ha decretato la definitiva disfatta di ogni possibilità “fondativa”, ma altresì perché il vivente uomo, questo eccentrico in perenne evoluzione, costruisce la sua dimora a partire dal linguaggio e si tratta di una dimora ontologicamente instabile, priva di fondamenta e dunque di fondamenti, cangiante e mutevole proprio quanto il suo abitante, poiché la vita nella sua storicità, costantemente «traduce e tradisce l’istanza al bene» (p. 13) e al di fuori della metafisica, pare non esserci «ponte tra ontologia ed etica» (p. 12).

Già per Aristotele etica è lo spazio domestico, spazio dell’abitudine e al contempo sorta di seconda pelle, l’artificio che rende conto della complessità che l’uomo è, del suo stare sempre in bilico tra l’enormità del desiderio, senza misura per antonomasia, e la linearità geometrica e cristallina della ragione, che al contrario circoscrive e delimita.

Se l’umano è allora quell’ente che si pone tra animalitas e deitas, è a partire dal desiderio, inteso come possibilità di trascendimento, come “più che vita”, che è possibile pensare l’etica, un poter essere altrimenti, che si estrinseca come capacità di porsi dei fini: «Condizionati da contingenza e fluidità e tesi alla stabilizzazione, desiderio e intelligenza, si intrecciano nella spinta alla familiarizzazione, muovendo da uno sfondo preterintenzionale e transindividuale» (p. 16).

Il fondo opaco, per certi versi torbido di una natura che, parafrasando Freud, risulta patologicamente instabile, la potenza del negativo con tutta la sua carica perturbante, viene in qualche modo accolto, smussato dalla seconda natura, da una «tensione alla stabilizzazione nella cornice di un universo comune» (p. 19).

Si badi bene, trattasi pur sempre di tensione, sforzo, anelito destinato dunque a non trasformarsi mai in dato, puro fatto oggettivabile, calcolabile o quantificabile; lo spazio dell’etica resta irrimediabilmente «spazio di confine non attingibile né oggettivabile, se non muovendosi tra le pieghe dei processi e delle relazioni tra individuo e comunità» (p. 20).

L’idea del bene insomma appartiene alla conditio humana e rimane un «postulato assoluto per la soggettività», che l’autrice, in costante dialogo con Hegel, interpreta come da sempre lacerata tra un « “pensiero trasparente” e un “regno delle tenebre non ancora dischiuso”» (pp. 26-27).

Se allora torniamo alla cogente domanda che apre il testo e che inerisce la possibilità della fondazione dell’etica, comprendiamo che il futuro dell’etica è il futuro stesso dell’umanità e riguarda il costante e mai terminato processo del farsi umano dell’uomo, e cioè l’antropogenesi e le sue possibilità. L’etica allora «non può essere fondata né a partire da un fondamento, né in relazione allo scopo […] e tuttavia permane come istanza se solo si lascia tacere la tentazione di una facile identificazione con il corso del mondo o con valori assoluti» (p. 29).

Nel secondo saggio lo sforzo della riflessione prende le mosse dalla medietà dell’immagine, intesa come la «biosfera del vivente dotato di linguaggio» (p. 32). Attraverso l’immagine, che permette la comunicazione, l’immediato diventa mediato e l’ambiente diventa mondo; esso, a sua volta non è mera spazialità quantificabile, bensì orizzonte, sfondo e miracolo dell’irrappresentabilità, che da sempre «alimenta la riflessione etica» (p.34).

A un certo punto tuttavia la brama antropocentrica va trasformando questo orizzonte originario, precategoriale, nel quale innanzitutto si sta, nell’oggetto della manipolazione sul quale applicare la propria volontà di volontà, con l’ausilio di una ragione strumentale che mentre possiede teoreticamente e praticamente il mondo, degradandolo a fondo, al contempo se ne allontana, allontanandosi da sé, in un processo di derealizzazione e disumanizzazione, di perdita del mondo che ancora una volta richiama in causa l’interrogativo etico.

Eppure ciò che realmente minaccia il vivente eccentrico è la possibilità sempre in agguato di rimanere senza patria; recuperarla significa allora recuperare l’esperienza dell’ordinario praticando al contempo l’immaginazione che costantemente lavora su di esso, costantemente scompaginandolo, in un perenne esercizio, anch’esso ossimorico, nel quale ci si solleva senza estraniarsi: «l’esercizio di familiarizzazione non può solo far appello all’ordinario, allo stesso modo che la filosofia e l’arte, in debito con l’ordinario e dentro l’ordinario, ne individuano l’orizzonte più ampio» (p. 40). Perciò l’immaginazione apre a un altrimenti rispetto a ciò che è dato «libera l’azione creativa, la sperimentazione del senso comune nel dialogo tra differenze all’interno del poter essere umani in-comune» (p. 41).

Il mondo resta, al di là di una costante e troppo umana volontà assimilatoria, un orizzonte inattingibile, una complessità priva di fondamento. Eppure da sempre l’umano utilizza la parola come un talismano e con essa plasma – e misura e contiene – la vastità delle cose e l’angoscia della sua precaria posizione nel cosmo: in fondo tra il buon senso della servetta e la tracotanza del filosofo, il cui sguardo è sempre rivolto verso le stelle, non c’è grande differenza; che lo sguardo sia derisorio, rivolto alla terra e alla pratica ricerca di appigli o che sia inquietamente interrogante le stelle, entrambi restano consegnati alla condizione originaria che li affratella, e che riguarda la passività di un corpo che c’è e che non trova riparo. Perciò è necessario recuperare lo sfondo, e cioè «recuperare individui da procedure spersonalizzanti» attraverso uno «sforzo di immaginazione», che sia uno «scavo più che una semplice messa in scena, un mescolarsi della filosofia con le questioni della vita umana» (p. 49).

A partire dal terzo saggio si dipana una vivida narrazione per figure, nella quale Caravaggio e Hegel, Levi e Coetzee provano a raccontarci ancora l’insondabile che siamo, restituendoci meglio di una teoresi pura il «pieno magmatico della vita» (p. 54). L’autrice si sofferma su Le sette opere della Misericordia di Caravaggio – maestro nel riprodurre l’orizzonte di luci e ombre che caratterizza il nostro stare – dove evidente appare la danza funambolica dell’umano tra sacro e profano, ferinitas e deitas, tra corpi bisognosi in cerca di accoglienza e riparo, e gesti di pietà e misericordia.

Questa contingenza assoluta, questa spoglia e cruda fatticità rinvia nondimeno costantemente a un altrove; il mondo di fatica e bisogno, di fame e sete ci narra al contempo di un oltremondo; la nuda vita umana possiede già in sé intrinsecamente l’apertura al più che vita, all’oltrepassamento di sé. Le Opere della Misericordia allora «oggettivano un possibile della vita umana, esprimono un valore della vita che riscatta il corpo bisognoso nell’aspettativa di una risposta veicolata dal linguaggio comune alla domanda sul senso ultimo della vita che rende uguali in potenza» (p. 56).

Il mero sapere perciò non basta a questa vita umana e scienza e diritto spesso trascurano il fatto stesso di essere espressioni storiche di una communitas e dunque irrimediabilmente contingenti. Riponiamo da sempre la nostra fiducia nel sapere e su di esso poggiamo intere le nostre aspettative, perché è attraverso un sapere che si vuole nitido e adamantino che speriamo di affrancarci dalla ontologica fragilità del nostro corpo, dal suo essere es-posto a miseria, malattie e morte. Eppure ogni sapere «non riesce a dar ragione esauriente dell’essere soggettivo, ma viene rinviato all’impossibile conciliazione tra particolare e universale, tra fatti e leggi» (p. 63). L’eccedenza della vita umana, come più che vita trova allora espressione e forma nella dimensione politica, nella costruzione di «contesti di significato condivisi» (p. 64).

Il volume procede con l’analisi di un lessema assai denso, si tratta della parola dignità che fa sempre riferimento alla «struttura relazionale della vita umana» (p. 77). E tuttavia in un mondo globalizzato che non si presenta più come dimora, che – per parafrasare Ernesto de Martino – non è più patria culturale, ma va trasformandosi nel globo quantificabile e utilizzabile in vista del progetto di dominio ancora umano, troppo umano, l’abitare diventa attraversamento spaesato, dolente e privo di meta: «Disuguaglianze, migrazioni, terrorismo e restrizioni nell’accoglienza riducono l’orizzonte a linea di contenimento di non-luoghi, i cui abitanti – consumatori prima ancora che produttori – vedono scivolarsi tra le mani ogni possibilità di sentire oltre che di condividere il valore della vita umana» (p. 81).

È in tale contesto che emergono quelle che Bauman chiama “vite di scarto”, la cui nuda passività racconta lo smarrimento del senso della vita umana e la perdita del sentimento di comune appartenenza alla terra.

Se il concetto di dignità resta ancorato a quello di cittadinanza, allora il discorso della Arendt diventa di un’attualità cogente: gli apolidi, che oggi hanno le fattezze dei migranti, coloro che per motivi drammatici hanno perso l’appartenenza a un suolo, alla domesticità di una patria, diventano indegni, sono nuda vita sulla quale è possibile operare qualsiasi sfregio, ogni sorta di profanazione. Perché la vita nuda perde ogni diritto ad avere diritti: «La dignità come valore concretamente sentito va oltre il qui e ora della nuda, del semplice presente»; il rispetto della dignità richiede infatti «attenzione e distanza, empatia e comprensione, ma non è la somma o la risultante di questi fattori» (p. 86).

In ogni tempo ci sono atti che significano resistenza e al contempo testimonianza; lavarsi è uno di questi: «lavarsi significa perpetuare la forma umana della vita»; vale ovunque, vale sempre, da Cristo chinato, che prima di morire lava i piedi ai suoi discepoli, all’uomo ridotto a nuda vita in un lager, che attraverso l’atto del lavarsi prova con tenacia a rimanere umano, fino alla vita anonima del funzionario di una qualsiasi colonia che lava e accoglie una barbara e la ferita del suo corpo, inquietante mistura di dolcezza, vergogna e oblio di sé.

Che ne è invece del nostro corpo, del corpo dei privilegiati, di quelli che senza alcun merito non stanno tra le fila delle anime dolenti, delle vite di scarto? Anche per questi c’è in fondo una punizione, che va seguendo la legge del contrappasso: la miseria di corpi doloranti, madidi di sudore, ridotti all’osso, viene sostituita da un’altra miseria all’apparenza meno drammatica, ma anch’essa invocante riparo e consolazione: quella di corpi anestetizzati e rimossi, iper-lavati, sbiancati, quasi incorporei; corpi da cui non emana alcun odore, alcun sentore di vita, corpi dunque, allo stesso modo sacrificati e dimenticati.

Forse perché il corpo rimosso non teme la morte e va mostrandosi in tutta la sua trasparenza, priva di anfratti, di caverne, celle o luoghi oscuri «in cui l’individuo, disinteressato alla luce della verità possa rifugiarsi» (p. 88).

Qui la pulizia non ha nulla a che fare con la resistenza e la testimonianza ma dice soltanto di un’identità fatalmente espropriata a se stessa e che attraverso l’uso di una tenace tecnica volta alla perfezione e al controllo, si vorrebbe espropriata dell’imprevedibilità che è sostanza della vita stessa.

Questioni di dignità in ogni caso; si tratta, come già detto, di una parola densa, ricca di stratificazioni, radicata nella cultura occidentale e tuttavia spesso appiattita sul concetto di persona, a sua volta sempre più «schiacciato sull’impersonale e sull’indifferenziato, scaturigine di doveri e diritti in vista del disciplinamento della natura umana» (p. 95): «Se dall’antropocentrismo moderno in poi le scienze dell’uomo e la politica hanno identificato dignità con persona come soggetto di relazione e data per acquisita la sua declinazione nel novero dei diritti umani, hanno poi trascurato il peso specifico del sentimento della dignità sul futuro della condizione umana» (p. 94).

La dignità allora stabilisce l’eguaglianza tra gli uomini e la loro specificità rispetto al resto dell’ente, poiché da sempre essi sono in grado di autodeterminarsi «nell’unica sottomissione alla legge del rispetto» (p. 99).

Come tutti gli attributi della specie eccentrica, la dignità resta priva di origine e di realizzazione ultima. Essa va a ogni istante costruendosi e mai raggiungendosi del tutto.

La dignità sta nel volto, nell’andatura e nelle pieghe della veste della donna raffigurata da Cesare Ripa, essa è cammino e fatica, è grazia nel portare un fardello e, parafrasando la Arendt, deve essere esplicitata come condizione «di un sensus communis, senso della comunità di individui bisognosi della socialità anche per pensare» (p. 107).

Fabiana Gambardella

S&F_n. 19_2018

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