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Indice
- Introduzione
- Obiettività
- Coltivare l’obiettività
- Il metodo ipotetico-deduttivo
- Dimostrazione
- Conclusione
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S&F_n. 25_2021
Abstract
The inseparability of Logic and Ethics
This essay takes logic and ethics in broad senses: logic as the science of evidence; ethics as the science of justice. One of its main conclusions is that neither science can be fruitfully pursued without the virtues fostered by the other: logic is pointless without fairness and compassion; ethics is pointless without rigor and objectivity. The logician urging us to be dispassionate in resonance and harmony with the ethicist urging us to be compassionate
- Introduzione
Accade spesso che la logica e l’etica siano considerate l’una a prescindere dall’altra, se non addirittura in opposizione. Tuttavia, molti importanti logici, come Aristotele, Ockham, Bolzano, De Morgan e Russell hanno offerto contributi rilevanti nel campo dell’etica e sono stati protagonisti di azioni eroiche concepite sulla base di intuizioni etiche. In maniera simile, molti moralisti esemplari, come Socrate, Platone, Kant, Mill, Gandhi e Martin Luther King hanno mostrato, attraverso i loro insegnamenti e le loro azioni, un profondo impegno per l’obiettività, il valore etico che alimenta la logica e di cui la logica si serve. Questo articolo esplora il ruolo della logica nell’etica e dell’etica nella logica.
Occorre esaminare l’ipotesi che l’etica del futuro debba concedere alla logica uno spazio più centrale ed esplicito. Le connessioni tra l’etica e la soggettività irrazionale devono essere recise; la dignità umana e il rispetto reciproco possono basarsi in misura maggiore sul desiderio universale di conoscenza oggettiva.
In maniera simile, occorre analizzare l’ipotesi che la logica del futuro debba concedere all’etica un ruolo più centrale ed esplicito. I principi logici sono importanti perché sono al servizio di obiettivi etici. La logica è nello specifico essenzialmente qualcosa che gli uomini cercano di raggiungere. La presunta separazione tra logica ed etica deve essere, quindi, confutata.
Occorre mostrare che l’idea della logica come attività, priva di senso, di manipolazione di simboli è caricaturale così come l’idea dell’etica come razionalizzazione di emozioni cieche. La logica e l’etica sono in realtà inseparabili ed entrambe traggono vantaggio dal riconoscimento esplicito del loro implicarsi reciproco.
- Obiettività
Aristotele ha messo in evidenza che tutti gli esseri umani per natura desiderano conoscere. Per questa ragione la nostra attenzione si rivolge all’obiettività, cioè all’intenzione di trovare soluzioni in accordo con i fatti, di qualsiasi tipo essi siano, che assecondino o meno le nostre speranze, che amplifichino le nostre paure o che le attenuino, che siano compatibili o meno con credenze accettate in precedenza. L’obiettività richiede amore per la verità, devozione alla verità, fedeltà alla verità. Essa viene riconosciuta come tratto umano caratteristico in grado di unire la razza umana e, nello stesso tempo, come una virtù etica da coltivare. La logica ha come suo principale scopo coltivare l’obiettività. La logica mira a costruire concetti, principi e metodi che siano utili a formulare decisioni in accordo con i fatti.
Se gli esseri umani fossero onniscienti o infallibili non sarebbe necessaria alcuna logica. E ancora, se gli esseri umani fossero indifferenti alla verità o non si preoccupassero della verità non ci sarebbe alcun bisogno della logica perché non vi sarebbe alcun desiderio e nessuna motivazione per svilupparla. La condizione umana, tuttavia, è piena di aspirazioni non realizzate e magari irrealizzabili. È qui che l’ignoranza e la fallibilità degli esseri umani trovano il loro punto di contatto con l’aspirazione alla conoscenza.
Si potrebbe dire che la logica muova i suoi primi passi a partire dall’osservazione del divario tra realizzazione di un desiderio e aspirazione. Una credenza non corrisponde necessariamente a una conoscenza. La sensazione di certezza non è un criterio di verità. La persuasione non costituisce necessariamente una dimostrazione. Infatti, uno dei problemi perenni della logica è elaborare criteri di dimostrazione precisi, ossia sviluppare test obiettivi per determinare, rispetto a un’argomentazione che appare persuasiva, se essa fornisce effettivamente autentiche evidenze e se riesce a dimostrare la verità delle sue conclusioni. Oltre all’osservazione negativa per cui gli esseri umani non sono né onniscienti né infallibili ci sono le osservazioni positive per cui il desiderio di conoscere la verità può essere realizzato in maniera ancor più estesa di quanto non sia stato fatto finora, che è possibile avvicinarsi ancora di più all’ideale e che l’obiettività può essere coltivata.
I tre fatti da cui logica muove i suoi primi passi – che gli esseri umani non sono né onniscienti né infallibili, che gli esseri umani cercano la conoscenza e che migliorare è possibile – sono tre fatti che aiutano gli esseri umani a stare insieme. È, infatti, possibile cooperare per realizzare l’obiettivo, allo stesso tempo nobile e pratico, di attenuare il più possibile l’ignoranza e la fallibilità. L’obiettività, infatti, richiede automaticamente la cooperazione e il rifiuto dell’inganno, vuoi che questo sia perpetrato a danno di altri o subito da altri, vuoi che sia perpetrato da noi a danno di noi stessi. Si dice che le peggiori bugie sono quelle che raccontiamo a noi stessi.
L’obiettività, che implica l’intenzione e la capacità di formulare decisioni in accordo con i fatti, è una virtù importante. Ma considerata da sola potrebbe apparire fredda e alienante e per certi aspetti persino disumanizzante – potrebbe persino sembrare in conflitto con o escludere altre virtù. Ma queste impressioni si basano su degli errori.
È chiaro che essere obiettivi richiede imparzialità. Ma essere imparziali non esclude l’essere appassionati. Alcune delle storie più emozionanti sul trionfo dell’obiettività riguardano persone appassionate nella loro dedizione alla verità e spinte a eroici sacrifici personali per sviluppare e mettere alla prova le loro idee. Essere distaccati non vuol dire essere indifferenti. Essere un osservatore imparziale non equivale a essere un osservatore indifferente. Essere distaccati e imparziali richiede cura, concentrazione ed energia; l’impegno appassionato per la verità può fornire questa energia.
Inoltre, essere distaccati non esclude l’essere compassionevoli. In realtà, affinché la compassione sia efficace e benefica deve essere accompagnata dall’obiettività. Per esempio, la pratica medica spesso trova la sua motivazione nella compassione per la sofferenza umana, ma senza obiettività, i tentativi di alleviare la sofferenza finirebbero con l’essere controproducenti. In molti casi, l’obiettività e la compassione si potenziano a vicenda.
La compassione non solo non esclude, ma in realtà richiede l’obiettività, e questo non è un caso isolato. Tutte le virtù sono compatibili con l’obiettività e la maggior parte delle virtù – se non tutte – richiede l’obiettività per essere efficace e benefica. Senza obiettività le altre virtù risultano di fatto impossibili o controproducenti o quantomeno fortemente limitate nella loro efficacia. In realtà, in molti casi la diminuzione di obiettività tende a trasformare le altre virtù in parodie, burle o perversioni di se stesse. Cercare di essere gentili senza essere obiettivi spesso si rivela offensivo paternalismo. La “giustizia” senza obiettività è arbitrio. Il “coraggio” senza obiettività è temerarietà. L’“integrità” e la “fermezza morale” senza obiettività tendono a trasformarsi in rigidità di vedute o addirittura fanatismo. Cause meritevoli sono state messe in imbarazzo dalla carenza di obiettività dei loro ardenti sostenitori. Una causa degna di attenzione può subire gli stessi danni da un sostenitore troppo zelante e da un detrattore. Una causa non ha bisogno di nemici, quando ha a suo sostegno amici non obiettivi.
L’obiettività è una virtù piuttosto caratteristica. Noi siamo soliti apprezzare le persone per la loro obiettività e essere contrariati con o persino infastiditi dalle persone quando si mostrano poco obiettive. Quando ci sono importanti decisioni da prendere o dei lavori da fare, cerchiamo di circondarci di persone che si fanno notare per la loro obiettività – anche a prescindere dal fatto che apprezziamo o meno la loro compagnia per altre ragioni. Ma ciò che risulta persino più caratteristico è che l’obiettività dà origine sia all’orgoglio che all’umiltà. L’obiettività conferisce a una persona un senso di autostima e dignità. Le persone si sentono orgogliose della loro obiettività. Nello stesso tempo, l’obiettività rende le persone particolarmente consapevoli della propria fallibilità e, in questo modo, ispira loro un senso di umiltà, prudenza e modestia.
Per avere un’idea di come l’obiettività tenda a unificare gli esseri umani e trascendere le differenze contingenti legate a età, razza, nazionalità, religione, classe sociale, si consideri la cooperazione internazionale nell’ambito della matematica, delle scienze, della tecnologia e, forse ancor più importante, nell’ambito dei diritti umani. Quando le persone si sforzano di formulare decisioni in accordo con i fatti per il perseguimento di un obiettivo comune, le differenze contingenti passano in secondo piano. Quello che conta non è chi una persona sia o in che cosa creda, ma piuttosto come arrivi a determinate credenze e quale atteggiamento manifesti verso di esse – in particolare, se sia pronta a veder esaminate quelle credenze in maniera obiettiva.
- Coltivare l’obiettività
Nonostante il desiderio di obiettività sembri essere universale e naturale, il processo che ci consente di diventare obiettivi richiede competenze e capacità che molte persone inizialmente non trovano facile o naturale acquisire. Probabilmente una prima competenza in tal senso è quella di formulare ipotesi, ossia enunciare una proposizione in vista di un’indagine. Ci sono poche difficoltà quando la proposizione non è già creduta vera o falsa. In un caso del genere, raramente si riscontrano resistenze di qualche tipo all’idea di sottoporre la proposizione ad analisi e verifica.
I logici usano la parola ipotesi per riferirsi a una proposizione che non è ritenuta vera né falsa dalla comunità scientifica interessata. Essi estendono quest’uso in modo che la parola si riferisca anche a una proposizione che, ai fini del ragionamento, assumiamo come se non sapessimo né che è vera né che è falsa. Formuliamo un’ipotesi per metterla alla prova in modo obiettivo, considerare i dati a favore e contro, valutare criticamente le argomentazioni pertinenti, determinare se siano stati commessi errori, vedere in che modo rimarrà in piedi davanti a un’indagine obiettiva. Ci si è riferiti al processo iniziale di formulazione di un’ipotesi come messa tra parentesi, sospensione delle credenze e dell’incredulità e dubbio metodologico.
Quando le persone si ingannano sulla necessità di ciò che ritengono evidente, sono naturalmente spaventate di sottoporre a indagine le loro credenze. Ma anche persone sincere che non hanno familiarità con questo processo tendono a giudicarlo pericoloso. Quando si sospende il giudizio rispetto a una proposizione o si formula un’ipotesi, si mettono da parte tutti i preconcetti su di essa, per quanto questi preconcetti potrebbero sembrare ben fondati.
All’interno di una comunità aperta qualsiasi tentativo di convalida o falsificazione di una proposizione è, allo stesso tempo, una messa tra parentesi di quella proposizione. Qualsiasi tentativo di fondazione di un’ipotesi è automaticamente un invito a esaminarla criticamente. Infatti, per verificare se una dimostrazione è ben fondata è necessario mettere in dubbio la conclusione e accertarsi che la dimostrazione rimuova il dubbio. Almeno in parte, questo è ciò che intendiamo con l’affermazione “la conoscenza scaturisce dal dubbio”.
La riluttanza a veder considerata una credenza come un’ipotesi è spesso segno di dogmatismo, ristrettezza mentale e autoinganno. Ma in alcuni casi essa è più semplicemente un riflesso dell’ignoranza della metodologia logica. Se una proposizione è vera i suoi sostenitori non hanno nulla da perdere se viene analizzata criticamente. Al contrario, hanno molto da guadagnare. D’altro canto, se una proposizione è falsa, prima la si riconosce come tale meglio è. Sottrarre una proposizione a un’indagine critica non serve ad alcuno scopo utile.
A volte abbiamo paura di andare dal dottore quando sospettiamo di avere i primi sintomi di una malattia. A volte ci vuole coraggio per affrontare la verità. Ma più ci rendiamo conto che, in definitiva, conoscere la verità, in una specifica situazione, è qualcosa di altamente desiderabile, meno coraggio ci vorrà a porre la questione in discussione.
Per una comunità di pensatori obiettivi, qualsiasi tentativo di sottrarre una proposizione al processo di verifica si riflette negativamente su quelli che ritengono che quella proposizione sia vera. Sottrarre una proposizione alla verifica è visto come scadente, indegno e in ultima battuta assurdo. Una proposizione che non vale la pena sottoporre a verifica non è degna di essere presa in considerazione seriamente.
Un altro elemento che agevola il desiderio di sottoporre le credenze a verifica è la conoscenza dei principi logici. Per esempio, una persona che non riesce a fornire delle prove per una specifica credenza potrebbe provare un sentimento di paura se quella credenza venisse elevata a ipotesi. È un sentimento simile a quello provato quando non riusciamo a trovare i soldi per pagare un pasto già consumato. Ma è chiaro che l’analogia non sta in piedi una volta che siamo consapevoli dei principi che sono alla base dell’evidenza logica. Il principio fondamentale dell’evidenza può essere chiarito come segue:
Di per sé, l’assenza di una prova positiva non è mai una prova negativa definitiva e di per sé l’assenza di una prova negativa non è mai una prova positiva definitiva.
Di primo acchito, potrebbe sembrare che questo principio vada in conflitto con quello del terzo escluso, per cui ogni proposizione o è vera o è falsa ma risulta chiaro che non c’è alcun conflitto, non appena si realizza che c’è una differenza sia tra verità e conferma della verità sia tra falsità e conferma della falsità.
I principi di non onniscienza che incarnano queste distinzioni possono essere, almeno in parte, descritti così:
Non è possibile, per ogni proposizione, dimostrare che sia vera o falsa. Non si può dimostrare la verità di ogni proposizione posta come vera. Né si può dimostrare la falsità di ogni proposizione posta come falsa.
L’ignoranza del principio fondamentale dell’evidenza è stata sfruttata da persone e gruppi senza scrupoli. Una persona senza scrupoli, quando viene invitata a fornire le prove di ciò che afferma, potrebbe lanciare sfide prive di senso e provare a ribaltare la situazione chiedendo che siano fornite prove per l’evidenza del contrario e questo con lo scopo di dare l’impressione che l’assenza di prove contrarie equivalga a fornire prove in favore della sfida. Negli ultimi anni fornitori di prodotti di consumo pericolosi hanno ritardato il ritiro dei loro prodotti dal mercato usando tattiche che sfruttavano l’ignoranza del principio di evidenza da parte del consumatore. L’industria del tabacco ha cercato di far credere alle persone che le sigarette sono sicure ripetendo che gli scienziati non sono stati capaci di provare in maniera inequivocabile che fumare causa varie malattie.
La ricerca disinteressata della verità tende a tirar fuori il meglio dalle persone. Lo studio della logica, inteso non come sistema di regole estrinseche, ma come intenso sforzo personale il cui fine è essere obiettivi in merito all’obiettività, contribuisce a questa ricerca. Dall’altra parte, i tentativi di difendere credenze preconcette in qualsiasi modo si ritenga necessario, anche con l’inganno o la coercizione, tendono a tirare fuori il peggio delle persone.
- Il metodo ipotetico-deduttivo
In logica il termine dimostrazione e i suoi correlati vengono impiegati in senso stretto. Dimostrare che una proposizione è vera stabilisce effettivamente che essa è vera; fornire una dimostrazione, in tal senso, produce conoscenza oggettiva circa la verità della sua conclusione. E la stessa cosa vale, con le debite differenze, per la dimostrazione della falsità di una proposizione.
Il metodo ipotetico-deduttivo è spesso preliminare a una dimostrazione e in alcuni casi si traduce di fatto in una dimostrazione. La forma più semplice di questo metodo di ricerca consiste nel formulare un’ipotesi e vedere quali proposizioni possono essere dedotte da essa e da quali proposizioni essa può essere dedotta. L’obiettivo, chiaramente, è determinare che cos’altro sarebbe vero se l’ipotesi fosse vera e che cos’altro, se essa si dimostrasse vera, spiegherebbe la verità di quell’ipotesi – in altre parole, scoprire che cosa sarebbe spiegato da quell’ipotesi se fosse vera, e che cosa sarebbe utile per spiegare quell’ipotesi se essa fosse vera. In breve, sono in ballo qui due questioni: 1) Quali sono le conseguenze logiche dell’ipotesi e 2) di che cosa quell’ipotesi è logica conseguenza.
Le persone che non sono abituate a impiegare questo metodo rimangono spesso sorprese dalla chiarezza che esso è in grado di produrre e quante cose riesca a chiarire una volta utilizzato.
Lasciando da parte il fatto che il metodo ipotetico-deduttivo in alcuni casi conduce a una dimostrazione, esso è utile per coltivare l’obiettività perché consente una migliore comprensione dell’ipotesi, dal momento che produce conoscenza intorno a quello che ci si può aspettare se l’ipotesi risultasse vera e intorno a quali siano le conseguenze connesse all’ipotesi. Se ciò che viene affermato nell’ipotesi risulta ambiguo, questo tipo di procedura spesso consente di portare alla luce gli elementi di ambiguità e fornisce suggerimenti per la revisione. Se l’ipotesi è vaga, questo processo consente di individuare la vaghezza e fornisce suggerimenti per migliorarla.
Come può questo metodo condurre a una dimostrazione o una confutazione? Ci sono diverse possibilità. Qui ne considereremo soltanto due.
Innanzitutto, immagiamo che dall’ipotesi abbiamo dedotto una proposizione che sapevamo già in precedenza essere falsa o che avevamo stabilito essere falsa in un secondo momento, ad esempio attraverso un esperimento. In questo caso noi abbiamo una confutazione dell’ipotesi, una dimostrazione che l’ipotesi risulta falsa. E questo avviene in virtù del seguente principio: qualsiasi proposizione implicante una proposizione falsa è essa stessa falsa.
Questo è il principio familiare della falsa conseguenza, che sta alla base di gran parte del pensiero produttivo. È ad esempio il principio più impiegato per assolvere imputati innocenti e più in generale per rigettare false ipotesi.
Ci sono chiaramente molti altri modi in cui la conoscenza di questo principio spinge a coltivare l’obiettività. Per esempio, mettendo a fuoco il principio della falsa conseguenza veniamo richiamati al fatto che una proposizione è falsa se anche una delle sue conseguenze risulta falsa e che una persona che produce un enunciato è tanto responsabile per ciascuna delle conseguenze di quell’enunciato quanto lo è, in effetti, per l’enunciato in quanto tale. Questo dovrebbe spingere una persona obiettiva a essere piuttosto prudente e effettuare alcune deduzioni prima di formulare un enunciato.
In secondo luogo, immaginiamo di aver dedotto l’ipotesi da una proposizione della quale sapevamo già che era vera o che era stata determinata come vera in un secondo momento. In questo caso noi abbiamo una conferma dell’ipotesi in virtù del seguente principio:
qualsiasi proposizione implicata da una proposizione vera è essa stessa vera.
Si tratta, in questo caso, del familiare principio dell’implicazione materiale, conosciuto anche come principio della verità e della sua conseguenza. Anche questo principio è alla base del pensiero produttivo. Esso costituisce la base del ragionamento impiegato nello sviluppo assiomatico delle varie branche della matematica ed è implicato nella comprensione della “dimostrazione matematica”, la quale rappresenta un tipo di standard ideale con il quale valutare le argomentazioni che sono carenti sotto il profilo della dimostrazione matematica.
- Dimostrazione
Per discutere il concetto di dimostrazione, è utile averne in mente un esempio tipico. Consideriamo la dimostrazione euclidea del teorema di Pitagora. Il suo insieme di premesse è rappresentato da assiomi e definizioni di geometria piana, generalmente assunti come veri dall’uditorio. La sua conclusione è il teorema di Pitagora. Le sue catene di argomentazioni si estendono per diverse pagine e includono oltre 40 teoremi intermedi; i suoi passaggi finali implicano l’elaborazione di soluzioni ingegnose per dividere il quadrato costruito sull’ipotenusa in due parti, ciascuna delle quali adiacente a un lato del triangolo e ciascuna eguale al quadrato costruito sul lato adiacente.
Affinché questa dimostrazione risulti inconfutabile per un determinato uditorio è necessario che quest’uditorio assuma come vere le premesse. Non c’è alcun modo di fondare la conoscenza su premesse non assunte come vere. Quando gli uditori non conoscono le premesse, si dice che l’argomentazione è circolare o che si sta commettendo la fallacia dell’assunzione ingiustificata. Ma la conclusività della dimostrazione richiede anche che la catena dei ragionamenti mostri con chiarezza che la dimostrazione è sufficiente e che l’insieme delle premesse effettivamente implichi la conclusione. Quando tutto ciò non si dà, l’argomentazione si dice che cade nel non sequitur o che si sta commettendo la fallacia del ragionamento inadeguato.
L’idea principale qui è rappresentata dal fatto familiare che ogni dimostrazione consta di tre parti: una conclusione, un insieme di premesse e una concatenazione di ragionamenti. Normalmente la catena del ragionamento è quella che occupa lo spazio maggiore. In una dimostrazione la catena del ragionamento mostra che la conclusione viene inferita dalle premesse assunte. La catena del ragionamento in se stessa non mostra che la conclusione è vera ma che essa è inferita dalle premesse. Affinché la conclusione sia riconosciuta come vera attraverso la catena del ragionamento, la persona che compie il riconoscimento deve aver già verificato che le premesse sono effettivamente vere.
Analoghe considerazioni si applicano all’argomentazione che risulta carente sotto il profilo della dimostrazione matematica. È necessario stabilire le premesse, in altre parole essere sicuri che ciò che viene ritenuto evidente sia accurato, come se esso fosse considerato a prescindere da ciò di cui si ritiene sia evidenza. Oltre a ciò, e questa è una questione interamente differente, è necessario stabilire che quello che si ritiene essere evidente per la conclusione sia sufficiente a implicare la conclusione. Se le cose non stanno così la conclusione non è dimostrata, anche nel caso in cui l’evidenza sostenuta fosse corretta.
In sintesi, ci sono due cose da verificare: se l’evidenza sostenuta è accurata e se la catena di ragionamenti rende chiaro il fatto che l’evidenza sostenuta, nel caso si dimostrasse vera, garantisce l’accettazione della conclusione.
Un ragionamento fallace da premesse garantite non è migliore di un ragionamento cogente basato su premesse non garantite. In molti casi di cattive argomentazioni le persone sprecano le loro energie litigando sulle premesse quando un esame superficiale del ragionamento avrebbe portato a demolire come un castello di carte l’argomentazione.
Sono coinvolte due arti nella dimostrazione. C’è un’arte nella produzione o scoperta di una dimostrazione (un’arte euristica) e c’è un’arte nel riconoscere le dimostrazioni (un’arte critica). Quest’arte critica ci riporta al problema di perfezionare i criteri di dimostrazione. Affinché un’argomentazione costituisca una dimostrazione di una data conclusione per uno specifico uditorio, è necessario che l’argomentazione persuada l’uditorio della verità della conclusione. Ma la persuasione non è sufficiente e determinati criteri sono necessari per prevenire l’inganno e l’errore.
Se una persona sta elaborando una dimostrazione o valutando criticamente un’argomentazione presentata come dimostrazione, il principio guida che va sottolineato è quello della regola aurea della dimostrazione: muovi agli altri le stesse obiezioni che vorresti fossero mosse a te.
Quando formuli un’argomentazione e ti domandi se costituisca una dimostrazione, chiediti se la troveresti accettabile nel caso in cui te la proponesse un avversario rispettabile.
Similmente, quando un’argomentazione ti viene proposta come dimostrazione e ti domandi se dovresti accettarla, chiediti se l’avresti proposta a un avversario rispettabile e se tu stesso avresti potuto sostenerla.
- Conclusione
Nella discussione proposta sopra abbiamo passato in rassegna soltanto alcuni aspetti dell’interrelazione e interdipendenza di logica ed etica. Abbiamo visto che la pratica etica coinvolge la logica nella misura in cui le varie virtù richiedono obiettività per essere effettive e benefiche, e in alcuni casi anche per la loro stessa esistenza o realizzazione. Purtroppo, non c’è stato spazio in questa breve discussione per esplorare il ruolo della logica nella teoria etica. L’importanza della consistenza e del criterio di consistenza nella teoria etica non è stato menzionato, né abbiamo menzionato il ruolo della logica nell’analisi dei concetti e delle proposizioni etiche. In ogni caso, uno dei punti più importanti è quello che viene spesso trascurato e che non poteva essere trattato in precedenza nella misura in cui è stato trattato qui. Mi riferisco al fatto che la logica può essere vista come un iniziale, imperfetto, incompleto e fondamentalmente non completabile tentativo di coltivare l’obiettività, di scoprire principi e metodi che contribuiscano alla comprensione e alla pratica dell’obiettività, la quale rappresenta una virtù etica accanto a gentilezza, giustizia, onestà, compassione e alle altre e che è specificamente umana nel senso che un’entità onnisciente e infallibile non avrebbe bisogno di ambire all’obiettività e alla logica. La logica è una scienza umana e umanistica; ed è una delle scienze umane nel senso rinascimentale.
(Traduzione italiana di Luca Lo Sapio)