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Emilia Marra – Mantenere insieme. Strategie del sistema nella Francia post-strutturalista [Meltemi, Milano 2023]

Lo statuto epistemico di una pratica epistemologica non è riducibile alla strutturazione di un metodo e di una logica. Deve esserci certamente un metodo a fondare ogni tentativo di presa sul reale, oppure una proliferazione di metodi raggruppabili in posture teoretiche (filosofiche, metafisiche, ontologiche); allo stesso modo, vi è la proliferazione di ordini logici, differenti tra loro a seconda delle varietà strutturali degli elementi da articolare logicamente e, con essi, dei loro supporti. Tuttavia, ancora, lo statuto epistemico di un’epistemologia non è riducibile a questi soli due punti. Se così fosse, insomma, ogni metodo particolare e ogni logica specifica non potrebbero che rivelarsi delle cosmologie ingenue, cieche, a prescindere dal modo in cui si voglia intendere l’ordine cosmologico (cosmologia del concetto, della natura, degli oggetti e così via…). Non vi è nessuna epistemologia che possa dirsi cieca davanti alle sue stesse modulazioni possibili. Rendere conto di una simile trasversalità non è il compito né di un metodo né di una logica, ma di alcuni strumenti epistemologici specifici che attraversano tanto lo sviluppo storico e diacronico tanto quello regionale e sincronico delle teorie. Essi sono delle invarianti che indicano, per ogni metodo e per ogni logica, la cifra della loro alterazione, della loro modulazione, raggirando in questo modo qualsiasi incommensurabilità tra i metodi e tra le logiche. Tali strumenti assolvono questo compito attraverso delle trasformazioni che restituiscono l’entità del mutamento di una postura epistemologica, ma soprattutto permettono di cogliere le mutazioni e le specificità di ogni teoria.

Tra gli strumenti epistemologici più nobili, insieme alla funzione o al trascendentale o allo stile, vi è il sistema, indagato nella sua modulazione storica e teoretica da Emilia Marra nel suo importante Mantenere insieme. Strategie del sistema nella Francia post-strutturalista (d’ora in poi, MI), volume denso e non privo di felici originalità, sia sul piano degli studi sulla filosofia francese contemporanea, sia sul piano della filosofia dei sistemi. Il volume, diviso in tre parti, mette in atto un’operazione lucida e ben calibrata: a partire da un’indagine sulla nozione di sistema così come è giunta nella Francia post-strutturalista, ci si propone di indagare la specificità, rispetto al concetto di sistema, del momento francese del secolo scorso, per poi focalizzare le opere di Foucault, Derrida e Deleuze, conservandone intelligentemente i tratti di eterogeneità. «L’attenzione al sistema permette di individuare, all’interno di quei testi, la trasformazione alla quale il concetto va incontro, senza per questo rinunciare alle singolarità delle traiettorie tracciate» (p. 16).

Dunque, il primo capitolo (Io metto insieme) ha in verità un duplice intento. Il primo è storico, e rintraccia i paradigmi entro cui la cosmologia ha mutato una certa ontologia degli insiemi o, meglio ancora, una certa metafisica dei gruppi; il secondo intento è schiettamente epistemologico, e indaga la mutazione di alcuni modelli del sapere e, nello specifico, l’influenza della modernità filosofica nel contesto in cui il post-strutturalismo inizia a formarsi. Le rifrazioni teoriche, in effetti, agiscono sempre in modo molto chiaro: dal contesto francese immediatamente precedente ai poststrutturalisti (quello di Koyré e Kojève o persino quello successivo di Althusser), si ritorna alle loro fonti (da Spinoza agli enciclopedisti, Kant e Hegel) per poi ritornare in terza battuta al post-strutturalismo senza focalizzarne ancora le peculiarità autoriali. Si tratta di un metodo convincente, soprattutto perché permette di riscoprire e sdoganare alcuni problemi che i dibattiti specialistici degli ultimi anni hanno rischiato di occultare, come ad esempio l’affaire dello hegelismo nella Francia contemporanea, il rapporto tra concettuale e non-concettuale, il problema della dialettica o la stessa nozione di post-strutturalismo. Bisogna innanzitutto focalizzare un punto di avvio e un punto di arrivo di questo primo capitolo. A proposito dei sistemi idealistici della filosofia classica tedesca, si noti come la nozione di «sistema diventa allora il nome di [una] dinamica, di questo porre e al contempo contestare, un ruggito anti-fondazionalista che non è altro che il lato negativo dell’auto-fondazione, e che è sostanzialmente divenire» (p. 25). Ci si riferisce allo scarto tra la positività fondativa di un’epistemologia del fenomeno (Kant) e la rimozione di qualsiasi fondazione oggettuale nella scienza filosofica, intesa dall’idealismo come «pratica del districare e del mettere in questione, la più radicale di tutte le scienze, perché capace di riconoscere i presupposti come presupposti, movimento di eliminazione del proprio carattere presupposizionale, che pure è la sua condizione di possibilità» (ibid.). È su questo piano che, dopo l’illuminismo e il kantismo, il sistema diviene la peculiarità di una scienza filosofica, e non ci si limita più a considerarlo un gesto speculativo. Tale radicalizzazione aumenterà l’ira nietzschiana, fortemente contraria alla «commedia il cui unico obiettivo era quello di distruggere il sensualismo, il sogno di una gioventù già da sempre vecchia» (ibid.). Ottanta pagine dopo, MI torna sul problema fondazionale del rapporto tra oggetto e sistema. In tal senso sono adoperate le lezioni hegeliane di Adorno tenute nel 1961 al Collège de France. «Adorno condivide l’idea hegeliana secondo la quale la società è l’insieme dei soggetti e della loro negazione, ma egli vede nell’intero il luogo di una conflittualità, di un antagonismo reale dal quale occorre ripartire, pena il ricadere in una “ontologia della condizione falsa”» (p. 100). Sistema e oggetto (non più, o non ancora, un sistema degli oggetti) si articolano in virtù di una nuova oggettività e una nuova insiemistica, e la pratica del districare diventa in questo senso più viva che mai, laddove l’antagonismo interno all’insieme – pur sempre un insieme dialettico – è il negativo di un clamore, di un ruggito che si oppone all’identità di una scienza oggettiva e non concreta. Dal rapporto tra sistema e oggetto si passa al rapporto tra sistema e identità; l’ambizione è che esso sia però riferito a un’identità dinamica e non oggettuale, l’identità di un insieme, e dunque la condizione perché un sistema possa essere posto come problema nella fondazione di un’identità (concettuale, discorsiva, oggettiva). Tale identità è sempre materiale prima che ideale, come anche le conflittualità interne al sistema, la conflittualità di una realtà complessa. «Soltanto un materialismo sarebbe in grado di cogliere tale complessità, sostituendo al primato del pensiero speculativo tradizionale quello dell’esperienza nuda, il cui oggetto viene sottratto alla prospettiva soggettivistica e diviene infine materia» (ibid.). In ultima istanza, si procede da un sistema ideale di continua rifondazione speculativa a un sistema materiale di continua infondabilità. È dalle rovine di questo modo del sistema che è possibile iniziare a pensare un nuovo concetto di gruppo, la riabilitazione del clamore idealista in un modello materialista. Ciò significherebbe, in effetti, trovare un punto di incontro tra sistema e individuazione, laddove ogni ente e ogni gruppo si combinano nella grande lezione simondoniana dell’individuazione collettiva. È forse questo il rovescio di una certa dialettica negativa, ed è grazie allo studio sul sistema che è possibile cogliere la potenza di un gruppo, sia essa potenza individuante o potenza di non.

L’analisi di MI continua nel secondo capitolo (Il disparato) con la sapiente indagine sulla rilevanza, nella Francia filosofica del primo Novecento, di Hegel e Spinoza. Continua, insomma, la ricerca di Hegel laddove, al contrario, si era soliti considerarsi anti-hegeliani. Eppure, oltre al chiaro riferimento a Pierre Macherey, MI opera un gesto teorico assai opportuno grazie alla ripresa del rapporto tra Sartre e la fenomenologia, o tra Sartre e Deleuze. Bisogna dare ragione di ciò che non è omogeneo, e in questo non bisogna limitarsi all’illusione dell’eterogeneità. Dalla squadra sartriana ai rizomi deleuziani, il punto diventa da cosmologico a cosmogonico: come fare eterogenesi? Detto ancora meglio, come mantenere insieme gli enti nella loro genesi creativa? Il sistema perde la sua eterogeneticità quando diventa rispondente alle categorie di Identico, di Simile, di Analogo: cogito ergo sum. L’eterogenesi è invece l’innesco stesso dell’impensato, «l’impresa filosofica» (p. 178), che non è una dispersione di molecole ma una moltiplicazione di enti che «fanno la differenza»: cogito ergo sum et genero. C’è poi Derrida, che articola questa stessa attenzione al nuovo senza rinunciare al chiuso della presenza, ai casi limite, alle tracce di una differenza fatta (p. 181). E infine Foucault, che porta nelle posture teoriche di Deleuze e Derrida il problema della storia, l’irruzione di un «non-identico concreto» (p. 185), e che esso sia detto senza che l’analisi sia eretta a soggettività discorsiva eminente è ciò che accomuna gli studi foucaultiani con quelli della Scuola di Francoforte – seppure, ed è questo uno dei nodi centrali, i francofortesi non fanno che annunciare una doverosa uscita dalla metafisica, o perlomeno un suo fatale depotenziamento. 

L’ultimo capitolo (Congiunture) lancia una proposta esplicita: è possibile pensare il sistema di un non-identico concreto senza che la filosofia sia tradita e abbandonata? (ibid.). Ecco allora l’analisi della nozione di sistema in Foucault, Derrida e Deleuze, e con essa una premessa di metodo: non si deve cercare nulla, in storia della filosofia come nel profilo teoretico di un pensiero, che non sia stato detto affatto, e questo perché, in fin dei conti, si ricercherebbe ciò che «non era necessario» (p. 189). Tutt’altra cosa è indagare con maggiore intensità i testi, tradirli solo rispetto al dicibile e mai al detto.

Insomma, che la proposta di MI sia pienamente riuscita emerge chiaramente in quest’ultimo capitolo. Non sembra nemmeno fuori luogo pensare, tra l’altro, che dal postulare il sistema come strumento epistemologico si sia passati a postularlo come condizione stessa di pensabilità eterogenetica del pensiero o, ancor più profondamente, della pensabilità della stessa filosofia. Su questo punto, forse, il sistema diventa molto simile a un trascendentale, una condizione di possibilità; e l’urgenza di un nuovo strumento epistemologico per indagare le modulazioni epistemiche, tra modelli del sapere, diventa chiara. Si tratta di studiare lo statuto epistemologico di una modulazione del condizionale, non la sua ricostituzione effettiva. Sia allora lo stile di un pensiero – pensiero del sistema, nel caso di MI – a combinare sincronicamente un metodo e una logica nella generazione di un pensiero. Sarà forse questa, insomma, una condizione di virtualità. 

 

Andrea F. de Donato

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