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Giovanni Scarafile – Etica delle immagini [Morcelliana, Brescia 2016]


«Anche nel recente passato, non è mancato chi ha ritenuto che l’interesse per le immagini non potesse riguardare la filosofia morale, ma soltanto l’estetica» (p. 7), quello che, in prima istanza Scarafile vuole mostrare con questo testo è l’infondatezza di questa affermazione, che tra bene e bello non c’è solo una fragile, addirittura casuale, prossimità, ma che essi sono profondamente, inestricabilmente legati. In quest’ottica l’etica delle immagini non indaga o riguarda solo il contenuto delle opere d’arte, il loro poter essere o essere state portatrici di un messaggio considerato deteriore, da censurare o piuttosto edificante. Nemmeno soltanto, come suggerisce Nussbaum nel suo Giustizia poetica, la facoltà garantita, con un po’ di esercizio, dall’esperienza della lettura e della visione, di vivere vite non nostre, immaginarci in contesti altri, coltivando così l’empatia e la compassione (p. 25). Esiste un’alleanza inscindibile, un nesso inestricabile, sottolinea l’autore, tra bello e bene morale che affonda le sue radici nella Critica del giudizio in cui elemento etico ed estetico vengono messi in constante connessione.

A partire da questo assunto il libro si sviluppa su tre vettori, il primo riguarda il legame tra senso, valore e immagine, il secondo si interroga sulla possibilità del prodotto fotografico – più o meno artistico – di restituire la realtà per quella che è, nella sua pretesa oggettività, infine l’autore si chiede quale sia il ruolo e il contributo di chi guarda l’immagine, dello spettatore.

Partendo dall’incrocio di questi tre piani del discorso, vorrei individuarne un quarto che mi sembra faccia da sfondo agli altri e all’intero testo: il senso di un’urgenza, il bisogno di ridurre la crepa che rischia di formarsi tra chi guarda – e guardando, come vedremo, interpreta, rielabora, estende ciò che viene osservato oltre i suoi limiti e confini – e l’immagine in virtù della sua possibilità di essere falsificata, e dunque di restituire una prospettiva totalmente distorta e inutilizzabile, ma anche, e soprattutto, di sopravanzare, per velocità e quantità, l’osservatore stesso, di renderlo, come avrebbe detto Günther Anders, antiquato.

Per un verso l’immagine, ci riferiamo qui in particolare all’immagine fotografica, contiene sempre un residuo, eccede chi la guarda ma anche chi la scatta; proprio come accade nelle foto delle isteriche di Charcot, al centro di un celebre testo di Georges Didi-Huberman (L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotografica della Salpêtrière, 2009) cui pure Scarafile rimanda (p. 64 e sgg.), il quadro fissato (un tempo) sulla pellicola non realizza il sogno positivista di una rappresentazione oggettiva della malattia, ma anzi ne conferma l’impossibilità, lo rovescia in mito. Augustine e le altre rivelano a ogni scatto come il metodo sperimentale del dott. Charcot consista nell’arte di ottenere dei fatti, più che di mostrarli. Non si tratta di semplice messa in scena – se così fosse potremmo archiviare velocemente il lavoro del medico francese come mera falsificazione, frode, e disinteressarcene – piuttosto le immagini delle presunte sofferenti psichiche della Salpêtrière dicono della difficoltà di addomesticare le immagini, orientarle, ridurre a un unico piano interpretativo il loro senso e portato. L’immagine è in condizione di rimandare a qualcosa di impalpabile, di invisibile, mai totalmente gestibile o coglibile né dal soggetto, né dallo spettatore, né dal fotografo; «la foto fugge, si sottrae al controllo dell’osservatore e mostra l’azione di un elemento anarchico, del tutto estraneo al contesto. Anarchico è, per definizione, ciò che sfugge a una catalogazione, ciò che è senza principio» (p. 70).

Ma l’immagine non è solo ciò che sfugge e che eccede, si trova sempre in bilico tra sovrabbondanza e carenza, custodisce più di quello che immediatamente sembra rappresentare, proprio perché contiene in sé questo residuo e non è mai completamente catalogabile, ma è anche sempre mancante: ciò che le manca per essere “completata” è il contributo dello spettatore.

«Le immagini hanno un particolare potere di fascinazione che costringe a non rimanere indifferenti, a prendere posizione, al tempo stesso proprio tale disponibilità esigente il completamento immaginativo di ciò che emerge nella visione, consente di affermare che le potenzialità insite in un’immagine non si danno mai immediatamente, ma che anzi necessitano di una mediazione. (…) mediante l’immagine, che è visibile, si rimanda a qualcosa di non immediatamente dato, che è invisibile quindi. Esiste pertanto un sentiero che conduce dal visibile all’invisibile, dal sentire al pensare» (G. Scarafile, D.E. Viganò, L’adesso del domani: raffigurazioni della speranza nel cinema moderno e contemporaneo, 2007, pp. 62-63); lo spettatore descritto da Scarafile è dunque uno spettatore creativo, che opera questo completamento immaginativo, che nell’osservare e interpretare l’immagine partecipa alla costruzione e creazione del suo significato (p. 73). Lo spettatore prende posizione – potremmo dire brechtianamente – rispetto all’immagine non aderendovi completamente, diffidando cioè della sua completezza e pretesa oggettività, dell’idea che essa già contenga in sé la pienezza del significato, e non allontanandosene del tutto, ma operando una «messa a distanza: questa sarà la presa di posizione per eccellenza. Ma bisogna comprendere che non c’è niente di semplice in un tale gesto. Mettere a distanza non significa accontentarsi di allontanare: si perde di vista a forza di allontanare, quando mettere a distanza suppone, al contrario, di aguzzare il proprio sguardo. (…) Si tratta prima di tutto di costruire i mezzi estetici di una critica dell’illusione, ovvero di aprire in campo drammaturgico lo stesso genere di crisi della rappresentazione già all’opera nella pittura con Picasso, nel cinema con Eisenstein o in letteratura con Joyce. (…) Significa fare dell’immagine una questione di conoscenza e non di illusione» [G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position. L’œil de l’histoire, 2009, pp. 66-67 (trad. mia)].

La consapevolezza che l’immagine non è pienamente oggettiva, nella misura in cui non può rappresentare interamente il reale, ma che è il raccordo tra ciò che è visibile e l’invisibile, tra una forma e il suo significato, non è il suo limite, ma la sua forza peculiare. Nel processo di riempimento e svuotamento (p. 73), di eccesso e mancanza, lo spettatore riesce a elaborare, a dare forma, ordine e nome alle proprie esperienze, rendendole utilizzabili, dal punto di vista cognitivo, ma anche e soprattutto etico. Le immagini richiamano ad un fascio inestricabile di valori – etici, estetici, politici, spirituali, sociali – ci “convocano”, tutti interi, con il nostro bagaglio di convinzioni, sensazioni, gusti, esperienze, organizzandone il senso.

La capacità delle immagini di dare ordine e senso all’esperienza deve però fare i conti con due problemi: con la possibilità della loro falsificazione e con la nostra capacità di servirci e non di essere soverchiati dalla sovrabbondanza di immagini a nostra disposizione.

Riguardo alla prima questione possiamo dire che sia nata con la nascita stessa della fotografia: pensiamo alle fate di Cottingley, al presunto cormorano del Golfo, alle foto di una Parigi deserta all’indomani degli attentati del 2015, riproposte da Scarafile (p. 77 e sgg.); queste immagini distorte o perché rimaneggiate (come nel caso delle fate) o perché associate ingannevolmente alla realtà che si pretende di descrivere (il cormorano annegava altrove nel petrolio e le strade vuote della capitale francese erano state immortalate in precedenza, quando non c’era alcun allarme terrorismo) hanno ancora la capacità di connettere produttivamente la nostra esperienza con il reale, il nostro orizzonte estetico e quello etico?

E ancora nell’eccesso (M. Augé, Nonluoghi, 2009, p. 40 e sgg.) di immagini, nell’accelerazione e nella trasformazione dei modi e dei mezzi tramite cui esse ci vengono sottoposte siamo tuttora in grado di utilizzarle come strumento interpretativo o non siamo forse continuamente in affanno, a meno di non ripensare radicalmente questa relazione?

Scarafile ricorda la figura di Johan Huizinga (p. 38 e sgg.) che di fronte alla crisi, ma anche alle rapide trasformazioni del suo tempo, nel 1935 scrive, a proposito della radio, del cinematografo e in particolare dello sguardo cinematografico che esso provoca, rispetto alla lettura, «l’atrofia di intere sezioni di funzioni intellettuali» e che induce lo spettatore alla dimensione «dell’abbandono e della trasfusione» (J. Huizinga, La crisi della civiltà, 1963, p. 45, cit. in Scarafile). Se per il pensatore olandese il linguaggio delle immagini allontana dall’autentico pensare (p. 41) è legittimo ipotizzare che esso finisca anche per rendere inutilizzabili le sue categorie e gli schemi fino ad allora egli considerava adeguati ed efficaci. L’interrogativo che resta aperto nel libro di Scarafile – che sottolinea come, rispetto alle parole, alla scrittura, «per la dinamica da esse presieduta le immagini si sottraggono ad una tale consunzione» (p. 42) – riguarda proprio questo: la nostra capacità di non essere sopravanzati, oggi, da strumenti e modalità di diffusione delle immagini che rendono le nostre categorie e modalità di relazione ad esse, e dunque anche noi stessi, irrimediabilmente in ritardo.

Viola Carofalo

S&F_n. 19_2018

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