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Roberto Marchesini – Essere un corpo [Mucchi Editore, Modena 2020]

L’ultimo testo di Roberto Marchesini è consacrato all’enigma del corpo. Cosa significa essere un corpo ed essere per il mondo in questo corpo? Cosa può un corpo? Come sente e come desidera? E infine che cos’è un corpo ibridato? Sono alcune delle domande che attraversano il libro, domande a cui Marchesini risponde offrendo nuovi paradigmi interpretativi, che restituiscono una narrazione dell’umano forse più complessa, ma senz’altro più fedele alla realtà. Vent’anni di post-umanesimo ci portano dritti dritti al corpo, che è «un ipertesto, un sodalizio incentrato sul continuo chiacchiericcio di lemmi plasmatici inconsapevoli, che circondano le sue unità minime» (p. 8). La filosofia contemporanea ha pensato il corpo come ciò che ci è più proprio, e ciò è senz’altro vero, ma è vero pure che il mio alloggiare in questo corpo è fatto di relazioni con l’esterno; si alloggia nel corpo, non vi si risiede, proprio come degli ospiti, tuttavia non nel senso di una prigionia piuttosto di un’apertura di e verso il mondo. Per questa semplice, ma imprescindibile ragione, quando si parla di corporeità è bene abbandonare sin da subito ogni pretesa di esaustività e completezza: se non si dà alcuno sguardo di sorvolo allora occorre fare un passo più là nell’incarnazione. Il fatto che il corpo sia una «struttura che connette» (p. 13) ci consente, secondo Marchesini, da un lato di assistere all’epifania altrui, dall’altro di cogliere il corpo nella sua dimensione diacronica. Nell’intera struttura intenzionale del corpo opera una sorta di risonanza, «la gioia del ritrovarsi immersi, coniugati e radicati nel mondo» (p. 15). E questo ritrovarsi è appunto diacronico, unisce il passato della filogenesi e il qui e ora in una specie di «frattale diacronico» (p. 18). «Tracciando una linea trasversale – che riprenda autori diversissimi tra loro, come Darwin, Proust, Bergson, Piaget, Bateson – ritroviamo nel corpo quel concetto husserliano di istituzione/donazione (Stiftung) che è registro d’implementazione diacronica» (p. 20). Proprio perché il corpo è luogo di confine, soglia ermeneutica, è possibile rintracciare un’unitarietà tra autori così disparati, una sorta di trama sotterranea della storia della filosofia che ha almeno cercato di porre la questione della corporeità. Un altro carattere tipico del corpo, del tutto consequenziale al suo essere in relazione, è quello definito da Marchesini di eteronomia: per il corpo è possibile solo una predicazione relazionale, non vi sono mai predicati costitutivi, ma solo ontologico-relazionali. Infatti, è precisamente l’ontologia diacronico-relazionale del corpo a renderlo «incomprensibile alla lente isocrona della res extensa» (p. 26). Naturalmente, sottolineare il carattere relazionale della predicazione significa scardinare ancora una volta il mito del principium individuationis: cadono le mitologie di un organismo che sia autonomo, autocostitutivo, quasi attraversato da teleologie intrinseche – «se tolgo il corpo dalla relazione, esso immediatamente muore» (p. 27) – e resta una taciuta vocazione ecologica «il mondo eterotrofo degli animali si appoggia sulla presenza di organismi biosintetici, le piante, e stesso discorso si può applicare ai parassiti, ai saprofiti, ai coprofagi» (ibid.). È la dimensione eco-ontologica, come la definisce Marchesini, il primo carattere dell’essere un corpo, la sua natura emergenziale nella relazione con l’alterità. Il secondo carattere è quello del sentire: capovolgendo l’adagio cartesiano Marchesini afferma «penso perché sento» (p. 44). Si tratta dell’ennesimo smacco al principio di sovranità dell’individuo che ha retto il paradigma umanista. Questo sentire, però, è definito in base alla sua natura intenzionale, è la capacità di intus-legere «ossia di penetrare la superficie apparente del reale per configurarne valenze nascoste» (p. 54). L’emozione, in tal senso, funziona come un marcatore del sentire, permette di intercettare il sentire del corpo. Un sentire che governa non solo il dominio dei sensi, ma che è al fondamento di ogni giudizio, e quindi di ogni gnoseologia, estetica e morale. «Il giudizio richiede sempre un’attribuzione di valore che riposa sul principio del coinvolgimento. È la condizione emozionale che getta luce su un evento, facendolo emergere dal fondale e dandogli una rilevanza, rendendolo cioè giudicabile. […] Le disposizioni emozionali trasformano l’esposizione al mondo in esperienza del mondo» (p. 64). Il corpo poi opera in un regime desiderativo, ma questo desiderio è più una condizione che un bisogno. L’interpretazione tradizionale del desiderio oscilla fra due poli: da un lato il desiderio sarebbe il nostro progetto, fine o scopo che anima la nostra azione nel mondo, esercitando su di noi un forte potere attrattivo, dall’altro sarebbe nient’altro che pulsione libidica, anelito che divora sé stesso e non è mai pago. Queste due letture, secondo l’autore, mancherebbero la vera natura del desiderio, operando una «desomatizzazione» (p. 79). In effetti, nel primo caso sarebbe qualcosa che trascende il corpo, nel secondo qualcosa che lo appiattisce su di un piano pulsionale, perdendo l’autentico significato copulativo, e rendendolo quasi una macchina desiderativa dall’aspetto consumatorio. Tra eccesso di razionalità e semplice funzione fisiologica, il corpo desiderante è innanzitutto «realizzazione di copule, per cui il suo essere è un “volgersi verso” sia nel principio del sentire il mondo che nell’orientamento appetitivo all’esterno» (p. 80). Il desiderio non può essere ridotto a mero innesco esterno, come se bastasse una causa estrinseca e locale a muovere il nostro desiderare. E questo movimento si genera non dalle mancanze bensì dalle aperture: non il bisogno, non la carenza, ma l’eccesso, la ridondanza, l’istituzione di nessi coniugativi. Rispetto al tradizionale canone estatico, che individua nel movimento desiderativo un’uscita da sé, Marchesini delinea un processo inverso, ossi di incorporazione e somatizzazione di un ente esterno (cfr. p. 104). Se di elogio della carne si tratta, è precisamente nell’ambito di questa soglia relazionale che si consuma la prossimità e la distanza fra l’animale umano e l’animale non umano. I vari attributi che siamo soliti assegnare agli animali non umani – una certa omologazione di specie, una perfetta congruità adattiva, una totale adesione al loro Umwelt e un’assenza di autodeterminazione e libertà espressiva – si radicano tutti nel concetto di corpo. Nell’animale il corpo assurgerebbe a una dimensione totalizzante dell’esistenza, mentre nell’uomo non sarebbe altro che un carattere parziale e mai sussuntivo della sua umanità, egli «vi riconosce semmai un nesso, un’abitazione, ma parimenti un’estraneità» (p. 123). L’uomo è il senza rango, è l’eccentrico, mentre l’animale è innanzitutto e perlopiù corporeità. Non a caso la dimensione pulsionale, corporale è sempre vista come una dimensione ferina. Marchesini non manca di notare che questa narrazione dell’umano ha radici assai profonde, che possiamo far risalire al mito fondativo di Epimeteo e Prometeo: in quel luogo già troviamo il «tentativo di assegnare una doppia genealogia all’universo animato» (p. 124). Si tratta di una vera e propria distorsione ermeneutica che ancora ricalca una concezione epimeteica dell’animale quale perfettamente integrato nella natura, mentre l’uomo ne sarebbe l’eterno clandestino. L’ultimo aspetto affrontato da Marchesini è quello del corpo cosiddetto ibridato e quindi del rapporto con la techne. In questa fenomenologia ibrida del corpo è importante rilevare ancora una volta la fallacia di ogni mito di autosufficienza, «rimarcare l’impossibilità di considerare il corpo quale entità perimetrabile nello spazio-tempo, tale da poter giustificare per ricognizione interna il suo manifestarsi predicativo» (p. 144). Non si comprende mai un corpo iuxta propria principia, precisamente in ragione della sua intima natura relazionale ricordata poc’anzi. Si tratta di una propedeutica a ogni filosofia o antropologia della tecnica che voglia emanciparsi da un’interpretazione prometeica e strumentale. D’altronde «ogni emergenza tecnologica inventa nuovi spazi di sperimentazione somatica, rende il corpo un territorio capace di reinventarsi» (p.168). E mai come in questi mesi il virtuale, lo schermico, l’innesto tecnico ha avuto effetti realissimi.

Alessandra Scotti

S&F_n. 23_2020

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