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Michael Chabon – Wonder Boys [tr. it. L. Crepax e M. Crepax Rizzoli, Milano 2002] Edgar Allan Poe – La filosofia della composizione [a cura di Luigi Lunari, testo inglese a fronte La Vita Felice, Milano 2012]

Adil Bellafqih

 

Il male di mezzanotte.

Creatività e inflazione psichica tra Jung, Poe e Michael Chabon

 

 

Quell’«io» non è il poeta, ma il dio apollineo per conto del quale il poeta ispirato canta.

Robert Graves, La Dea Bianca

 

 

 

 

 

  1. Wonder Boys di Michael Chabon

Dopo il successo de I Misteri di Pittsburgh Michael Chabon si buttò per cinque anni nella stesura di un secondo romanzo, Fountain City, che non riuscì a completare. Il romanzo, incentrato sulla costruzione di un ideale stadio da baseball, continuava a crescere senza fine (cfr. M. Chabon, Diving into the wreck, in Maps and legends: reading and writing along the bordersland, McSweeney’s, San Francisco 2008). La storia sembrava sfuggita al controllo di Chabon. Anzi, paradossalmente era la storia a controllare lo scrittore. Da questa esperienza fallimentare Chabon trasse ispirazione per il suo secondo vero romanzo, Wonder Boys (1995).

In Wonder Boys il protagonista è Grady Tripp, docente universitario di scrittura creativa in piena crisi: da sette anni è al lavoro su un libro (intitolato Wonder Boys, appunto) che non riesce a finire. Trame e sottotrame si moltiplicano, appaiono qua e là interi capitoli di descrizioni senza personaggi e così via. Grady ha in mente il finale (in realtà più di uno), ma le vicende che coinvolgono la famiglia al centro della storia non approdano a una conclusione, i dettagli abbondano, tutto sembra necessario e funzionale allo sviluppo della trama quando in realtà è solo un alibi per perdersi nei meandri della scrittura.

Quello di Grady Tripp sembra il contrario del famigerato blocco dello scrittore. Grady non ha alcuna difficoltà a sedersi alla macchina per scrivere e buttare giù le idee, anzi, è l’esatto opposto. Per sette anni Wonder Boys è diventato il centro del suo mondo, l’unico rifugio sicuro cui fare ritorno per fuggire da una vita ingarbugliata. La questione rilevante da un punto di vista filosofico è l’apparente presa di controllo dell’opera sull’autore. Crescendo, Wonder Boys ha sopraffatto Grady Tripp, lo ha incatenato alla macchina da scrivere costringendolo ad autoalimentare una storia senza capo né coda. Cercheremo nelle prossime pagine di sviscerare questa sorta di bulimia creativa e di trarne qualche conclusione sul rapporto tra artista e opera d’arte.

Così descritto, il romanzo di Chabon ricorda quasi una storia dell’orrore. Sebbene non ceda alle lusinghe (seppur altrettanto nobili) del genere puro, la storia di Grady Tripp si muove sulla linea che separa la narrazione convenzionale da quella orrorifica. A stimolare il giovane Grady nel diventare scrittore fu un personaggio della sua infanzia, August van Zorn, immaginario autore di racconti dell’orrore ispirato a Howard Philips Lovecraft. Perso nella stesura del suo infinito romanzo, Grady ripensa spesso a van Zorn e a quello che chiama il male di mezzanotte, una sorta di: «insonnia emotiva […] quando tutt’intorno gli altri sono profondamente addormentati» (p. 26).

Grady si chiede se gli scrittori non siano tutti in qualche modo disturbati e associa questo disturbo creativo (o distruttivo) all’incessante rumore della sedia a dondolo di van Zorn, il quale scriveva le sue storie dell’orrore nel cuore della notte. Gli scrittori, proprio come gli insonni, sarebbero inclini agli incidenti, all’autodistruzione e alle piccole ossessioni, incapaci di abbandonare un’idea o un argomento in barba alla logica e ai buoni consigli. Il disordine mentale scaturito dall’atto creativo si ripercuoterebbe sulla vita quotidiana degli scrittori, perennemente in balia delle emozioni, sonnambuli che vagano tra montagne di pagine che aspettano di essere scritte.

Nel corso del romanzo di Chabon il male di mezzanotte si staglia sullo sfondo della narrazione come una minaccia perenne, una divinità Lovecraftiana che brama la distruzione di Grady, travolto da una serie di avventure che spaziano dal comico al grottesco. Creatività e autodistruzione sembrano legate a doppio filo. Di più, Grady arriva a equiparare il male di mezzanotte a una schizofrenia che comincia:

come una semplice sensazione di distacco dagli altri, un’incapacità di “partecipare” non rara in uno scrittore, un senso di invidia e di incolmabile distanza dal resto del mondo, come quella che prova chi si rigira, inquieto, a letto, quando tutti dormono. Rapidamente, tuttavia, colui che era affetto dal male della mezzanotte cominciava ad amare quella sensazione di distacco, a coltivarla […] fino a quando, un brutto giorno, non scopriva che il proprio sguardo ostile era rivolto, prima che a chiunque altro, a se stesso (p. 81).

 

Grady riflette in questi termini durante una conferenza tenuta da Q., un autore immaginario che intitola la sua lezione “Lo scrittore e il suo doppio”. Secondo Q. la sua vita da scrittore sarebbe funestata da un Doppelgänger malvagio che agirebbe nell’ombra per rovinarlo, ma al contempo per fornirgli materiale fresco su cui lavorare. Grady ravvisa una certa somiglianza tra l’idea di un doppio oscuro e l’insonnia emotiva che scolla progressivamente il creativo da se stesso e dal mondo, intrappolandolo nella sua stessa creazione al punto da rendere impossibile separare realtà e finzione letteraria.

Per capire la natura del male di mezzanotte dovremo affrontare da un punto di vista psicologico il tema della creatività e subito si pone un problema. Com’è possibile che un’opera sfugga al controllo del creatore se è egli stesso a darle vita? E ancora, esistono elementi concreti per credere che la produzione dell’opera vada al di là della volontà cosciente del creatore? C’è davvero un Doppelgänger al lavoro nell’ombra o è solo una finzione letteraria di Chabon?

 

  1. Filosofia della composizione di Edgar Allan Poe

In relazione al tema generale della creatività possiamo identificare due grandi scuole di pensiero. La prima considera l’opera d’arte totalmente frutto della coscienza dell’autore, il quale la pianifica e architetta nei minimi dettagli come farebbe un orologiaio. La seconda, più antica, si appella alla figura classica della Musa ispiratrice: non è l’individuo a creare l’opera, bensì un’entità superiore di cui egli è tramite.

Di primo acchito la seconda prospettiva sembra assurda, figlia di fantasie pre-illuministiche che ancora tributavano poteri sovrannaturali a forze inesistenti. Edgar Allan Poe, per esempio, iniziatore non solo del genere poliziesco ma del racconto dell’orrore, si rivela illuminista per quanto concerne la creazione dell’opera poetica. Nel saggio Filosofia della composizione (1846, in The poetical works of Edgar Allan Poe, together with his essay on the philosophy of composition, Educational Publishing Company, Boston, New York) si propone di svelare i trucchi che gli autori “ispirati” spacciano come frutto dell’azione di qualche musa. Analizzando una delle sue opere più celebri, Il Corvo, Poe racconta i dettagli del processo che lo ha spinto a scegliere certe soluzioni poetiche invece di altre, riducendo tutto al brutale (ed efficace) bisogno di sortire determinati effetti nel lettore. In altre parole, secondo Poe Il Corvo sarebbe frutto unicamente dell’ingegno, un lavorio di costruzione costante che poco ha da spartire con il furore ebbro che ci si aspetterebbe da un artista romantico come lui. A differenza di Chabon, Poe sembra non aver mai perso il controllo del suo lavoro proprio perché il lavoro poetico è, secondo questa prospettiva, materia inerte e priva di una volontà propria che, al più, funziona male e non restituisce l’effetto sperato, un po’ come un orologio che non segna l’ora esatta.

Eppure, l’argomentazione di Poe, per quanto cristallina, mostra il fianco in più di un passaggio. Dopo aver determinato il tipo di testo (poesia, racconto, eccetera), il tono del testo, l’effetto che deve sortire (melanconia), Poe sente il bisogno di un ritornello che accentui l’effetto generale della composizione. Valuta quindi la sonorità di certe parole ed ecco che gli si presenta quasi autonomamente Nevermore: «In fact it was the very first [refrain] which presented itself» (p. 121). È una scelta lampante, impossibile da non sfruttare, visti gli obiettivi fissati durante la strutturazione dell’opera.

  Trovato il refrain, Poe scrive:

Here, then, immediately arose the idea (corsivo mio) of a non-reasoning creature capable of speech, and very naturally, a parrot, in the first instance, suggested itself, but was superseded forthwith by a Raven as equally capable of speech, and infinitely more in keeping with the intended tone (p. 121).

 

Ecco emergere un’altra idea: una creatura priva di ragione che ripete ossessivamente “Nevermore”. All’inizio doveva essere un pappagallo, poi sostituito da un corvo, che rende meglio l’idea di melanconia.

La domanda che sorge spontanea, viste le premesse di Poe, è: da dove sono emerse queste idee? Da dove è arrivato il refrain “Nevermore”? E la trovata della creatura parlante che finisce per essere il famigerato corvo? Stando a quanto detto da Poe nulla del Corvo è frutto del caso o dell’ispirazione, giacché è una poesia studiata a tavolino, ma allora come spiegare questo susseguirsi di idee? Di certo sono dovute a catene associative per cui rigirandosi più volte un problema per la testa ecco che la soluzione si trova, ma possiamo davvero dire che sia un processo equiparabile a quello della costruzione di un orologio? Nella costruzione di una macchina i pezzi sono determinati, si incastrano tra loro e, se montati bene, permettono alla macchina di funzionare. Poe ha cercato di ordinare i pezzi nella prima parte della Filosofia della composizione, descrivendo minuziosamente i passaggi che hanno portato a certe scelte poetiche. Ma cosa c’è di razionale e calcolato nella proposizione: “immediatamente emerse un’idea”? Da dove è arrivata l’idea della bestia parlante? È stato Poe a trovare l’idea o piuttosto l’idea sì è presentata a Poe “per conto suo”? Se Poe avesse davvero predeterminato tutto, allora non avrebbe avuto bisogno di farsi venire idee, sarebbero già state a disposizione, eppure tra tutti i refrain esistenti e tra tutti i volatili del creato, ecco che per un misterioso gioco combinatorio Poe mette in bocca “nevermore” a un corvo. Non possiamo dilungarci sulla questione della combinatoria della creatività, giacché entrerebbero in gioco temi di carattere estetico, di gusto, eccetera. Però domandiamoci: se una musa invisibile gli avesse sussurrato all’orecchio senza che se ne accorgesse? In quel caso Poe avrebbe creduto di essere l’autore assoluto del Corvo quando invece qualche altra forza era all’opera, suggerendogli non solo il miglior refrain, ma anche l’animale cui metterlo in bocca. Allora è Poe che ha scritto Il Corvo o è la poesia stessa che, a dispetto delle accortezze di Poe, l’ha spinto a farsi scrivere in quel modo? Che Poe fosse affetto inconsapevolmente dal male di mezzanotte?

 

  1. La totalità psichica junghiana

Se vivessimo ancora nella Grecia antica non troveremmo difficile credere che una musa abbia guidato la mano di Poe nella stesura del Corvo. Per una risposta scientificamente soddisfacente, però, non basta affidarsi alla mitologia. Se l’ipotesi più razionale dello scrittore come orologiaio sembra insufficiente a spiegare l’origine di un disturbo come quello di Grady Tripp, allora dovremo scandagliare l’altro polo della psiche che concorre alla creazione artistica: l’inconscio. Rivolgeremo dunque l’attenzione alla psicanalisi, sperando in maggior fortuna. L’impostazione teorica di Carl Jung in particolare potrebbe aiutarci a chiarire la natura del male di mezzanotte poiché, rispetto alla tradizionale concezione freudiana, essa prevede di riconoscere l’assoluta indipendenza dell’inconscio dall’Io, esattamente come il romanzo infinito di Grady Tripp o Il Corvo di Poe sembrano indipendenti dalla volontà dell’autore.

Se il fulcro della teoria Freudiana resta la cura dell’Io (smembrato e influenzato da Es e Super-Io), Jung si concentra sulla realizzazione di quella che definisce “totalità psichica”, il Sé, ovvero la somma di stati consci e inconsci dell’individuo. La teoria junghiana si complica ulteriormente giacché introduce nella sfera del Sé non solo i complessi individuali (Ombra), ma anche figure inconsce transpersonali comuni a tutti gli esseri umani, gli archetipi. Il cosiddetto inconscio collettivo è un’ipotesi e non potrebbe essere altrimenti, poiché se fossimo pienamente consapevoli dei suoi contenuti, allora non sarebbe più inconscio, ma pura coscienza. Possiamo conoscere gli archetipi solo attraverso la loro manifestazione culturale, mitica, religiosa, artistica oppure onirica: queste immagini irrazionali si traducono culturalmente nell’opera dell’uomo il quale ne è inconsapevolmente influenzato. Un archetipo ben noto alla psicanalisi è, per esempio, quello del Vecchio Saggio, ravvisabile tanto in mago Merlino quanto nello Zarathustra di Nietzsche. Non possiamo dilungarci in analisi di mitologia comparata e rimandiamo al nutrito campionario di esempi raccolto da Jung [cfr. C.G. Jung, Simboli della trasformazione (1912/1952), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2015]. Ciò che è rilevante ai fini della nostra indagine sul male di mezzanotte, ipotizzando la realtà degli archetipi, è proprio l’influenza che essi sortiscono sulla coscienza durante l’atto creativo.

Come detto, uno dei modi per individuare un archetipo (o un insieme di archetipi) è quello di analizzare i prodotti culturali dell’essere umano. Secondo Jung gli atti artistici si esercitano esattamente secondo una delle due modalità descritte all’inizio: o il processo creativo è guidato dalla coscienza (come rivendicato da Poe) oppure è condotto sotto l’influenza dell’inconscio. Sottolineiamo anche come per Jung gli unici veri atti creativi meritevoli di indagine (definiti “visionari”) sono quelli del secondo tipo poiché permettono alla psiche profonda di esprimersi quasi senza filtri.

Spogliata della sua veste mitologica e ricondotta a un regime clinico, ecco che la Musa che dirige il processo creativo altro non sarebbe che una pulsione inconscia. Questa prima considerazione sembra triviale, ma solo perché siamo abituati a considerarla alla luce della psicologia freudiana in cui l’Io occupa il centro della dimensione psichica. Per Freud sono al più i complessi individuali a influenzare, se sublimati, la creatività o il genio artistico, cosicché lo studio della biografia dei grandi della storia dovrebbe rivelare i motivi profondi alla base delle loro creazioni. In altre parole, Freud riduce il processo artistico a una forma nevrotica. Ciò potrebbe anche essere vero e un personaggio come Grady Tripp offrirebbe materiale in abbondanza a un analista, ma allora non si spiega come mai tutti i nevrotici non sono artisti e viceversa. I complessi individuali giocano un ruolo nella creazione artistica, ma non sono sufficienti a darne piena descrizione.

Secondo Jung il processo creativo (almeno nella seconda declinazione) andrebbe inteso come qualcosa di svincolato dalla volontà dell’Io. Abbiamo detto che Jung considera l’inconscio come una realtà del tutto indipendente dalla coscienza, tanto che nel Libro Rosso affermerà che non possediamo i nostri pensieri esattamente come non possediamo gli alberi di una foresta: i pensieri “accadono” come fenomeni naturali [cfr. C.G. Jung, Il Libro Rosso. Liber Novus (2009), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 73]. Se l’inconscio è altro dall’Io, una sorta di doppio oscuro, allora esso agisce dietro le quinte del processo creativo, lo dirige e lo guida in modo simile ai sogni. Non scegliamo del tutto cosa scrivere nello stesso modo in cui non scegliamo cosa sognare. Il processo comunque non è lineare e l’archetipo non si esprime mai del tutto: per emergere deve prima agglutinarsi attorno ai complessi individuali, giacché si trovano a un livello superiore nella stratificazione psichica. In seguito questa commistione di complessi personali e transpersonali si confronta con la coscienza e dall’interazione tra queste due componenti psichiche dipende l’esito del processo. Se il contenuto archetipico non fosse mediato dalla psicologia individuale, allora il Vecchio Saggio, per esempio, si esprimerebbe sempre nello stesso modo, mentre storicamente ne ravvisiamo versioni sempre diverse a seconda dell’autore che ne viene “posseduto”. Tale possessione, però, può essere sia benefica che distruttiva, poiché dipende dal modo in cui l’Io decide di confrontarsi con le pulsioni che vogliono possederlo.

Non è raro, infatti, che un creativo subisca gli effetti della cosiddetta inflazione psichica. Quando una delle due parti, conscio o inconscio, prende il sopravvento sull’altra spezzando l’equilibrio necessario al benessere psichico, ecco che si verifica un’inflazione. Da un lato, per esempio, può capitare che l’Io posseduto da un archetipo creda di essere quello stesso archetipo: un esempio storico è il Nietzsche del crollo psicologico, il quale asseriva di essere Dioniso incarnato e tutti i nomi della storia. L’ipertrofia egoica tipica degli artisti li porta a credere di essere padroni della propria opera (come Poe), misconoscendo la componente transpersonale che ha agito attraverso di loro così come la Musa cantava per bocca del poeta greco.

Quel che Chabon racconta con la formula “male di mezzanotte” descriverebbe adeguatamente ciò che per la psicologia clinica è un vero e proprio squilibrio tra conscio e inconscio. L’inflazione agisce anche in senso contrario: durante il processo creativo la pulsione archetipica può soggiogare un Io debole, travolgendolo e deprimendolo, rendendolo non più posseduto, ma schiavo del processo stesso. Sembra questo il disturbo che affligge il Grady Tripp di Wonder Boys: uno scrittore consapevole dell’esistenza di una zona d’ombra nella sua psiche, di un doppio che cospira alle sue spalle, eppure troppo debole per affrontarlo. Nel corso del romanzo Grady si fa trascinare dagli eventi senza mai prendere le redini della sua vita; guidato ciecamente dalle forze telluriche dell’inconscio ne è vittima consapevole e, più di tutto, connivente. La parte conscia di Grady sa che Wonder Boys, il romanzo al quale lavora ossessivamente, è fuori controllo, sa che è il romanzo a possederlo per crescere e autoalimentarsi come una oscura divinità lovecraftiana, così come sa che la sua vita sta andando a rotoli in un intreccio di rapporti clandestini e abuso di droghe. L’Io cosciente di Grady sa tutto questo, ma è sopraffatto dal male di mezzanotte. Grady è dissociato, inflazionato, guarda la propria vita dall’esterno mentre qualcun altro che non è lui (un insieme di complessi autonomi, l’archetipo dell’Eroe maledetto, chissà) vive al posto suo. Il processo creativo diventa un alibi, il romanzo infinito un orizzonte in cui dissolvere il proprio ego, annullandosi.

Concludendo, il male di mezzanotte esprime narrativamente un disturbo dissociativo in agguato per chiunque assecondi la propria vena creativa. Invece di un mezzo per esprimere il Sé più profondo, l’arte può rivelarsi una gabbia dorata in cui rifugiarsi per eludere il proprio Io, un alibi come tanti per dimenticarsi di vivere.

 

 

 

Adil Bellafqih è cultore della materia in Storia delle idee presso l’Università di Modena e Reggio Emilia

corradino13@gmail.com

 

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