Nella premessa al testo, Bruno Accarino si preoccupa di chiarire prima di tutto cosa la sua opera non sia: non si aspetti, il lettore, di trovare nelle pagine della sua Zoologia politica una ricostruzione puntuale della storia della “differenza antropologica” tra uomo e animale, ricostruzione che, in ambito prettamente filosofico, richiederebbe di chiamare in causa molti autori antichi e di attraversare zone impervie della modernità, come si può evincere dall’imponente lavoro con cui Gino Ditadi delinea l’inteso rapporto tra filosofi e animalità (I filosofi e gli animali, a cura di G. Ditadi, Isonomia, 1994).
Nel suo saggio, quindi, Accarino non dialoga con i filosofi del passato e del presente sulla questione dello statusdell’animale, e tanto meno si confronta con le innumerevoli immagini animali che hanno costellato e continuano ad arricchire con la loro presenza opere cinematografiche e letterarie. Per quanto, infatti, sarebbe ingenuo pensare che in esse «non siano custodite tensioni propriamente politiche o momenti di propositività civile» (p. 7), non è questa la cristallizzazione del millenario rapporto tra uomo e animale che Accarino vuole indagare. Infine, avvicinandoci all’ambito di un rapporto dell’uomo con l’animale che si tramuta in assoggettamento e sfruttamento, l’autore chiarisce con estrema onestà di non poter definire la sua opera come appartenente a quel vasto campo degli animal studies che, seppur definiti come «un’area di studi oggi benemerita» (p. 8), tendono a trascendere la sfera politica ponendosi come principale obiettivo la critica del pregiudizio antropocentrico che, muovendosi in sintonia con gli interessi dei colossi industriali della produzione alimentare, lascia intravedere la propria azione performante alla base dello strutturarsi e del delinearsi quotidiano del rapporto tra uomini e animali. Testi come Ecocidio di Jeremy Rifkin o Un’eterna Treblinka di Charles Patterson sono splendidi prodotti di animal studies che, nella chiarezza del messaggio che lanciano, ci aiutano a chiarire la differenza e l’originalità del lavoro di Accarino rispetto a questo campo di ricerca.
Scopriamo così dalle parole dello stesso autore che la principale cifra che segna la differenza tra il suo lavoro e gli animal studies risiede nell’«interesse specifico alle modalità anche tortuose e bizzarre con cui spesso la politica ha chiesto, e in qualche caso continua a chiedere, ausilio al mondo animale per rappresentare se stessa» (p. 8). Lontano, però, dall’utilizzare un impianto di impronta storico-compilativa, l’autore si interroga sui nuovi riferimenti metaforici di cui la politica va in cerca in un’epoca in cui le note e strutturate metafore animali non sembrano più in grado di rappresentare la vita politica nelle sue molteplici sfaccettature. L’obiettivo dell’intero lavoro, così, risulta efficacemente sintetizzato quando Accarino chiarisce che «con questo libro vorremmo portare il lettore alla soglia che annuncia l’esaurirsi di alcune risorse simboliche e suggerisce la disponibilità di altre» (p. 12).
Dotato di queste indispensabili e chiarificatrici premesse, il lettore può addentrarsi in quei territori della simbologia e della metafora dove solo la sapiente guida dell’autore consente di non perdere la rotta e di inquadrare la costruzione di un discorso coerente che definisca l’identità e le funzioni della zoologia politica.
Incontriamo così, per iniziare, alcune metafore della civilizzazione: passando con arguzia dal cane delle Meninas di Velázquez agli elefanti in lacrime di un’antica leggenda indiana, l’autore ci guida in un percorso che si snoda, all’interno del confronto dialettico tra selvatichezza e civilizzazione, fino a riflettere sull’inadeguatezza del criterio della civilizzazione – e del metaforismo animale che da sempre lo accompagna – per rappresentare l’esserci odierno dell’uomo nel mondo.
La riflessione sull’essenza metamorfica del lupo mannaro – e delle innumerevoli figure che vanno a ricoprire uno spazio simbolico simile (basti pensare ai diversi “uomini selvatici” attestati in ogni parte del mondo) – reca con sé, poi, l’interrogativo sull’adeguatezza del tratto esclusivamente umano per occuparsi esaustivamente dell’uomo e delle sue vicende. L’uomo pare, in questo senso, non bastare a se stesso e avere la necessità di prendere in prestito immagini e caratterizzazioni al di fuori del catalogo propriamente umano: lupi, agnelli, ratti, sciacalli e iene, api, formiche ma anche mostri e chimere diventano i protagonisti non umani del definirsi e dello strutturarsi dell’autocoscienza umana. Ancor più interessante è la questione, ben analizzata dall’autore, degli aspetti dinamici e metamorfici dell’impiego metaforico degli animali: come avviene, per esempio, e cosa porta con sé la trasformazione da lupo in agnello (o viceversa)? Il segno positivo del progresso marca la domesticazione del lupo (come nel caso di Platone o di Hobbes) o, al contrario, la ribellione insita nella metamorfosi della pecora in lupo (speranza a lungo nutrita dallo Jünger dell’era dei Titani)?
Accarino non fornisce risposte preconfezionate e non interroga passivamente le autorità della storia della filosofia, ma lavora ai fianchi la struttura profonda della colonizzazione animale degli spazi dell’autorappresentazione umana, facendo emergere dalle pieghe della «mobilità figurale» (p. 40) tipica del metaforismo animale la natura intima del ricorso a elementi del mondo non umano.
Il catalogo dal quale diverse scienze umane hanno estratto e fatto propri gli animali impiegati nella costruzione di discorsi metaforici si è ampliato in età contemporanea, seguendo, come è naturale che sia, i progressi e le scoperte della zoologia. L’arricchimento del panorama zoologico – al quale partecipano, con differenti gradi di innovatività, tutte le “scienze della vita” – porta naturalmente con sé un parallelo arricchimento della zoologia politica, che viene esaustivamente indagato da Accarino nel momento in cui, all’interno di un’articolata riflessione sul rapporto tra metaforismo animale e psicologia delle masse, si indaga l’apporto delle metafore animali nella narrazione delle tensioni verso la degerarchizzazione e la deindividualizzazione tipiche dei processi di massificazione. Un buon contributo arriva, in questo senso, dai recenti studi sui meccanismi che regolano la vita e l’azione degli animali che vivono in greggi o sciami ma anche, scendendo alla scala dell’infinitamente piccolo, dalle modalità di spostamento e colonizzazione di quegli «esseri viventi che non sarebbe corretto definire “animali”, e che sono piuttosto micro-organismi e virus» (p. 170), che offrono un interessante appiglio al momento di costruire un discorso metaforico sulle difficoltà di controllo della diffusione di un’affermazione, un’idea o una credenza nella massa. A fare da filo conduttore in questo percorso è la riflessione, sapientemente gestita dall’autore e sempre presente al margine dell’indagine sulle differenti metafore e sui loro impieghi, sul rapporto tra controllo e auto-organizzazione all’interno di un sistema: animale e macchina intersecano così le loro modalità di funzionamento per fornire un modello appropriato alla dimensione oggi abitata dall’uomo.
In questo lungo e articolato percorso il rischio di smarrirsi è senza dubbio elevato, e se ciò non accade è grazie alla guida di Accarino, sempre attento a evitare che il lettore si perda nella molteplicità dei riferimenti e delle citazioni. Una semplice scorsa all’indice dei nomi dà la misura della ricchezza del panorama disegnato dall’autore attorno al tema al centro dell’opera: da Aristotele a Bergson, da Cartesio a Derrida, da Hegel a Tolstoj a Von Uexküll, sono molte le personalità che il lettore incontra nel cammino e che consentono di realizzare una proficua riflessione su un tema tanto complesso quanto affascinante.
Alessio Cazzaniga
S&F_n. 11_2014