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Desiderio e godimento tra morte e lutto in Jacques Lacan

Autore


Ivana Porpora

Università degli Studi di Napoli Federico II

Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Introduzione
  2. Desiderio di morte e godimento impossibile
  3. Lutto del fallo
  4. L’assassinio di Dio

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S&F_n. 26_2021

Abstract


Desire and jouissance between death and mourning in Jacques Lacan

The aim of the essay is to show how the dimensions of death and mourning are fundamental to understanding the concepts of desire and jouissance in Lacanian theory. In the first paragraph, the focus is on Antigone's desire, which shows a tendency towards an impossible jouissance, attainable only through transgression. The intermediate paragraph deals with the dimension of loss in the pisco-analytic experience through the analysis of an essential moment in the Oedipal dynamics: the mourning of the phallus. The concluding section discusses the death of God through the myth of the origin of the Law.

1Introduzione

Nel pensiero di Lacan, morte e lutto sono due dimensioni generative in cui si muove l’articolazione desiderio-jouissance. La psicoanalisi è da sempre coinvolta in ambiti in cui dominano mancanza e perdita. Il punto d’avvio del presente contributo prevede il recupero di alcuni passaggi, tratti dall’analisi lacaniana sull’Antigone, utili a chiarire concetti che gravitano intorno al campo della morte, tra cui il Todestrieb, e indispensabili a spiegare lo sconfinamento del désir oltre la Legge, verso un godimento impossibile. Il passaggio intermedio è pensato per richiamare l’attenzione sulla mortificazione inaugurale con cui ha inizio la vita del soggetto, e per cogliere una fase nodale nella dinamica edipica: il lutto del fallo. Risalendo fino al mito freudiano dell’origine della Legge, il paragrafo conclusivo affronta il tema della morte di Dio, assassinato dai suoi figli, confessandone così la natura di uomo. L’elemento ritornante, che coagula la materia nelle diverse articolazioni del tema, è la mortificazione di godimento agita dal Simbolico sull’organismo vivente.

 

2. Desiderio di morte e godimento impossibile

Nell’analizzare la natura di un desiderio mortifero, ciò che interessa mostrare è il superamento di una soglia, che apre alla prospettiva di un godimento impossibile proprio perché assegnato al Reale. Essendo fuori Simbolico, la jouissance appare accessibile solo mediante una trasgressione, un atto che può compiere, secondo Lacan, un eroe senza timore e senza pietà, qualità che egli riconosce in Antigone. Il desiderio dell’eroina sofoclea è il perno attorno cui ruota il commento lacaniano alla tragedia del 442 a. C., che prende corpo ne L’etica della psicoanalisi. Attraverso il desiderio antigoneo viene rinnovato, nel Seminario VII[1], un movimento di interrogazione del rapporto fra Legge e désir, da cui emerge una jouissance ribelle sia all’immaginarizzazione[2] che alla significantizzazione[3].

Il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro: esso dovrebbe «innestarsi sul desiderio della madre»[4], ma il commento lacaniano alla tragedia sottolinea come la protagonista sia abitata da una passione distruttiva, nondimeno spiegabile a partire dalla volontà di preservare la memoria di una stirpe, inaugurata proprio dal crimine materno. L’inumanità di Antigone è esemplificata dal Coro con un termine che rimanda alla crudezza, ὠμός, il cui significato letterale è: crudo, spietato, restituendo efficacemente la sua estraneità alla dimensione dei mortali. Tale inumanità eroica, secondo Lacan e in contrasto con numerose interpretazioni, viene conservata persino innanzi alla prospettiva di un supplizio tremendo come quello di essere seppellita viva nella tomba.

Il lamento, innalzato sulla via della condanna, rivela come il suo desiderio mostri una familiarità con la pulsione di morte, con quell’al di là freudiano che scombussola e scandalizza. Se Antigone scavalca il limite mortale, è perché il suo désir mira al di là di questo confine terribile e pericoloso, che lo psicoanalista francese si rifiuta di tradurre con «sventura». Avvicinarsi all’Ἄτη significa avvicinarsi all’origine della catena significante, a quell’ex nihilo, dove si accorcia la distanza da das Ding.

Il concetto di pulsione di morte è meditato ne L’etica della psicoanalisi in particolare a partire dall’istituzione di un dialogo tra due opere freudiane: l’Entwurf einer Psychologie[5] (1895) e Jenseits des Lustprinzips (1920). Lacan ritiene prezioso il contributo di Progetto di una psicologia per ricostruire la riflessione che anima il saggio freudiano in cui si articola il Todestrieb, rileggendolo alla luce del rapporto sussistente tra il processo primario e quello secondario[6]. Tale relazione apre al campo dell’indagine etica, che ha coniugato sin dagli albori il problema del bene con il piacere. Secondo Lacan, Freud si emancipa nei confronti di una tradizione che concepisce il bene[7] in relazione al piacere, mostrando come, già prima di Al di là del principio di piacere, il Lustprinzip, in quanto principio di «minor patimento»[8], ci trattenga dalla soddisfazione pulsionale, dal godimento. Nell’Entwurf, il rapporto tra i due processi dell’apparato psichico, permette all’interpretazione lacaniana, tramite la valorizzazione della nozione dei tracciati, Bahnungen[9], di affermare che «la funzione del principio di piacere è in effetti di portare il soggetto di significante in significante, mettendo tanti significanti quanti sono necessari per mantenere al minimo il livello di tensione che regola tutto il funzionamento dell’apparato psichico»[10]. Il suo compito sta nel regolare i tracciati, che gestiscono gli investimenti libidici, affinché il livello dell’eccitazione non sfoci in un al di là insopportabile per l’uomo. Il principio di piacere, che tende verso un’identità di percezione, indifferentemente se realizzata mediante un supporto reale o allucinato, mostra il mantenimento necessario di una certa distanza del soggetto da das Ding. In tal senso, la nozione freudiana di pulsione di morte, nel suo aspetto distruttivo o autodistruttivo, permette di chiarire il campo di un al di là del principio di piacere, su cui si colloca la Cosa. Il Todestrieb, in Lacan, esibisce un carattere storico, ossia concepibile unicamente a partire da una prospettiva creazionista, ex nihilo, che vede al principio il Verbo, il significante, intervenire sulla carne, sul corpo.

Das Ding[11] è il risultato del taglio significante sul Reale primordiale, ma resta inassimilabile all’ordine Simbolico. La Cosa ha carattere di extimité, essendo «quell’esteriorità intima»[12], nel contempo, interna ed estranea al soggetto. Per Freud, essa rappresenta l’oggetto perduto risalente al primo soddisfacimento (Befrindugungserlebnisse), un godimento mitico, che permette al corpo della madre di occupare il posto di das Ding, divenendo la Cosa materna.

La Legge simbolica interdice l’accesso alla sua pienezza, ingiungendo il divieto dell’incesto, in assenza del quale crollerebbe la dimensione della domanda: il desiderio per la madre deve permanere insoddisfatto per generare il livello superiore del grafo in cui si articola il discorso dell’Altro, l’inconscio. Jacques-Alain Miller[13] sottolinea come, per Lacan, nell’opposizione tra godimento e piacere, la Legge si limiti a riprodurre una barriera che già naturalmente il piacere oppone alla jouissance. Tuttavia, das Ding è concepibile solo tramite il legame con la Legge, il cui rapporto è suggestivamente espresso in un passo del Seminario VII, che rimanda alla riproduzione quasi fedele di una parte del discorso paolino contenuta nell’Epistola ai Romani[14] (7.7-7.12). Per lo psicoanalista francese, le parole di San Paolo, corrette tramite una semplice sostituzione terminologica, Cosa al posto di peccato (ἁμαρτία), esemplificano efficacemente il rapporto dialettico tra essa e la Legge, aprente la via alla possibilità della trasgressione. Anche nella spinta eroica verso un al di là, andando incontro a una jouissance impossibile, bisogna in ogni caso agire sul «comandamento» stesso, non potendolo aggirare.

In particolare, nell’Antigone si assiste al divampare di una passione che anima l’eroina fino alla fine, il desiderio che l’abita, però, non mira a «riparare una lesione che un diritto ha prodotto su di un altro diritto»[15], bensì a «risarcire un torto portato a quella ʻlegalitàʼ che precede il diritto, a quell’ordine significante della parentela senza il quale nessun soggetto umano potrebbe mai venire al mondo»[16].

La legalità in questione è quella che Lacan considera conseguenza delle ἄγραπτα νόμιμα e che proprio per questo «non trova sviluppo in alcuna catena significante, in niente»[17]. La protagonista sofoclea intende collocarsi su quell’ex nihilo da cui sorge il linguaggio e da lì preservare l’esistenza del fratello, che si cristallizza «in mezzo a qualunque flusso di trasformazioni possibili»[18]. Polinice, seppur nemico di Tebe, deve essere onorato con la sepoltura, perché al di là di ciò che ha potuto compiere in vita, ciò che deve essere difeso, oltre ogni giudizio morale, è l’esistenza di quel significante, seppur barrato, che ha individuato un essere con un nome proprio: Antigone mira al taglio significante da cui sorge il soggetto.

Creonte intende arrecare a Polinice una seconda morte, dopo quella biologica, negandogli la pietà della sepoltura, che celebra la vita del soggetto che parla, e «di cui si parla»[19], impedendo al lavoro del lutto di dispiegare la propria portata simbolica. La morte di persone care, perdita irrimediabile, apre uno un buco, una Verwerfung, nel Reale, cui si cerca di far fronte con i riti funebri, ossia con la messa in gioco di tutto l’apparato simbolico.

In questa apertura beante si «proietta precisamente il significante mancante»[20], il fallo simbolico, che mancando nell’Altro, non vi può essere articolato, mentre «al suo posto pullulano tutte le immagini che rientrano nei fenomeni del lutto»[21].

Dalle parole di Antigone, al momento di varcare il limite dell’ Ἄτη, traluce un bagliore accecante, che restituisce la purezza del desiderio reso visibile «Ίμερος ἐναργής»[22], manifestazione dell’invisibile su cui si regge il desiderio di niente. Ne L’etica della psicoanalisi si assiste a un approfondimento del desiderio nella sua natura di resto come ciò che eccede ogni domanda e non «obbedisce integralmente alla Legge della castrazione»[23]. Il bagliore che avvolge l’immagine di Antigone chiarisce la relazione tra desiderio e campo dell’estetica. Il bello, contrariamente al bene, non costituisce una reale barriera di accesso al desiderio, bensì permette di scorgere, seppur solo nell’attimo di un abbacinamento, la relazione dell’uomo con la propria morte. Il bello può costituire una barriera solo perché mantiene il desiderio a una distanza sufficiente dal cuore incandescente della Cosa, proteggendo l’uomo dal godimento mortifero, limite scavalcato da Antigone nel suo superamento dell’Ἄτη. Questa scelta non è motivata da alcun bene, esso, piuttosto, legandosi al piacere, coopera affinché venga deviata la mira del desiderio, erigendo alibi che funzionano da difese. L’unica cosa di cui può sentirsi realmente colpevole il soggetto, nell’esperienza psicoanalitica, è aver ceduto sul proprio desiderio. Per l’eroina sofoclea non c’era alternativa: coraggiosamente, sostenendo la mira del désir, si getta tra le braccia di un godimento impossibile. Esso corrisponde al terzo paradigma[24] individuato da Miller, in cui la libido freudiana, divisa da Lacan tra desiderio e pulsione, non è più trascritta attraverso i significanti, ma figura come das Ding: «fuori di ogni significante e di ogni significato»[25]. La jouissance, in quanto soddisfazione pulsionale, non va intesa come appagamento orgasmico, o confusa con il piacere di natura conscia o preconscia, avvertito come sensazione gradevole, in seguito a un abbassamento di tensione interna. Il godimento in Lacan, piuttosto, attiene al campo dell’inconscio e non è esprimibile tramite la metafora energetica[26], dal momento che la jouissance, «non essendo matematizzabile in una combinazione di calcoli, non può essere energia»[27].

Nel paradigma di un godimento mortifero può rientrare, oltre alla scelta antigonea, un confronto tra l’autore della Critica della ragion pratica e quello de La filosofia nel boudoir. In Kant avec Sade, lo psicoanalista francese afferma che le désir «parte sottomesso al piacere»[28], quest’ultimo, in quanto legge tendente all’omeostasi, produce l’effetto di «farlo sempre interrompere nella sua mira»[29]. La morale kantiana con il suo imperativo categorico e l’etica sadiana dedita al libertinaggio, sulla base di un comune rifiuto verso il binomio bene-piacere, si volgono nella direzione di un al di là del Lustprinzip, consegnando il soggetto alla sua dissoluzione, fading, annientato o da un rigorismo disumano, o da una jouissance inumana. Kant estremizza il polo della Legge nel godimento Super-egoico, ugualmente perverso. Il Marchese de Sade estremizza il versante del desiderio scisso dalla Legge, e per questo abbandona il soggetto alle spire di un godimento impossibile. Sostenere che il desiderio venga dall’Altro significa riconoscerlo quale effetto del significante e affermarlo in quanto «funzione eminentemente umana»[30] che si difende dal godimento. Il terzo paradigma individuato da Miller permette di ripensare anche la natura del sintomo che, prima dell’avvento del Seminario VII, era in rapporto alla rimozione, e adesso risulta essere messa in relazione con il concetto di difesa, in quanto il sintomo è difesa dal godimento. In Lacan la castrazione simbolica disciplina il rapporto tra desiderio e godimento nei termini di una rinuncia a una piena jouissance, che permette di raggiungere il godimento «sulla scala rovesciata della Legge del desiderio»[31].

 

3. Lutto del fallo

Il tema del lutto in psicoanalisi permette di recuperare le coordinate in cui si articola il complesso edipico e la sua molla che è il complesso di castrazione, due tappe obbligatorie per l’assunzione soggettiva del desiderio. Risalendo a una generazione precedente, quella di Edipo, troviamo i caratteri del crimine originario che, nel caso dell’eroe sofocleo, viene compiuto inconsapevolmente, trattandosi di «una riproduzione rituale del mito»[32]. Natura e svolgimento del μῦϑος freudiano sono illustrati in Totem e tabù. Il testo sostiene che l’uccisione del padre dell’orda, «che tiene per sé tutte le femmine e scaccia i figli via via che crescono»[33], non apre loro la via al godimento sfrenato, ma comporta un inasprimento delle condizioni, che si manifesta tramite l’istituzione del divieto dell’incesto.

Per Freud il potenziale superamento del complesso[34] edipico si profila solo in presenza di una minaccia di evirazione avvertita come reale nel rapporto triangolare madre-bambino-padre. L’infante può desiderare di occupare il posto del padre accanto alla madre o quello della madre, dovrà accettare di perdere comunque il fallo, poiché all’apice del complesso edipico vi è la scoperta che la donna è castrata. In quest’alternativa spaventosa, in cui si prospetta in ogni caso la perdita del fallo, il padre della psicoanalisi afferma che il bambino preferisce rinunciare ai suoi investimenti libidici sulle figure parentali. Alla rinuncia della relazione d’amore nella dialettica parentale corrisponde, in Freud, il prevalere di un’esigenza narcisistica che permetterebbe di preservare il rapporto del bambino con il fallo. Per Lacan, ciò che l’autore de Der Untergang des Oedipuskomplexes intendeva esprimere velatamente è che il rapporto narcisistico tra il soggetto e il fallo «permette di identificare quest’ultimo con qualcosa che, nel soggetto, rappresenta sul piano immaginario la mancanza come tale»[35]. L’elevazione narcisistica[36] del rapporto fallo-bambino passa per il lutto del fallo, o, come direbbe lo psicoanalista francese, per il lutto di non essere il fallo.

Nel Seminario V[37], troviamo una versione in tre tempi dell’Edipo: alla prima tappa, il bambino si identifica con l’oggetto del desiderio materno, vuole essere il fallo; al secondo tempo, interviene, grazie alla mediazione della madre, il padre in quanto rappresentante della Legge; nella terza fase, che coincide con l’uscita dal complesso, il padre appare come colui che ha il fallo[38] con la conseguente interiorizzazione dell’Ideale dell’io da parte del bambino (nuova forma di identificazione). La castrazione è una funzione simbolica attuata in relazione a un oggetto immaginario, il fallo, e riguarda l’uomo in quanto essere coinvolto nella faccenda del λόγος. Quando l’organismo vivente accede all’orizzonte linguistico, si produce una perdita a livello vitale, seguita da una forma di addomesticamento, essendo preso nel luogo dell’Altro, del linguaggio. La nascita del soggetto è possibile solo tramite la morte della sua immediatezza biologico-animale: la violenza del simbolo è il trauma che umanizza l’esistenza. Lacan definisce come esperienza della morte in vita, come ciò che presentifica all’uomo il suo rapporto con la dimensione del trapasso, il rapporto del soggetto con la catena significante, in cui egli vi entra al prezzo di una mortificazione. La castrazione simbolica agisce nella direzione di una scissione tra corpo e godimento operata sull’organismo, ed è ciò «a dare valore all’emergenza della significazione fallica»[39]. Nell’Ouverture ai Capisaldi, Miller a proposito della scomparsa di Lacan, indugia nella descrizione del rapporto soggetto-significante, ritenendo che la fine biologica «non fa che sprigionare la morte che il significante comporta di per sé, giacché esso è destinato a sopravvivere in quanto veicola la morte»[40]. Il significante preesistendoci e catturandoci poi, non ci abbandona alla fine dell’esistenza, conservando, tramite la sepoltura, la memoria di un essere proprio perché ha «avuto accesso al significante»[41].

 

4. L’assassinio di Dio

La morte non riguarda soltanto gli esseri perituri, ma anche Dio padre. Nel Seminario VII vi è una lezione dal titolo La mort de Dieu, scelto da Miller, che riattualizza la portata di una riflessione di indiscutibile importanza per noi, cresciuti nell’alveo della trasmissione del messaggio monoteistico giudaico-cristiano. Lo psicoanalista francese nell’articolazione del tema si rifà ai risultati dell’opera freudiana L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-38), che vanno fatti dialogare con Totem e tabù (1913). Nel testo, che si dispiega lungo tre sezioni, Freud indaga il processo che ha portato all’affermazione della religione del dio unico, individuando nella figura di Mosè uno sdoppiamento originario ma rimosso, dietro cui storicamente vanno riconosciuti: Mosè l’Egiziano, razionalista e seguace del culto del dio Atòn, diffusosi sotto il faraone Amenofi IV, e Mosè il Madianita, fedele a Yahweh, un dio la cui indole originaria era spaventosamente violenta. Quest’ultimo Mosè è anche lo stesso uomo che «sente sorgere dal roveto ardente la parola decisiva»[42]. Secondo tale ricostruzione, la cui attendibilità storica è irrilevante per Lacan, il primo Mosè, quello egiziano, fu assassinato dal popolo ebraico, dopo aver lasciato l’Egitto, replicando in tal modo l’uccisione del padre primitivo raccontata in Totem e tabù. L’assassinio del Mosè razionalista fu rimosso e la sua figura si confuse con quella di Mosè il Madianita e, contestualmente, la natura di Yahweh, si modificò assumendo alcuni tratti del dio Atòn. Tale fusione di caratteri è dovuta, secondo l’autore, alla persistenza di scrupoli coscienziali, sorti in corrispondenza della rimozione dell’omicidio, e che anticiparono il ritorno del rimosso. L’assassinio del Mosè seguace di Atòn emerse solo quando si procedette a espiarlo tramite un sacrificio: la passione e morte di Cristo. Inoltre, Per Freud, l’uccisione del Mosè razionalista «risuona a sua volta sullo sfondo dell’assassinio del padre primordiale»[43]. In Totem e tabù, dopo l’eliminazione del genitore che voleva tutte le donne per sé, i figli vengono colti da un senso di colpa, manifestatosi attraverso un risorgente sentimento d’affetto nei confronti del genitore, recuperando così il polo dell’amore nell’oscillazione primigenia in cui per il soggetto vive l’immago paterna. A sorprendere è che la sua morte non comportò l’accesso al godimento sfrenato, ma diede vita a una forma di «obbedienza retrospettiva»[44], dove «i figli se lo proibirono ora spontaneamente»[45]. È dal senso di colpa che presero vita il tabù dell’incesto e quello dell’omicidio, inerente al divieto di consumare l’animale totemico[46], il cui rispetto proveniva dal desiderio «di riconciliarsi con il padre offeso»[47].

Dall’opera freudiana emerge che l’istituzione della legge morale e il conseguente avvio del processo di civilizzazione passano necessariamente per l’assassinio del padre primitivo, è però in L’uomo Mosè e la religione monoteistica che viene sostenuta l’importanza del sacrificio di Cristo per redimere tutti i peccatori, espiando così la colpa collettiva per l’uccisione di Mosè l’Egiziano. È solo attraverso l’immolazione del figlio di Dio che emerge la verità: «egli era il Mosè risorto e, dietro Mosè, il padre dell’orda primitiva, che tornava trasfigurato e si metteva, come figlio, al posto del padre»[48]. Freud articola la potenza di un μῦϑος moderno, tale proprio perché costruito sulla consapevolezza della morte di Dio, ma il concreto avanzamento concettuale consiste nell’aver saputo dire che Egli è morto da sempre, o meglio, «è nato morto, idealizzato in quanto morto dal figlio e dai fratelli»[49]. Tuttavia, saperlo non comporta la liberazione del godimento, il cui accesso pieno e soddisfacente ci è stato interdetto, secondo il mito di Totem e tabù, dalla tabuizzazione dell’incesto, affermatasi proprio mediante l’eliminazione del padre primordiale: «il mito dell’origine della Legge si incarna nell’assassinio del padre»[50]. Per Lacan, l’azione del Simbolico in quanto Legge ha prodotto una sottrazione di godimento, dividendo il corpo dalla sua jouissance. Eppure, è proprio sul terreno della Legge, come ha mostrato San Paolo, che germina la trasgressione: la proibizione alimenta la seduzione per il peccato (ἁμαρτία), per das Ding.

 

 

 


[1] J. Lacan, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), tr. it. Einaudi, Torino 2008.

[2] J.-A. Miller, I sei paradigmi del godimento (1999), in I paradigmi del godimento, tr. it. Astrolabio Ubaldini, Roma 2001, p. 9.

[3] Ibid., p. 13.

[4] J. Lacan, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., p. 329.

[5] S. Freud, Progetto di una psicologia (1895), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1976.

[6] L’opposizione tra il principio di piacere e il principio di realtà freudiani viene indagata da Lacan attraverso la lettura di: Progetto di una psicologia (1895), del VII capitolo de L’interpretazione dei sogni (1900), dell’articolo Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico (1911), e del Disagio della civiltà (1929).

[7] «La questione del bene si pone a cavallo tra il principio di piacere e il principio di realtà. Se partiamo da tale concezione, non abbiamo alcuna possibilità di sfuggire a un conflitto, dopo che ne abbiamo regolarmente spostato il centro. È impossibile qui non mettere in evidenza qualcosa che è troppo poco articolato nella concezione freudiana, ossia che la realtà non è il semplice correlativo dialettico del principio di piacere. Più esattamente, la realtà non è lì solo per farci sbattere la testa contro le false strade in cui ci fa entrare il funzionamento del principio di piacere. In verità, facciamo della realtà con il piacere». (J. Lacan, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., pp. 264-265). La realtà si costituisce a partire dall’ordine significante, da quell’ex nihilo che ha interrotto il continuum della natura.

[8] J. Lacan, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., p. 218.

[9] Le Bahnungen, tradotte da Lacan con ʽtracciatiʼ, sono le facilitazioni e servono al processo primario. Però, «il controllo dei rapporti delle facilitazioni mediante l’inibizione del deflusso verso una certa direzione e, simultaneamente, l’investimento di un collegamento laterale con cui favorire la deviazione della corrente, e quindi il trattenimento della scarica, risponde al processo secondario»; (B. Moroncini, R. Petrillo, L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan, Cronopio, Napoli 2021, p. 74).

[10] J. Lacan, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., p. 141.

[11] L’importanza di questa nozione è recuperata da Lacan attraverso la lettura di Progetto di una psicologia, in cui compare in relazione al «complesso del Nebenmensch», essendo la parte inafferrabile e incompresa del complesso percettivo. In effetti, la Cosa è una non-Cosa, di essa non vi è alcuna Vorstellung corrispondente, essendo un oggetto irreperibile, da sempre perduto, ma mai realmente posseduto, eppure calamitante il movimento della serie di rappresentazioni investite dal Lustprinzip che, però, se ne tiene a dovuta distanza per non produrre dispiacere.

[12] J. Lacan, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., p. 165.

[13] J.-A. Miller, Capisaldi dell’insegnamento di Lacan (1981-82), tr. it. Astrolabio Ubaldini, Roma 2021, p. 190.

[14] «La Legge è forse la Cosa? Questo no. Tuttavia io non ho potuto prendere conoscenza della Cosa se non attraverso la Legge. Non avrei infatti avuto l’idea di bramarla se la Legge non avesse detto: non la bramerai. Ma la Cosa, trovando l’occasione, suscita in me ogni sorta di bramosie grazie al comandamento; infatti senza la Legge la Cosa è morta. Ora, io un tempo ero vivo, senza la Legge. Ma quando è intervenuto il comandamento, la Cosa è divampata, mentre io ho trovato la morte. E il comandamento che doveva darmi la vita è diventato per me causa di morte; la Cosa infatti, trovata l’occasione per mezzo del comandamento, mi ha sedotto e attraverso di esso mi ha fatto desiderio di morte». (J. Lacan, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., pp. 98-99).

[15] B. Moroncini, R. Petrillo, L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan, cit., p. 218.

[16] Ibid.

[17] J. Lacan, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., p. 324.

[18] Ibid., p. 325.

[19] J.-A. Miller, Capisaldi dell’insegnamento di Lacan, cit., p. 288.

[20] J. Lacan, Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), tr. it. Einaudi, Torino 2016, p. 371.

[21] Ibid.

[22] Id., Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., p. 345.

[23] M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina Raffaello Editore, Milano 2012, p. 248.

[24] J.-A. Miller, ne I sei paradigmi del godimento, ricostruisce l’evoluzione della nozione di jouissance mediante l’individuazione di sei concezioni del godimento nell’ambito di tutta la produzione di Lacan.

[25] J.-A. Miller, I sei paradigmi del godimento, cit., p. 18.

[26] «L’energia non è una sostanza – ricorda Lacan –... ma una costante numerica che al fisico è necessario trovare nei suoi calcoli, per poter lavorare» (J.-D. Nasio, Cinque lezioni sulla teoria di Lacan (1992), tr. it. Editori Riuniti, Roma 1998, p. 36).

[27]Ibid.

[28] J. Lacan, Kant avec Sade (1963), in Scritti, tr. it. Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 773.

[29] Ibid.

[30] J.-A. Miller, Capisaldi dell’insegnamento di Lacan, cit., p. 301.

[31] J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano (1960), in Scritti, tr. it. Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 830.

[32] J. Lacan, Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), cit., p. 378.

[33] S. Freud, Totem e tabù (1913), in Totem e tabù – Psicologia delle masse e analisi dell’io, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2019, p. 164.

[34] S. Freud, Il tramonto del complesso edipico (1924), in La vita sessuale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 207-216.

[35] J. Lacan, Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), cit., p. 384.

[36] «Il soggetto può rispondere a questo lutto unicamente con la propria tessitura immaginaria» (ibid.).

[37] J. Lacan, Libro V. Le formazioni dell’inconscio (1957-1958), tr. it. Einaudi, Torino 2004.

[38]«Il terzo tempo è questo – il padre può dare alla madre ciò che ella desidera, e può darglielo perché ce l’ha. Qui interviene dunque il fatto della potenza nel senso genitale del termine – diciamo che il padre è un padre potente. Per questo, la relazione della madre con il padre ripassa su un piano reale» (ibid., p. 196).

[39] J.-A. Miller, Capisaldi dell’insegnamento di Lacan, cit., p. 292.

[40] Ibid., p. 10.

[41] Ibid.

[42] J. Lacan, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., p. 204.

[43] B. Moroncini, R. Petrillo, L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan, cit., p. 167.

[44] S. Freud, Totem e tabù, cit., p. 166.

[45] Ibid.

[46] «La religione del totem non abbraccia soltanto le espressioni di rimorso e i tentativi di riconciliazione, ma serve anche a ricordare il trionfo sul padre» (ibid., p. 167).

[47] Ibid.

[48] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Tre saggi (1934-1938), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2018, p. 101.

[49] B. Moroncini, R. Petrillo, L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan, cit., p. 172.

[50] J. Lacan, Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), cit., p. 209.

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