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Luciano Floridi – La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo [tr. it. a cura di Massimo Durante, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017]

«Stiamo lentamente accettando l’idea per cui non siamo agenti newtoniani isolati e unici, ma organismi informazionali, inforg, reciprocamente connessi e parte di un ambiente informazionale (infosfera), che condividiamo con altri agenti informazionali» (p. 106).

Se è vero che l’umano è l’animale con la più spiccata enfasi comunicativa e che nella sua breve ma intensa storia «ha vissuto in diversi generi di società dell’informazione» (p. 3), è tuttavia indiscutibile che la contemporaneità costituisca il luogo di una rivoluzione di portata inedita, i cui effetti e le cui conseguenze, ancora non siamo in grado di misurare né prevedere.

Il potere computazionale che le lo sviluppo e la diffusione capillare delle ICT determina, conduce Floridi a parlare dell’inizio di un’“iperstoria” nella quale le tecnologie stesse assumono un volto inedito: la modernità meccanica era intrinsecamente legata all’uomo e alle sue prassi, Prometeo creava la tecnica ed essa agiva sulla natura, modellandola secondo le esigenze del suo demiurgo. Nelle cosiddette “tecnologie di terz’ordine”, l’uomo guarda dal di fuori un processo che si autoalimenta e semplicemente ne giova in quanto beneficiario.

Il mondo di cose, di oggetti che da sempre ha costituito lo scenario rassicurante di ogni esistenza, si fa gradualmente più etereo e si traduce in termini informazionali.  

Nuove tecnologie del sé fanno capolino all’orizzonte: i social media determinano una rinnovata possibilità di costruzione «online dell’identità» (p. 74). Se già Darwin aveva intuito che l’uomo è un prodotto che si costituisce nel lungo processo dell’evoluzione, la nostra stessa identità nell’epoca digitale «è concepita come un artefatto socio e/o autobiografico», da produrre, riprodurre e modellare costantemente, attraverso processi di feedback infiniti. Il sé infatti, «osserva l’osservazione di se stesso posta in essere da altri sé […] utilizza la rappresentazione digitale di se stesso posta in essere dagli altri per costruire un’identità virtuale tramite la quale aspira ad afferrare la propria identità personale» (p. 83).

Il sé allora coincide con le sue informazioni, è narrazione ininterrotta e proteiforme, continuamente cangiante, che ciascuno produce in tempo reale, relazionandosi costantemente con l’approvazione o disapprovazione dell’altro, spettatore e al contempo forgiatore della propria e altrui identità.

In questo modo anche il rapporto col tempo e la memoria subisce dei cambiamenti: l’esorbitante possibilità di esternalizzare il ricordo su database molto più capienti del nostro archivio biologico – legato così fragilmente a oggetti, quisquilie e dettagli – la possibilità di archiviare e conservare in eterno noi stessi e le nostre performance, determina un modo inedito di rapportarsi al passato e di utilizzarlo per generare futuro. Il ricordo, un tempo soggetto alla fortuità di una madeleine, diventa adesso sempre più rigidamente condizionato, quasi assistiamo a una sorta di coazione al ricordo, anche di ciò che non ci piace, di ciò che appare scomodo e inopportuno. Ma se è vero, come voleva Nietzsche, che l’oblio è in molti casi utile alla vita, come si rapporteranno questi novelli sé all’ipertrofia della memoria causata dalle ICT?

Le rigide partizioni dicotomiche tra organismo e ambiente, reale e virtuale, corpo naturale ed estensioni artificiali, vanno lentamente scomparendo, in effetti, sostiene l’autore, «siamo l’ultima generazione a fare esperienza della chiara distinzione tra ambiente online e offline» (p. 107).

E tuttavia, precisa Floridi, non è necessario evocare scenari fantascientifici, ciò che accade è meno sensazionale di quanto sembra: inforg, infatti, non è cyborg; questa idea obsoleta risente ancora del dualismo di matrice cartesiana che prevede un agente corporeo isolato e le sue protesi macchiniche atte a garantire il controllo dell’ambiente circostante.

Semplicemente, sostiene l’autore, le nostre ICT fanno alcune cose meglio di noi, perciò modificano e creano l’ambiente in cui viviamo. In effetti quando parliamo di trasformazioni, esse vanno riferite all’ambiente che ci circonda e agli agenti che vi operano, più che a «qualche trasformazione biotecnologica del nostro corpo» (p. 109). Allora bisogna considerare le ICT come «forze che modificano l’essenza del nostro mondo poiché creano e ri-costruiscono interamente realtà che l’utente è in grado di abitare» (p. 110).

Da veri migranti informatici stiamo gradatamente ma inesorabilmente varcando i limiti dello spazio fisico newtoniano, per colonizzare i nuovi spazi informatici. Ultima generazione di migranti, poiché per i nativi digitali non vi sarà alcuna differenza ontologica né alcun tipo di gerarchia fra infosfera e mondo fisico; essi si muoveranno disinvoltamente tra l’una e l’altro senza soluzione di continuità.

Si disgrega dunque il soggetto cartesiano e con esso l’epopea dell’individuo moderno, e tutta la sua tribolata interiorità, la sua intimità da custodire e preservare. L’identità polimorfa versatile e metamorfosata da costruire ogni giorno off e online ha ancora bisogno di tutte quelle garanzie rispetto alla sua privacy e alla sua intimità? In altre parole: «la vita privata è ancora come voleva la Woolf, il più prezioso dei nostri beni?» (p. 116). La sovraesposizione mediatica cui ogni giorno volontariamente ci esponiamo, sembra riflettere un nuovo soggetto incurante di preservare una propria dimensione intima e per certi versi intoccabile e inattingibile.

Secondo Floridi «piuttosto che concepire una distinzione tra privato e pubblico, i giovani concepiscono i contesti sociali come molteplici e intersecanti» (p. 121).

In effetti, quello della privacy è il grande dilemma dell’iperstoria, o, ci sarebbe da riflettere, il dilemma dei reduci del vecchio mondo. C’è da chiedersi infatti, quanto le nuove generazioni, coltivate e cresciute in un diverso “liquido amniotico”, risentano della ipervisibilità e della mancanza di una dimensione integralmente intima, dacché, la cosiddetta generazione Z «sta già crescendo in un’infosfera caratterizzata da doppia negazione: quella dell’a-anonimato» (p. 122).

Molti pensano che l’evoluzione delle tecnologie, sempre più performative e intelligenti, determini proporzionalmente un impigrimento di coloro che se ne servono; in altre parole mentre la tecnologia avanza, noi diventiamo sempre più stupidi. In realtà queste previsioni apocalittiche non reggerebbero alla prova dei fatti: i computer sono e restano delle macchine puramente sintattiche che «possono maneggiare distinzioni elementari […] ma non sono in grado di apprezzare le caratteristiche semantiche degli enti coinvolti e delle loro relazioni» (p. 156).

Se risulta perturbante, almeno per alcuni, discutere dei cambiamenti che le ICT determinano nel modo di costruire l’identità individuale, le relazioni interpersonali, gli scambi e gli acquisti, la cosa diventa ancor più inquietante e complessa laddove si passi dal micro al macro, dall’individuo e le sue prerogative, alla politica, agli stati, ai diritti e all’etica. Democratizzazione delle agenzie informazionali, deterritorializzazione dell’esperienza umana, formazione reticolare di gruppi flessibili che si aggregano e disgregano con maggiore facilità rispetto alle tradizionali agenzie come partiti politici o sindacati.

Secondo l’autore sarebbe in atto un processo di “apoptosi politica”, intesa come «graduale e naturale processo di rinnovamento degli stati sovrani in società dell’informazione» (p. 195). Se l’età moderna ha significato età dello Stato come «principale agente informazionale, che legifera e cerca di avere il controllo sugli strumenti tecnologici coinvolti nel ciclo di vita dell’informazione» (p. 198), la contemporaneità si sviluppa al contrario attraverso una pluralità di agenti informazionali, spesso più potenti dello stato stesso, in grado di determinare decisioni ed eventi politici. L’evoluzione e l’affermarsi delle ICT prevede dunque un passaggio dal governo centralizzato a forme di governo reticolari, distribuite, di coordinazione internazionale e globale. Il potere in teoria risulterebbe “democratizzato”, nel senso che tutti hanno accesso ai dati e tutti possono processarli. Questa presupposta democratizzazione tuttavia determina una nuova tensione tra potere e forza: «mentre il potere è informazionale ed è esercitato tramite l’elaborazione e la diffusione di norme, la forza è fisica ed è esercitata allorché il potere non è in grado di orientare i comportamenti degli agenti rilevanti e occorre allora fare rispettare le norme con quest’ultima» (p. 203).

La democrazia diventa dunque digitale: «i cittadini eleggono i propri rappresentanti, ma possono costantemente influenzarli quasi in tempo reale per mezzi dei sondaggi d’opinione» (p. 204). Come tutti i sistemi complessi, il sistema politico multiagente necessita di un’infrastruttura etica, infraetica,intesa come «un quadro non già definito in termini etici di aspettative, attitudini e pratiche implicite che può agevolare e promuovere decisioni e azioni morali» (p. 221).

Quest’ethos diventa anche cura per gli ambienti nei quali viviamo. E se è vero che si assottiglia, fino a perdere consistenza,la differenza fra mondo reale/naturale e mondo virtuale/artificiale è ancor di più vero che la cura e la tutela deve essere estesa a tutti gli ambienti di vita. Si tratterebbe dunque di un «approccio che non privilegia il naturale o ciò che è incontaminato, ma tratta come vere e genuine tutte le forme di esistenza e di comportamento, anche quelle basate su artefatti sintetici, ibridi, artificiali […] Il compito dunque è quello di formulare un quadro etico che possa trattare l’infosfera come un nuovo ambiente meritevole di cura e di attenzione morale da parte degli inforg che la abitano» (p. 254).

All’ambientalismo militante che cerca oggi più che mai di salvare il salvabile, dovrebbe dunque affiancarsi un ambientalismo digitale e sintetico, nel senso di olistico, che sia in grado di ripensare i nostri modi di abitare e che costruisca finalmente un ethos in grado di riconciliare naturale e artificiale.

 

Fabiana Gambardella

S&F_n. 22_2019

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