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Gaston Bachelard – La filosofia del non. Saggio di una filosofia del nuovo spirito scientifico – tr. it. a cura di G. Quarta [Armando Editore, Roma 1998, pp. 159, € 15]


A due anni di distanza dall’uscita de La formation de l’esprit scientifique, Bachelard pubblica nel 1940 La philosophie du non, opera nella quale l’epistemologo si interroga sul ruolo che deve assumere la filosofia e sui compiti che deve svolgere nei riguardi della scienza. Punto di partenza è l’idea che la filosofia deve abbandonare le sue posizioni consolidate ponendosi in aperta rottura con la tradizione razionalistica precedente: in quanto filosofia propria del nuovo spirito scientifico deve avere il coraggio di porsi come una “filosofia del non” ripensandosi a partire dalla definizione di una ragione plurale e dispersa. Il compito è duplice, allora: da un lato comprendere quali debbano essere le relazioni tra filosofia e scienza attraverso un movimento che va dal presente verso il passato, dall’altro, una volta definite queste, cercare di descrivere quale sia il posto della filosofia all’interno dello sviluppo dello spirito umano.

Il problema della posizione della filosofia nei riguardi delle nuove scoperte e delle nuove metodologie che andavano maturando all’interno della prassi scientifica ha rappresentato un problema fortemente sentito e ampiamente discusso nei primi decenni del secolo XX: la critica di Carnap (illustre rappresentante del Circolo di Vienna) a Heidegger (considerato come un filosofo inattuale per il suo interesse per l’ontologia e la metafisica) attorno alla verificabilità dell’enunciato metafisico (cfr. R. Carnap, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio in Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, UTET, Torino 1969, pp. 504-532. Per le risposte di Heidegger e la relativa problematizzazione cfr. invece la Nota introduttiva di F. Volpi in M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, pp. 20-34); o la funzione euristica che Popper concedeva al pensiero metafisico sono il segnale più evidente di un problema che presentava (e presenta) una grande difficoltà.

Per Bachelard «la filosofia delle scienze rimane troppo spesso confinata alle due estremità del sapere» scandito dallo «studio dei principi troppo generali, per i filosofi» e da «quello dei risultati troppo particolari, per gli scienziati» per cui viene limitata da due importanti ostacoli epistemologici: «il generale e l’immediato»; questi due ostacoli portano allo scacco sia l’empirismo in quanto «ha bisogno di essere capito» sia il razionalismo in quanto «ha bisogno di essere applicato» (pp. 36-37). Quello che vuole dire il filosofo è che da un lato l’empirismo necessita di leggi generali per non rappresentare una semplice collezione di fatti e dall’altro il razionalismo ha la necessità di “provarsi” all’interno della realtà immediata per non rappresentare una pura costruzione di pensiero.

Bisogna, allora, sforzarsi di comprendere quale sia il modo di uscire da questa dicotomia o, per dirla con Bachelard, di andare al di là di una «filosofia chiara, rapida, facile, ma che rimane una filosofia da filosofo» (p. 39). Pur prediligendo tra le due strade “metafisiche” quella del razionalismo (in quanto il suo movimento si ha dalla ragione verso l’esperienza), quest’ultimo deve essere ripensato alla luce di un’apertura che si fonda sulla percezione che la coscienza ha dell’ignoto nel senso di una ricerca di ciò che contraddice assolutamente qualsiasi conoscenza anteriore.  

Lo sforzo che compie Bachelard è quello di riattivare la funzione dialettica come fondamento di una filosofia del non. È necessario sottolineare il senso che Bachelard dà al termine dialettica definendola non come costruzione concettuale all’interno della quale leggere e interpretare lo sviluppo delle scienze in maniera tale da scriverne una “storia dialettica” quanto piuttosto come «preoccupazione di mettere in discussione i risultati acquisiti» e «azione polemica incessante della ragione»; insomma essa«non può affatto mobilitarsi intorno a dialettiche hegeliane» (p. 143). La filosofia del non, allora,si muove contro ogni tentativo di costruzione di una totalità a priori. La dialettica come struttura delle scienze ha in Bachelard la funzione epistemologica (e “psicoanalitica”) di dare la possibilità allo spirito scientifico di disimparare ciò che ha imparato e che si è sedimentato e stratificato nella coscienze e di fondare un modello gnoseologico mobile e continuamente autoattivantesi. La funzione dialettica della “nuova” filosofia dovrebbe porsi nei confronti della storia delle scienze in maniera differente: dal punto di vista sincronico rendere conto dei paradigmi conoscitivi propri di un’epoca e della specifica razionalità che li regge; dal punto di vista diacronico rendere conto dello sviluppo scientifico a partire da elementi di rottura e elementi di continuità tra le varie epoche (in un certo senso la funzione dialettica cerca di connettere esigenze continuiste e discontinuiste nell’ottica di una vera e propria genealogia della conoscenza scientifica: genealogia e non “semplice” ricostruzione storica).

Se questi sono i presupposti della nuova filosofia (filosofia che deve ripensarsi a partire dal nuovo spirito scientifico, ripensarsi e avere, comunque, come proprio oggetto le scienze) bisogna anche sottolineare che essa si muove verso un progresso costante e un’approssimazione sempre maggiore nella costruzione fenomenotecnica della verità. Il percorso che deve seguire è caratterizzato (e risulta immediatamente evidente) da un rifiuto del razionalismo cartesiano: i principi che vanno abbandonati sono quelli dell’evidenza e della descrizione all’interno della prassi scientifica e della razionalità che le è propria. La filosofia della scienza è non-cartesiana nel momento in cui abbandona l’ambiguità propria dello stato astratto-concreto e comprende la necessità di una formalizzazione in senso tecnico-matematico. Il razionalismo cartesiano rappresenta, per l’appunto, l’esempio più limpido di «filosofia da filosofo» (cui si accennava prima) in quanto sclerotizza il movimento di negazione che deve essere proprio di ogni filosofia per cui «una sola verità basta per uscire dal dubbio, dall’ignoranza, dall’irrazionalismo»; ma questa «luce unica» fa sì che «lo spirito viv[a] un’unica evidenza» e «non cerc[hi] di crearsi altre evidenze» (p. 39). Una filosofia aperta «che accetta variazioni riguardo all’unità e alla perennità dell’io penso, deve turbare il filosofo» (p. 40).

Il razionalismo bachelardiano muove, inoltre, una critica e propone un capovolgimento della distinzione ontologica kantiana di fenomeno e noumeno: Bachelard, ponendo in continuità il concetto di evidenza di Cartesio e la gnoseologia kantiana a partire dal fenomeno e criticandoli come empirismo che fonda la prassi scientifica a partire dall’analisi fenomenica del reale, propone un’inversione radicale: è il noumeno a costituire la base di conoscibilità del fenomeno: «forzando il discorso, per fare risaltare il paradosso, potrei dire: il noumeno spiega il fenomeno contraddicendolo» e ancora «si può spiegare il fenomeno con leggi noumeniche che non sono le leggi del fenomeno» (p. 81).

È chiaro, dunque, che il tentativo di costruzione di un’epistemologia storica e psicoanalitica si accompagna alla sfiducia verso i grandi sistemi della razionalità occidentale propri della prima e della seconda modernità: se il nuovo spirito scientifico ha insegnato che il razionalismo cartesiano e kantiano deve essere abbandonato a causa della sua empiria, l’impostazione epistemologica e la psicoanalisi della conoscenza oggettiva (in poche parole il Freud letto e interpretato da Bachelard, un Freud sicuramente particolare e poco “ortodosso”) segnano la fine della possibilità della ricostruzione storica della cultura a partire da un movimento totalizzante proprio di una ragione che si dispiega e produce il reale. 

Ed è proprio grazie a questa spregiudicatezza nell’affrontare i grandi problemi dell’epistemologia e della filosofia tout court che Bachelard ha segnato anche le generazioni successive e se tanta filosofia francese della seconda metà del XX secolo ha lavorato a una decostruzione della modernità non attraverso le vie dell’irrazionalismo ma attraverso la consapevolezza di una ragione plurale, dispersa, inesatta e non necessariamente orientata, innervando un’epistemologia di matrice bachelardiana sulle scoperte e le esperienze dello strutturalismo, solo a partire da tutto ciò è stato possibile che si producesse quell’esperienza di pensiero assolutamente francese caratterizzata da un ripensamento dello storicismo, dell’umanismo, del razionalismo.  

Delio Salottolo

08_2009

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