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Alessandro Fersen – Arte e vita. Taccuini e diari inediti – a cura di Clemente Tafuri e David Beronio [Le Mani-Microart’S, Recco – GE 2012, pp. 79, € 12]


Clemente Tafuri e David Beronio hanno compiuto un’opera notevole restituendo agli studiosi la filosofia di Alessandro Fersen (1911-2001), polacco d’origine e italiano d’adozione, noto soltanto come teatrante. Ammettono anche che «nonostante gli studi e gli approfondimenti fino ad oggi condotti, non c’è ancora una reale possibilità di dare una lettura completa della figura di Fersen» (p. 5). Nell’introdurre sia Arte e vita. Taccuini e diari inediti sia l’altro volume – L’universo come giuoco, uscito in contemporanea, curato anch’esso da Tafuri e Beronio – emerge chiaramente l’intento dei due studiosi di voler lasciare qualche margine di apertura, nel riconoscimento definitorio dell’attività di Fersen, a chi dovrà ricollocare l’opera dell’autore polacco sottraendola alle parziali etichette che gli sono state affibbiate negli anni, tra le quali quella di poeta, antropologo e persino pedagogo, ma mai di filosofo. Eppure, Tafuri e Beronio precisano spesso che un personaggio del calibro di Giorgio Colli aveva già intuito, addirittura prima ancora dello stesso Fersen, che la sua vera vocazione era quella: la filosofia. Ma nel senso più greco del termine ovvero non ancora contagiata dalla mania postpositivista di dar conto di ogni disciplina incatenandola all’interno di un dettame ben settorializzato, parcellizzando in tal modo la sofia e disintegrandola in paratie stagne. Fersen, invece, era filosofo alla maniera greca. Preso da mania – ben diversa da quella di cui si diceva prima – si era messo a navigare in tutti i campi del sapere, amandoli ciascuno a tal punto appassionatamente che si finiva per riconoscerlo come esperto. No, era semplicemente un filosofo e per di più artista. Ma qual era la sua filosofia? Così la sintetizzano Tafuri e Beronio in riferimento a L’universo come giuoco, che segnerà per sempre il suo percorso artistico e filosofico: «La tesi a fondamento dell’opera è quella per cui la vita, libera da ogni finalità e limite razionale, sia una condizione obliata, divenuta remota per l’uomo incapace di guardare se stesso al di fuori delle strutture della cultura, della storia, della scienza. La vita nella sua grande affermazione è rintracciabile, per Fersen, in una dimensione mitica precedente alla distinzione tra uomo e animale, uomo e dio. Gli echi di Nietzsche sono evidenti» (p. 10).L’amicizia con Colli fu per Fersen fondamentale sia per il miglioramento dello stile filosofico-letterario sia per l’approfondimento di tematiche che gli erano già care – a cominciare dalla filosofia greca e in particolar modo dai filosofi dell’origine – che segnarono in modo definitivo il suo approccio al mondo-della-vita e non solo. La Weltanschauung, a cui giunse attraverso la sua filosofia, ebbe un’influenza importantissima sull’attività teatrale. Il teatro era per lui un atto di fondazione ontologica e dunque non riusciva più a riconoscersi nella drammaturgia tradizionale.«In un taccuino del 1979 Fersen scrive che secoli di drammaturgia letteraria non possono essere eliminati nel volgere di poco tempo. Solo lavorare sulla materia prima, ovvero sull’attore, può permettere di intaccare la tradizione dall’interno creando i presupposti per un cambiamento che riporti il teatro alle sue potenzialità di atto di fondazione ontologica» (p. 18).Così nacque il mnemodramma, una tecnica che non necessariamente prevede la messa in scena e che si configura come pratica prettamente attoriale, poiché il lavoro si svolge tutto sui protagonisti, che ricoprono un ruolo particolare: esser se stessi in modo originario. Affinché questo accada viene usato un oggetto o comunque qualcosa di evocativo che funga da elemento rituale. Il legame intimo e insistente che si instaura con l’oggetto-stimolo provoca la trance dell’attore e la discesa nel fondo sacro che lo abita. Ritorna l’eco della filosofia ferseniana: la decisione di immergersi, di ritornare al Giuoco, inteso come stato dionisiaco originario governato dai sentimenti, dominato dal caso e dal caos, che si contrappone allo Spettacolo ovvero a una realtà fenomenica in cui i sentimenti sono cristallizzati, soffocata dall’apollineo atteggiamento della ragione che ordina e unifica e tutto controlla. È un vero e proprio ritorno alla filosofia giovanile, ma anche ai temi dell’amico Colli, a cominciare da quello della vissutezza, come acutamente osservano Beronio e Tafuri.«Uno dei tentativi di Fersen di dare forma artistica alla sua ricerca sui temi della sapienza è il Leviathan in cui, per la prima volta, la ricerca sulla mneme, o memoria mitica, condotta attraverso la tecnica del mnemodramma, ispira direttamente un progetto teatrale. Il teatro, e di questo Fersen era ben consapevole, porta in sé la possibilità di realizzare la vissutezza essendo intrinsecamente legato al suo stesso accadere e a coloro che, agendo, lo vivono. Crediamo che alle perplessità della critica dell’epoca, che non poteva tenere conto delle ragioni profonde di questo progetto, vadano contrapposte le riflessioni dello stesso Colli, che individuò la coerenza dello spettacolo con i presupposti filosofici che ne erano a fondamento» (p. 13).Il teatro diviene dunque il luogo in cui la persona ha la possibilità di divenire se stessa. Lo spettacolo teatrale annulla in tal modo gli effetti dell’altro spettacolo che Fersen condanna, quello della realtà fenomenica, cristallizzata e ordinata dalla ragione, permettendo la caduta dell’uomo in una realtà preculturale e sapienziale che contraddistingueva l’alba dell’umanità. E questo ovviamente riguarda e coinvolge non soltanto l’attore ma anche lo spettatore.«Ciò è possibile solo attraverso la rinuncia all’illusione della scena, attraverso una vera e propria delusione teatrale che consenta all’attore di deporre i suoi panni di incantatore e di condividere con lo spettatore, dallo stesso piano, una visione libera dal principio di individuazione» (Tafuri/Beronio, p. 22).E ancora: «Io credo che bisogna stimolare la fantasia creativa dello spettatore, concedendo meno alla sua pigrizia borghese. Bisogna negarsi a lui, per farsi amare di più, per provocare il suo desiderio; chiudersi, per eccitare il suo interesse, secondo la natura stessa dell’amore» (19 ottobre 1947 – Fersen, p. 35).Nell’attuale dibattito tra postmodernismo e neorealismo, la scoperta di un Fersen filosofo si pone come una ventata di aria fresca che ancora una volta dimostra – semmai ce ne fosse stato bisogno – come gli argomenti nietzschiani e quelli propri del postmoderno siano attuali e fecondi e come non possano essere licenziati appellandosi a un realismo ingenuo che svuota di senso i temi che a tutt’oggi i giovani sentono propri. Se la facile valutazione del senso comune sul dibattito è dovuta alla semplicità con cui il neorealismo si presenta, Fersen con un linguaggio semplice, ma non ingenuo affronta problematiche postmoderne che sono sempre attuali, guardandole con la lucidità e il coraggio che non potranno non trovare nella nostra gioventù riscontri positivi.«16 aprile 1979 – Non incomunicabilità ma ipercomunicabilità. O forse incomunicabilità a causa della ipercomunicabilità. Si comunica troppo. Forse si cerca tanta comunicazione per mancanza di comunicazione profonda: ma la troppa comunicazione aumenta l’incomunicabilità, la solitudine, il silenzio. Siamo sommersi dalle comunicazioni. […] Gli animali comunicano poco, forse solo per i bisogni fondamentali. Non si sprecano. L’uomo ha perso questa aristocrazia del gioco» (p. 50).

 

Giusy Randazzo

05_2013

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