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Questioni bioetiche nella pandemia da Covid 19: cooperazione al male, appropriazione del male, obiezione di coscienza

Autore


Demetrio Neri

Università degli Studi di Messina

già Docente di Bioetica presso l’Università degli Studi di Messina

Indice


  1. Premessa
  2. I vaccini e l’uso di cellule fetali
  3. Cooperazione al male
  4. La cooperazione passiva
  5.  Le altre forme di cooperazione e l’appropriazione del male
  6. Un errore categoriale
  7. Scandalo
  8. Cambiamento di paradigma?

 

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S&F_n. 25_2020

Abstract


Bioethical issues in the Covid 19 pandemia: cooperation with evil, appropriation of evil, conscentious objection

This article discusses one of the ethical issues raised during the debate on the anti-covid 19 vaccines: the morality of the use of vaccines prepared and/or tested using fetal cells from abortions, affirmed by official documents of the Catholic Church, but contested by some exponents of the same Church and by some catholic organizations. In the course of the article the moral arguments at the center of this discussions will be presented and examined. 

  1. Premessa

Nel corso del dibattito pubblico nazionale e internazionale suscitato dalla pandemia da Covid 19 sono state affrontate tutta una serie di questioni bioetiche, buona parte delle quali hanno avuto a che fare con la definizione dei criteri di priorità nell’allocazione delle risorse (in primo luogo delle risorse ospedaliere[1], e poi dei vaccini).  Si tratta senza dubbio di questioni cruciali, la cui discussione ha generato una nutritissima serie di articoli, prese di posizione e documenti di organizzazioni nazionali e internazionali. In questo articolo, tuttavia, non mi occuperò di questo tipo di questioni bioetiche, se non per ricordare che non si tratta certo di questioni nuove, anche se talvolta, nel dibattito, è sembrato che lo fossero; non è così, ovviamente, sono questioni con le quali abbiamo avuto e abbiamo continuamente a che fare, sia a livello macroallocativo (quanto destinare alla sanità nel bilancio complessivo dello Stato), sia a livello microallocativo (basti pensare alla questione dei trapianti). Anzi, in un certo senso, si potrebbe dire che la bioetica è stata concepita nel 1962 proprio in relazione a una questione di priorità nell’accesso a risorse scarse, anche se ufficialmente è nata nove anni dopo[2].  In questo articolo mi concentrerò invece su una questione che riguarda la ricerca stessa sui vaccini e la loro produzione, una questione che, in sinergia con l’opposizione dei cosiddetti NOVax e con altre forme di “vaccine hesitancy”, potrebbe avere qualche effetto sull’accettazione dei vaccini e quindi incidere sul raggiungimento dell’immunità di gregge che è l’obiettivo della campagna vaccinale.

 

  1. I vaccini e l’uso di cellule fetali

La questione che intendo affrontare è pubblicamente esplosa (o, meglio, riesplosa, come vedremo), quando, nel giugno 2020, la rivista Science[3] ha dato conto delle reazioni del fronte antiabortista alla notizia che alcuni dei vaccini anti-covid19 in preparazione venivano sviluppati grazie a cellule ricavate decenni prima da feti abortiti.

Il fronte anti-abortista comprende numerose denominazioni religiose, ma qui farò riferimento alle reazioni di rappresentanti ufficiali della Chiesa cattolica romana, che sono quelle che hanno destato maggiore sorpresa. Si riteneva infatti che, sul punto in discussione, la Chiesa cattolica avesse ormai da tempo raggiunto una posizione favorevole all’uso di vaccini preparati ricorrendo a cellule fetali[4], espressa in alcuni documenti ufficiali che, nel seguito, citerò con la sigla seguita dall’anno: Pontificia Accademia per la Vita, Riflessioni morali sui vaccini preparati con cellule derivate da feti abortiti, Roma, 2005 (PAV 2005)[5]; Congregazione per la dottrina della Fede, Istruzione Dignitatis Personae su alcune questioni di bioetica, Roma, 2008 (CDF 2008)[6]; Pontificia Accademia per la Vita, Nota sull’uso dei vaccini, Roma, 2017 (PAV 2017)[7]; Congregazione per la dottrina della Fede, Nota sulla moralità dell’uso di alcuni vaccini Covid-19 (CDF 2020)[8]; Commissione vaticana Covid-19, Vaccino per tutti.20 punti per un mondo più giusto e sano, Roma 2020 (CVC, 2020)[9].

Diciamo innanzi tutto che, benché concordanti sull’indicazione finale favorevole all’uso di questi vaccini, questi documenti presentano alcune differenze di accento e di priorità nell’indicare le condizioni di ammissibilità. Non posso analizzarli in dettaglio, ma un punto merita di essere richiamato.

Pav 2005 si presenta come un documento che chiama a una battaglia politica e culturale mirata, da un lato, a «rendere difficile la vita alle industrie farmaceutiche che agiscono immoralmente e senza scrupoli»; e, dall’altro, a fare pressione con ogni mezzo sulle autorità pubbliche affinché si adoperino per rendere disponibili «al più presto» vaccini esenti da collegamenti con l’aborto, in modo da eliminare al più presto possibile la condizione di «coercizione morale della coscienza dei genitori che sono costretti a scegliere tra l’agire contro la propria coscienza e il mettere a rischio la salute dei propri figli e della popolazione nel suo complesso». Con queste parole si chiude il documento, che solo a queste condizioni riconosce accettabile il ricorso a vaccini “macchiati”, ma come ultima ratio, in assenza di alternative e su basi temporanee. E in effetti nelle conclusioni troviamo al primo posto l’appello  all’obiezione di coscienza: «C’è una grave responsabilità ad usare vaccini alternativi e a fare obiezione di coscienza nei confronti di quelli che presentano problemi morali».

Questo tono da battaglia si è progressivamente attenuato nei documenti successivi. Nessuno di essi  fa più cenno all’obiezione di coscienza e scompare anche il tema della «coercizione morale» (che fa comprendere come per PAV 2005 quei vaccini non fossero esenti da problemi morali), poiché – nelle parole di CDF 2020, §3 - «è perciò da ritenere che in tale caso si possano usare tutte le vaccinazioni riconosciute come clinicamente sicure ed efficaci con coscienza certa che il ricorso a tali vaccini non significhi una cooperazione formale all’aborto dal quale derivano le cellule con cui i vaccini sono stati prodotti». (corsivi miei). Dunque, tutti i vaccini sono, in questo documento, esenti da problemi morali e possono essere usati in buona fede[10]; e a sostegno di questa indicazione questo, e gli altri documenti successivi al primo - ma anche numerosi interventi nel dibattito – insistono nell’attenuare e minimizzare il collegamento tra i vaccini e l’aborto: si osserva che si è trattato di pochissimi aborti, avvenuti parecchi decenni fa e quindi «remoti», che le cellule sono state «immortalizzate» cosicché non è necessario ricorrere a nuovi aborti per ottenerne di nuove e così via[11].

Comunque, a parte queste differenze, tutti i documenti concordano nel sostenere che i cattolici possono in buona fede, a certe condizioni, far uso di vaccini nella cui preparazione sia stato usato materiale biologico di origine “illecita” (per usare il linguaggio di CDF 2008); e concordano anche sull’argomento che permette di giungere a questa conclusione. Nelle parole di CDF 2020: «La ragione fondamentale per considerare moralmente lecito l'uso di questi vaccini è che il tipo di cooperazione al male (cooperazione materiale passiva) dell’aborto procurato da cui provengono le medesime linee cellulari, da parte di chi utilizza i vaccini che ne derivano, è remota». A fronte di ciò, la stessa Nota della CDF registra però l’esistenza di «differenti pronunciamenti sui mass media di Vescovi, Associazioni cattoliche ed Esperti, fra loro diversificati e talvolta contraddittori, che hanno anche sollevato dei dubbi riguardo alla moralità dell’uso di questi vaccini».

Come si spiega che una posizione così autorevole, data la fonte da cui proviene, e avallata dal gesto di Papa Francesco che si è sottoposto a vaccinazione e ha dichiarato che si tratta di un «obbligo morale»[12], sia risultata poco convincente o addirittura inaccettabile per alcuni esponenti del mondo cattolico? E aggiungo subito: non da ora. In effetti il dibattito in corso è una riedizione del dibattito apertosi già verso la fine degli anni ’90 del secolo scorso sulla liceità della derivazione e uso di cellule staminali da embrioni (cui si applicano gli stessi principi applicati al caso delle cellule fetali) e, poco dopo - esattamente dopo la pubblicazione del documento  PAV 2005 - sulla liceità di vaccini preparati a partire da cellule ricavate da aborti. Il tema dottrinale è in effetti lo stesso e cioè l’appropriatezza dell’argomento della cooperazione al male per trattare la fattispecie che ci interessa e cioè l’uso dei vaccini preparati a partire da cellule fetali. Sia pure in sintesi, conviene esporre i capisaldi di questo argomento.

 

  1. Cooperazione al male

Si tratta di un argomento di etica pratica, particolarmente (ma non soltanto) coltivato dalla teologia morale cattolica[13], che trova applicazione in numerose situazioni della vita sociale, in specie, ma non soltanto, in ambito sanitario. È evidente, infatti, che il nostro agire sociale si intreccia inevitabilmente, direi quotidianamente, con l’agire degli altri: a meno che uno non viva in estrema solitudine (e forse neppure in quel caso), è impossibile evitare modalità più o meno immediate e attive di cooperazione con gli altri. Può allora sorgere il timore che possa esservi «un legame tra la propria azione e un’azione moralmente cattiva compiuta da altri»[14], e l’argomento della cooperazione al male consente di ragionare sul trasferimento del disvalore, imputato al primo atto immorale, agli atti degli altri agenti coinvolti in modo da poter stabilire se, e a che punto, tale trasferimento eventualmente cessi e chi si trova a cooperare possa essere esente dalla colpa morale della complicità con l’atto immorale[15]. Il trasferimento del disvalore dipende, infatti, da numerosi fattori circostanziali (soggettivi e oggettivi) che la dottrina esamina e valuta in riferimento a una serie di distinzioni concettuali che permettono di stabilire se la complicità esiste o meno e, comunque, di graduare la colpa in relazione alla situazione in cui si trova chi coopera.

In breve, la prima e fondamentale distinzione è quella tra cooperazione formale e materiale. La prima si verifica quando chi coopera condivide l’intenzione malvagia del primo agente e in questo caso non c’è luogo a procedere: l’accusa di complicità scatta pienamente e chi coopera è colpevole tanto quanto chi ha compiuto o compirà l’atto malvagio.

Quando invece l'agente morale si trova a cooperare con l'azione immorale di un altro senza condividerne l'intenzione cattiva, si configura una cooperazione materiale, la cui gravità viene valutata in base ad alcune coppie concettuali elaborate dalla dottrina. La cooperazione può essere, infatti, immediata (o diretta) quando si coopera all’esecuzione dell’atto malvagio in sé stesso, oppure mediata (o indiretta) quando si coopera a realizzare le condizioni in cui l’atto viene da altri compiuto, rendendone possibile l’esecuzione; ancora, può essere prossima o remota[16], determinante o non determinante (a seconda della collocazione della cooperazione nella catena causale che porta all’evento cattivo). Infine, occorre distinguere tra una cooperazione materiale attiva e una passiva: la prima si concretizza in atti di cooperazione (valutati in base alle distinzioni sopra riportate), mentre la seconda si riferisce all’omissione di atti di denuncia o, persino, di impedimento dell’azione malvagia.

 

  1. La cooperazione passiva

Soffermiamoci prima di tutto su quest’ultima forma di cooperazione, che è utile per comprendere perché, sia pure di tanto in tanto, si riaccende la discussione sulla questione che stiamo esaminando. Tutti i testi sopra ricordati sottolineano la necessità di una pubblica denuncia che prenda le distanze dall’atto malvagio, onde testimoniare la propria non condivisione e anche per evitare di «dare l’impressione di una certa tolleranza o accettazione tacita di azioni gravemente ingiuste. Ciò infatti contribuirebbe a aumentare l’indifferenza, se non il favore con cui queste azioni sono viste in alcuni ambienti medici e politici» (CFD 2008, § 35) e questo potrebbe contribuire – complici anche gli indubbi benefici prodotti dai vaccini – a creare «un consenso sociale generalizzato all’operato delle industrie farmaceutiche che li producono in modo immorale»[17].

Da ciò, quindi, l’obbligo morale della pubblica denuncia: «È evidente l’obbligo morale di tutti i soggetti coinvolti nella ricerca, nella produzione, nella commercializzazione e nella somministrazione di un vaccino (ciascuno dei quali ha responsabilità differenti verso l’uso di cellule fetali da aborti elettivi in ordine al vaccino stesso) di dissociarsi formalmente e pubblicamente dall’atto di aborto che è all’origine remota della produzione di linee cellulari fetali»[18].

Quest’obbligo grava, in primo luogo, sulle organizzazioni (Chiese, ospedali, centri di ricerca ecc.)  che devono farsi portavoce della denuncia e – come sta avvenendo nel caso in questione – fare pressione sulle autorità affinché usino i fondi pubblici per preparare vaccini di cui tutti i cittadini possono fruire in buona fede[19].  L’obbligo grava anche sui medici e sui genitori che accettano la somministrazione di questi vaccini per i propri figli (e, si suppone, per se stessi): non è chiaro, tuttavia, se quest’obbligo possa considerarsi assolto una tantum, per così dire, attraverso una delega alle organizzazioni di cui sopra, oppure richieda atti personali di denuncia ripetuti a ogni uso dei vaccini, anche in occasione di quelli comunemente somministrati ai bambini nei primi anni di vita.

Infine, quest’obbligo grava anche sui ricercatori, ai quali però viene ingiunto non solo di dissociarsi, ma anche, e soprattutto, di evitare di fare uso, per le loro ricerche, del materiale biologico che altri ottengono mediante lo sfruttamento della vita umana innocente. È da notare, infatti, che per i ricercatori che usassero quelle cellule la dissociazione pubblica non basterebbe ad assolverli dalla colpa morale. Ci sarebbe infatti – nota CDF 2008, § 34 –  una evidente «contraddizione nell’atteggiamento di chi afferma di non approvare l’ingiustizia commessa da altri, ma nel contempo accetta per il proprio lavoro il materiale biologico che altri ottengono mediante tale ingiustizia».

I ricercatori “di buona coscienza” devono quindi scegliere vie di ricerca che non prevedano l’uso delle cellule “incriminate” e – almeno nel caso in questione – non ci sono certo difficoltà a farlo dato che sono ormai centinaia i vaccini in studio.

Tuttavia, a proposito dei ricercatori, vorrei esporre una osservazione che serve soprattutto a mostrare quanto ampia può essere l’estensione dell’argomento della cooperazione. Supponiamo che un ricercatore di buona coscienza, nel mandare avanti la sua ricerca che non prevede l’uso di materiale biologico illecito, si trovi nella necessità di utilizzare le conoscenze che altri suoi colleghi hanno ottenuto utilizzando quel tipo di materiale: potrà usare queste conoscenze senza il timore di incorrere nella cooperazione al male? A fronte del male assoluto consistente nello sfruttamento della vita umana innocente (con l’aborto procurato o con la sperimentazione sugli embrioni), il fatto che da tale sfruttamento si ottengano materiali o conoscenze è moralmente rilevante? Qui non mi interessa cercare di individuare risposte a questa domanda, mi interessa solo mostrare che il principio della cooperazione al male può avere una estensione pressoché incontrollabile.[20]

 

  1. Le altre forme di cooperazione e l’appropriazione del male

Torniamo ora alle altre forme di cooperazione. Applicando le distinzioni concettuali al caso in questione (l’uso di vaccini), i documenti sopra ricordati giungono alla conclusione – sia pure, come s’è accennato, con importanti differenze di accento - che non esiste il timore di complicità con l’atto di aborto perché il tipo di cooperazione coinvolta è una cooperazione materiale mediata, remota e non determinate che, a certe condizioni, è moralmente incolpevole. Ci si può chiedere, tuttavia, se  – da un punto di vista logico – sia corretto studiare il legame tra un atto del presente (l’uso dei vaccini) e un atto del passato (l’aborto) ricorrendo alla categoria della cooperazione. Può certo esservi una cooperazione passiva, per evitare la quale – come s’è detto prima - l’agente in questione deve pubblicamente dichiarare la sua contrarietà all’aborto e far sentire la sua voce con ogni mezzo. Può esservi anche una cooperazione formale, quando chi oggi compie l’azione non ha scrupoli morali nei confronti dell’aborto e quindi condivide l’intenzione del primo agente: ma questa fattispecie, sempre illecita, qui non ci interessa, poiché stiamo parlando di un agente che condanna l’aborto e si chiede se l’accettazione dei vaccini non configuri una qualche forma di complicità con l’aborto.

Al di fuori di questi casi, è assai dubbio che sia corretto parlare di una cooperazione materiale tra l’atto del presente e l’atto del passato. In effetti, già all’inizio del 2000 - ma sulla base di una discussione ben più risalente- la correttezza di trattare il caso dei vaccini ricorrendo all’argomento della cooperazione al male è stata posta in discussione[21]. Si è osservato che la dottrina funziona benissimo quando l’azione della quale si vuole accertare la liceità è contemporanea a quella giudicata illecita, e si traduce (sempre tenendo ferma la non condivisione dell’intenzione immorale) nel contribuire, sia pure in modo subordinato, al piano d’azione di altri e nel facilitarne l’esecuzione.  Un esempio di scuola, citato in questo contesto[22], è quello del servo che regge la scala grazie alla quale il suo padrone si appresta a entrare nella  camera della sua amata per compiervi adulterio. Il servo deve essere sul posto, insieme al suo padrone, e la sua azione di sostegno (indipendentemente dal fatto che egli condivida o meno l’intenzione del padrone) si traduce in un contributo che facilita l’esecuzione dell’azione immorale.

Ora, l’azione che ci interessa nel caso dei vaccini non ha nessuna di queste caratteristiche, per la semplice, e ovvia – come è stato sottolineato in qualche intervento nell’attuale dibattito - ragione che non esiste alcun senso in cui la mia azione di oggi (assumere un vaccino) possa costituire un contributo alle (o una facilitazione delle) azioni illecite compiutesi nel passato (l’aborto, la successiva derivazione di cellule, l’uso di queste cellule per preparare vaccini ecc.). A parte, come s’è detto, il caso della cooperazione formale, l’azione di assumere il vaccino non può essere oggettivamente descritta come un atto di cooperazione materiale di alcun tipo e quindi, a lume di logica, non può dirsi – come invece dicono i documenti citati – che l’uso di questi vaccini è lecito perché la cooperazione implicata è di tipo materiale, mediata, remota e non determinante. In realtà, non è implicata nessuna cooperazione materiale: per riprendere la già citata espressione di PAV 2005, l’eventuale percezione di un legame tra la propria azione e l’aborto può scaturire non dal timore di una qualche forma di (inesistente) cooperazione, ma dalla consapevolezza di trarre beneficio da un atto che si reputa moralmente sbagliato. Si tratta dunque di appropriazione (dei frutti) del male, non di cooperazione col male.

 

  1. Un errore categoriale?

Trattare il caso della fruizione dei benefici del vaccino come un caso di cooperazione materiale è quindi concettualmente sbagliato, è un errore categoriale nella classificazione della realtà, perché sussume una fattispecie sotto una categoria non idonea. La proposta avanzata dalla teologa morale Kaveny è invece di studiare questo tipo di casi in cui si trae beneficio da un atto malvagio compiuto da altri, senza che esista alcun tipo di cooperazione materiale con quell’atto, con la categoria della «appropriation of evil» la cui fertilità viene studiata in relazione a casi classici, uno dei quali è appunto il caso dei vaccini e degli altri farmaci preparati grazie all’uso di cellule fetali[23].

Riprendendo la tesi di Kaveny, un teologo morale intervenuto nel dibattito in corso[24] ha sostenuto che la ragione fondamentale dell’insoddisfazione di alcuni vescovi e alcune organizzazioni cattoliche nei confronti dell’attuale posizione ufficiale della gerarchia romana è dovuta proprio al fatto che tale posizione è fondata su uno strumento concettuale inadatto. Trattare una questione di «trarre beneficio» con le categorie concettuali della cooperazione è un po’ come tentare di mettere il piede destro nella scarpa sinistra: se si forza un po’ ci entra, ma il tutto appare quanto meno poco convincente e incoerente. È appunto questo, secondo questo studioso, ad aver generato quei fraintendimenti e differenti pronunciamenti da parte di Vescovi e organizzazioni cattoliche ricordati da CDF 2020. A suo dire, le conclusioni autorevoli riaffermate dalla CDF sarebbero apparse più plausibili e meno soggette ad essere fraintese se fossero state argomentate usando la categoria dell’appropriazione del male invece di quella della cooperazione al male.

Tuttavia, se è vero che da un punto di vista logico la categoria della appropriazione si mostra molto più idonea della cooperazione a trattare casi di questo genere, è però da dubitare che l’uso di questa nuova categoria avrebbe permesso di giungere alla conclusione favorevole all’uso dei vaccini in maniera talmente convincente da evitare la  resistenza e il rifiuto della posizione della gerarchia romana.

 

  1. Scandalo

Una delle reazioni più dure e decise nei confronti della posizione favorevole ai vaccini è stata espressa dal vescovo ausiliare di Astana (Kazakistan) Athanasius Schneider dapprima in un articolo pubblicato l’11 dicembre 2020 su Crisis Magazine[25] e poi in un intervento tenuto 19 febbraio 2021, durante una conferenza online  organizzata da Life Site News dal titolo “Unmasking COVID-19: Vaccines, Mandates, and Global Health”, che ha dato luogo a una mobilitazione per il lancio di un nuovo movimento per la vita[26]. Con un linguaggio assai crudo, questa lettera dice due cose importanti per il nostro discorso.

La prima è una sbrigativa liquidazione del ricorso all’argomento della cooperazione al male. Si tratta – scrive il vescovo - di un argomento astratto (come anche quello del «doppio effetto» talora tirato in ballo a questo proposito), che può andar bene per affrontare tutta una serie di casi, come il pagare le tasse oppure comprare prodotti realizzati con manodopera ridotta a livello di schiavitù, ma che non è in nessun modo applicabile in funzione giustificativa all’uso dei vaccini “contaminati”  da cellule da feti abortiti: «Usando tali vaccini e farmaci, che utilizzano linee cellulari provenienti da bambini abortiti, beneficiamo fisicamente dei “frutti” o “benefici” di uno dei più grandi mali dell’umanità, vale a dire il crudele genocidio dei nascituri». Siamo dunque nel contesto dell’appropriazione del male e il vescovo Schneider non fa sconti: questa appropriazione è sempre colpevole, non importa quanto remoto nel tempo  sia l’atto immorale originario e non importa neppure se l’appropriazione venga accompagnata da rituali proclami di rifiuto dell’aborto: «Come possiamo essere e proclamare di essere contro l’aborto con la massima determinazione quando accettiamo vaccini contaminati dall’aborto, quando all’inizio di questi vaccini sta l’omicidio di un bambino?».

Il vescovo mette in campo – non so con quanta cognizione di causa, dato che non ci sono citazioni – tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi connessi al tema dell’appropriazione[27] e il suo obiettivo non sono tanto i cattolici che accedono alle vaccinazioni (lo fanno da tempo), quanto la gerarchia romana che, ratificando e promuovendo la vaccinazione, sta compiendo un atto che nella tradizione morale della Chiesa cattolica viene annoverato sotto la categoria dello scandalo. In senso teologico, scandalo vuol dire compiere un’azione che per sua natura o a causa delle circostanze può diventare per altri occasione per reiterare comportamenti immorali. Ed è questo appunto quel che, secondo il vescovo, sta accadendo: «Guardando la risposta della Chiesa cattolica, gli abortisti e i responsabili della ricerca biomedicale concluderanno che la gerarchia ha acconsentito a questa situazione che comprende un’intera catena di crimini contro la vita, e che giustamente può essere descritta come una “catena di morte».

Tralasciando altre osservazioni, passo alla seconda cosa importante del discorso di Schneider, che è il richiamo a un passo dell’Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II: «Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa. La valutazione morale dell’aborto è da applicare anche alle recenti forme di intervento sugli embrioni umani che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne comportano inevitabilmente l’uccisione»[28].

 

  1. Cambiamento di paradigma?

Nel richiamare questo passo, il vescovo Schneider mostra di ispirarsi all’insegnamento morale, tradizionale nella dottrina della Chiesa cattolica, secondo cui esistono atti che sono sempre intrinsecamente illeciti, per il tipo di atti che sono e indipendentemente dalle intenzioni di chi li compie e dalle loro conseguenze. L’originaria e intrinseca immoralità di questi atti macchia tutto quel che ne può derivare, anche in termini di benefici, e non può mai, in nessun modo, essere condonata e neppure avere l’apparenza di esserlo.

Col gergo di scuola, diremo che l’insegnamento morale tradizionale si traduce in un’etica deontologica con (almeno) un principio o valore assoluto, che impone obblighi inderogabili, come appunto richiede la logica dell’aggettivo «assoluto». Proprio in grazia di questa struttura la dottrina ha avuto bisogno di elaborare strumenti concettuali (come l’argomento della cooperazione al male o la dottrina del doppio effetto)  per affrontare e risolvere casi della vita reale che, da rari come potevano essere al tempo di  Sant’Alfonso, sono diventati, specie in ambito sanitario, sempre più frequenti. Ma i margini di manovra di questi strumenti sono strettamente vincolati all’assunto fondamentale dell’esistenza di atti intrinsecamente immorali, che va sempre e in ogni caso salvaguardato. Nel 1993 Giovanni Paolo II, nell’enciclica Veritatis Spendor[29], condannò in modo chiaro e netto le interpretazioni (che in altri tempi si sarebbero definite “lassiste”)  di questi strumenti concettuali, che in pratica finivano per vanificare l’insegnamento tradizionale circa l’esistenza di  «atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati “intrinsecamente cattivi” (intrinsece malum)» (§ 80). Ribadendo che se «gli atti sono intrinsecamente cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla», il Papa conclude: «Per questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto «soggettivamente» onesto o difendibile come scelta» (§ 81).

Questo è, in estrema sintesi, l’insegnamento tradizionale della chiesa ed è ad esso che si ispirano Schneider e i suoi seguaci. Beninteso, il richiamo all’insegnamento tradizionale non manca certo nei documenti della gerarchia romana citati; e resta materia di controversia la misura in cui l’accettazione dei benefici prodotti da un atto intrinsecamente immorale possa far venire meno la forza di tale insegnamento. Mi sembra indubbio, tuttavia, che nell’attuale dibattito la forza di questo insegnamento  venga  attenuata in ragione delle circostanze eccezionali in cui ci troviamo, che portano in primo piano il perseguimento del «bene comune»[30].  E poiché le circostanze, per quanto eccezionali, possono servire – come dice la Veritatis Splendor – ad attenuare la malizia, ma non a sopprimerla, possiamo dire che quando i documenti citati (tranne il primo) dichiarano esenti da problemi morali tutti i vaccini in qualche modo legati all’aborto, stanno rinunciando al caposaldo dell’insegnamento tradizionale? In questo caso, la struttura teorica dell’etica propria della Chiesa cattolica passerebbe dalla categoria delle etiche deontologiche con doveri assoluti alla categoria delle etiche deontologiche con doveri prima facie, cioè doveri che stanno tutti sullo stesso piano quanto a obbligatorietà, cosicché quale dei doveri che costituiscono il tessuto dell’ordine morale prevalga sugli altri in determinati momenti dipende dalla natura delle circostanze. Si tratterebbe certamente di un cambiamento radicale (e, per quanto mi riguarda, augurabile); e, sebbene forse ancora prematuro, non mi sembra infondato porsi questo problema che, tra l’altro, emerge con chiarezza in un articolo di Francesco D’Agostino pubblicato su Avvenire il 3 aprile 2021[31].

D’Agostino sostiene che la pandemia Covid 19 potrebbe avere, tra gli altri, l’effetto di mettere in crisi irreversibilmente le stesse strutture concettuali della bioetica, che egli riconduce a due modelli: quello principialista e quello utilitarista. Premetto che questa caratterizzazione dell’ambito della bioetica non mi convince, la trovo anzi piuttosto limitativa, ma non è questo il punto che intendo discutere in questa sede. Quel che interessa è che, parlando del principialismo, D’Agostino lo descrive come una struttura che presenta «valori assoluti e inderogabili (i cosiddetti “princìpi non negoziabili”)». Questo forse non è vero di tutte le forme di principialismo, ma certamente quella descritta da D’Agostino è la forma di principialismo incorporata nell’insegnamento tradizionale della Chiesa cattolica e D’Agostino ne dichiara «irreversibile» la crisi (insieme, ovviamente, all’altro paradigma): «Come, insomma, ad avviso di molti, l’etica sarebbe ormai evaporata, abbandonando ogni pretesa e ogni appello alla verità, così starebbe ormai evaporando la bioetica, con buona pace dei tanti comitati, locali, nazionali e internazionali che cercano di farla sopravvivere, ossigenandola in continuazione. È una conclusione molto conturbante, questa, con la quale dovremo tornare a fare seriamente i conti». A tutta prima, non credo di poter condividere il pessimismo sulle sorti della bioetica che traspare da queste parole. Preferisco pensare che si tratti di una crisi di crescita e di trasformazione: in quale direzione, è ancora presto per poterne delineare i contorni.


1] Come è noto, in Italia il dibattito è stato innescato da un documento del 6 marzo 2020 della SIAARTI, Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti Intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili (http://www.siaarti.it/SiteAssets/News/COVID19%20-%20documenti%20SIAARTI/SIAARTI%20%20Covid19%20%20Raccomandazioni%20di%20etica%20clinica.pdf. Sul dibattito che ne è seguito, per un primo esame, rinvio a L. Craxi, M. Vergano, J. Savulescu, D. Wilkinson, Rationing in a Pandemic: Lessons from Italy, in «Asian Bioethics Review», 12, 2020, pp. 325-330.

[2] Mi riferisco alla vicenda della <<Commissione di Dio>> raccontata da Shana Alexander nel fascicolo del 9 novembre 1962 della rivista Life in un reportage dal titolo They Decide Who Lives, Who Dies. La commissione (Admissions and Policies Committee of the Seattle Artificial Kidneys Center at the Swedish Hospital) era composta da sei rappresentanti della società civile ed aveva il compito di decidere, sulla base dello screening con criteri medici operato dal comitato tecnico-scientifico, chi doveva essere arruolato nella sperimentazione. Dato l’esiguo numero di apparecchi per la dialisi allora disponibili, questo significava che i membri del comitato dovevano decidere «chi vive e chi muore». Trent’anni dopo la vicenda venne rievocata, come uno dei luoghi di concepimento della bioetica, in un convegno su cui vedi A.R. Jonsen, ed., The Birth of Bioethics, in «The Hastings Center Report», Special Supplement, 23, 6, 1993; sul dibattito scaturito da quella vicenda cfr. A.R. Jonsen, The Birth of Bioethics, Oxford University Press, New York 1998, pp. 311 e sgg.

[3] Cfr. M. Wadman, Vaccines that use human fetal cells draw fire, in «Science»,  vol. 368, issue 6496, 2020, pp. 1170-1171.

[4] Così la posizione della Chiesa cattolica viene in genere catalogata in letteratura: cfr. J.D. Grabenstein, What the World’s religions teach, applied to vaccines and immunoglobulines, in «Vaccine»,, 31, 2013, pp. 2011-2023; A. Giubilini, The Ethics of Vaccination, Palgrave Macmillan, 2019 (https://doi.org/10.1007/978-3-030-02068-2).

[5] Non sono  riuscito a trovare, sul sito del Vaticano e della PAV, traccia di questo documento che, in realtà, è  il riassunto (in inglese) di un rapporto redatto (in italiano) da una commissione di esperti su incarico della PAV, a sua volta incaricata di questo compito dalla Congregazione per la dottrina della fede, alla quale si era rivolta la signora Debra Vinnedge, direttore esecutivo dell’associazione Children of God for Life, per avere dei chiarimenti sul diritto dei genitori ad opporsi alla vaccinazione obbligatoria dei bambini con vaccini  preparati con linee cellulari derivate da feti abortiti. Il riassunto è allegato alla lettera di risposta alla signora Vinnedge, firmata dall’allora Presidente della PAV, Elio Sgreccia, ed è stato pubblicato  nella sezione Documentazione di Medicina e Morale, 2005, n.3, pp.618-626, insieme a un articolo di A. R. Luňo, Riflessioni etiche sui vaccini preparati a partire da cellule provenienti da feti umani abortiti” (ibid.);  l’anno successivo il riassunto è stato pubblicato negli Stati Uniti («The National Catholic Bioethics Quarterly»Autumn 2006, pp. 541-549) insieme ad alcuni articoli di commento e ha dato luogo a un ampio dibattito.

[6]www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20081208_dignitatis-personae_it (cfr.in particolare i §§ 34 e 35 sull’uso di materiale biologico umano di origine illecita).

[7]www.academyforlife.va/content/dam/pav/documenti%pdf/2017/vaccini%italia.pdf. La Nota è stata pubblicata insieme all’Ufficio per la Pastorale della salute della CEI e all’Associazione dei medici cattolici italiani.

[8]www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20201221_nota-vaccini-anticovid_it.html.

[9]www.vatican.va/roman_curia/pontifical_academies/acdlife/documents/rc_pontacd_life_doc_20201229_covid19-vaccinopertuttti_it.html. In questo documento c’è il rinvio ai due precedenti documenti della PAV, ma se si clicca sulla parola NOTE  si viene rinviati al sito della PAV dove però compare solo il secondo documento (quello del 2017), mentre del primo si dice soltanto che «potrebbe a breve essere rivisto e aggiornato». Quest’ultima formula compare anche nel documento del 2017.

[10] Ma se tutti i vaccini sono moralmente accettabili, che senso ha l’affermazione contenuta nel paragrafo precedente secondo cui  questi vaccini sono accettabili «quando non sono disponibili vaccini contro il Covid-19 eticamente ineccepibili»? (corsivo mio).

[11] Per la verità, le cose non stanno esattamente in questi termini. Sulla vicenda di queste cellule c’è una nutrita letteratura, sia scientifica sia di riflessione etica. Mi limito a rinviare a M. Wadman, The truth about fetal tissue research, in «Nature», 528, 181, 2015, pp. 178-181;  e  Id., The Vaccine Race: Science, Politics, and the Human Costs of Defeating Disease,  Viking, New York 2017. Va ricordato che le cellule derivate negli anni ’60 e ’70 e “immortalizzate” sono diventate una sorta di “gold standard” nella ricerca biomedica  e hanno un ruolo pressoché insostituibile in molte ricerche finalizzate alla produzione non solo di vaccini, ma anche di molti altri farmaci di uso comune,  e sono usate anche per testare alimenti, cosmetici ecc.  Su una delle linee cellulari più note e usata in alcuni dei vaccini anti-covid19 cfr. A. Wong, The Ethics of HEK 293, in «The National Catholic Bioethics Quarterly»Autumn 2006, pp. 473-495. La sigla HEK indica una linea cellulare ricavata da cellule del rene di un feto abortito probabilmente nel 1972  e il numero indica che l’immortalizzazione è avvenuta dopo 292 tentativi falliti (il che rende inverosimile che all’origine di questo processo ci sia stato solo un aborto: qualcuno parla di almeno 100 aborti). Una ricerca su PubMed registra più di trentamila citazioni di questa linea cellulare e ciò ne testimonia la grande diffusione nella ricerca.  Altre sigle ricorrenti sono WI 38 e MRC 5 (cui in particolare si riferisce PAV 2005), la prima sviluppata nel 1962 e la seconda nel 1966; nel 1985 è stata sviluppata la linea nota come PER C6 e, infine, nel 2015 Walvax2, sviluppata da un team cinese specificamente per la produzione di vaccini. Tutto questo mostra chiaramente come non si sia trattato di uno o due aborti compiuti una tantum, per così dire, ma di un atto ripetuto nel tempo e legato a quel che, in alcuni interventi, viene chiamata «l’industria dell’aborto». Aggiungo che le modalità di reperimento dei tessuti dai feti rendono necessaria una qualche forma di collaborazione tra chi effettua l’aborto e chi preleva i tessuti.

[12] Va però ricordato che in CDF 2020 § 5  c’è scritto che «la vaccinazione non è, di norma, un obbligo morale e che, perciò, deve essere volontaria». Papa Francesco ha  esaminato la Nota e ne ha approvato la pubblicazione.

[13] La prima sistematizzazione dell’argomento della cooperazione al male viene attribuita a Sant’Alfonso de Liguori nella sua Theologia Moralis, la cui prima edizione risale al 1748.

[14] PAV 2005. Tra i documenti ricordati questo è l’unico che comprende un paragrafo dedicato ad illustrare questo argomento e qui ne seguo la traccia avvalendomi anche di altre fonti.

[15] Nella vicenda compaiono molti attori, con responsabilità diversificate: chi ha eseguito l’aborto, chi ha prelevato le cellule dal feto abortito, chi le ha “immortalizzate” e ne ha ricavato le linee cellulari poi messe in commercio, chi le ha usate per preparare o testare farmaci e vaccini e infine chi usa questi farmaci e vaccini. Per meglio aderire all’attuale dibattito, in questo articolo concentrerò l’attenzione su quest’ultimo attore. Per alcune  considerazioni sulle altre figure  rinvio a D. Neri, La regola e l’eccezione: osservazioni sulla Istruzione Dignitatis personae, in «Bioetica. Rivista interdisciplinare», 4, 2008, pp. 553-563.

[16] Si noti il termine “remoto” non si riferisce soltanto alla vicinanza o distanza di tempo, ma al grado di contribuzione all’atto cui si coopera, contribuzione che va valutata, in ogni singola fattispecie, in base a una griglia composta da prossimità temporale, geografica e causale. La riduzione alla sola dimensione temporale fa parte della strategia di minimizzazione di cui dico nel testo.

[17] R. Colombo, Vaccini anti-covid19 da aborti? La Chiesa: leciti a certe condizioni, in «Avvenire», 26 agosto 2020.

[18] Ibid.

[19]  Non è facile comprendere la ragione di queste pressioni dato che, secondo CDF 2020, tutti i vaccini sono esenti da problemi morali. La questione va inquadrata nel contesto più ampio della ricerca su tessuti fetali che, in USA, cambia ad ogni cambio di amministrazione. Solo per ricordare l’ultima (per ora) puntata, nel luglio 2019 il presidente Trump ha bloccato l’erogazione  di finanziamenti pubblici (quelli erogati dal NIH) per ricerche su materiale fetale derivato da aborti procurati ( ma non sulle linee cellulari già esistenti: una sorta di «etica a tempo») e ha imposto che le richieste siano sottoposte a una valutazione etica da parte di una commissione appositamente istituita e composta per due terzi da membri già dichiaratamente contrari all’uso di materiale biologico da feti abortiti (cfr. M. Wadman, J. Kaiser, Abortion opponents dominate Trump’s fetal tissue review board, in «Science», 369, 6504, 2020, p. 610). Nel luglio 2020 questa commissione ha esaminato 14 richieste di finanziamento e ne ha bocciate 13 (Cfr. NIH, Report of the Human Fetal Tissue Research Ethics Advisory Board, July 31 2020: https://osp.od.nih.gov/wp-content/uploads/HFT_EAB_FY2020_Report_0818202) generando così un potenziale conflitto con la FDA che prescrive, in certi casi, l’effettuazione di test su tessuti fetali. Uno dei primi atti di Joe Biden è stato quello di sciogliere la commissione e eliminare il blocco (cfr. K. Servick, NIH lifts restrictions on fetal tissue research,  in «Science», 32, 6540, 23 aprile 2021, p. 329).

 

[20] Nel 2005, nel corso di un convegno tenuto in Vaticano, un autorevole membro della PAV ha addirittura esteso il principio della complicità al voto elettorale, dichiarando che «votare per un candidato le cui convinzioni non siano rispettose dell’embrione costituisce una complicità con l’omicidio e, dunque, una grave mancanza di carità». Le reazioni di parte cattolica a questa dichiarazione ne hanno criticato i toni duri, ma ne hanno riconosciuto la correttezza sul piano teorico. Il voto è un atto immateriale, così come l’uso di conoscenze «contaminate». Ma se votare alle elezioni politiche può far incorrere nella complicità, perché mai non dovrebbe avere questo effetto anche il ricorso a vaccini nella cui preparazione siano state usate cellule fetali provenienti da aborti o a vaccini preparati usando le conoscenze generate da altri studiando materiale biologico “illecito”? Il tema dell’uso di conoscenze da altri ottenute in modo moralmente illecito si è sviluppato già negli anni ’50 a proposito dell’uso delle conoscenze ottenute dai medici nazisti e, da allora, il ricorso a questo esempio è diventato costante nelle discussioni sulla questione  che qui  ci interessa.  Il tema è tornato, tra l’altro, nella discussione sulla ricerca sulle cellule staminali embrionali (cfr. R.M. Green, Benefiting from ‘Evil’: An Incipient Moral Problem in Human Stem Cell Research, in «Bioethics», 16, n. 6, 2002, pp. 544-556, su cui cfr. D. Neri, The Race Toward ‘Ethically Universally Acceptable’ Human Pluripotent (embryonic-like) Stem Cells: Only a Problem of Sources?, in «Bioethics», 5, 2011, pp. 260-266). Nel dibattito in corso trovo un accenno a questo tema in un articolo di Tommaso Scandroglio del 6 gennaio 2021 (https://www.corrispondenzaromana.it/liceita-dei-vaccini-approfondimenti-morali) che, sulla base di un interessante argomento, giunge alla conclusione che «non solo i dati di conoscenza sono moralmente neutri e quindi possono essere usati da altri ricercatori per finalità buone o malvagie, ma anche il materiale biologico ricavato da simili ingiuste sperimentazioni è di per se stesso eticamente neutro». Non posso approfondire il ragionamento di Scandroglio, ma ne rilevo il contrasto con CDF 2008, § 34, di cui sopra nel testo.

[21] CFR. M. C. Kaveny, Appropriation of evil: cooperation’s mirror image, in «Theological Studies», 61, 2000, pp. 280-313.

[22] M. C. Kaveny, cit., pp. 305 e sgg. L’esempio può sembrare una curiosità, ma nel 1679 Papa Innocenzo XI condannò come “lassista” la tesi che assolveva il servo dal peccato di complicità e ribadì anche per il servo la pena dell’inferno comminata al padrone. Questo esempio è citato da L. Lombardi Vallauri nella sua Dissezione giuridica dell’inferno (in «Biblioteca della Libertà», 148, 1999, p. 53) che, come è noto, gli costò la cattedra all’Università Cattolica di Milano.

[23] M. C. Kaveny, cit., pp. 294-297.

[24] S. Kampowski, Cooperation, appropriation and vaccine research, https://www.catholicworldreport.com/2021/01/24

[25] https://crisismagazine.com/2020/covid-vaccines-the-ends-cannot-justify-the-means.

[26]https://www.lanuovabq.it/it/nuovo-movimento-pro-vita-no-alluso-di-cellule-fetali. Questo appello prende atto della pervasività dell’uso di tessuti fetali (v. sopra la nota 11) e impegna gli aderenti a battersi affinché  «nessun vaccino, nessun farmaco, nessun cosmetico, nessun alimento [sia] prodotto o sperimentato utilizzando cellule umane embrionali e/o fetali, ricavate dall’uccisione di un innocente» e a  «boicottare (ad esempio, rifiutandosi di esserne clienti, azionisti, obbligazionisti, etc.) tutte quelle imprese che nella propria attività produttiva o sperimentale facciano uso di cellule embrionali e/o fetali». Confesso che non riesco a immaginare (forse soffro di mancanza di immaginazione) come questo appello possa realizzarsi nella vita quotidiana.

[27] Questi aspetti  vengono analizzati con riferimento a una nutrita casistica da M.C. Kaveny, cit., e ripresi anche da A.R. Pruss, Cooperation with past evil and use of cell-lines derived from aborted fetuses, in «Linacre Quartely», 2004, pp. 335-350. Il tema compare anche in numerosi interventi nel dibattito attuale.

[28] Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, § 62 e 63 (www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_25031995_evangelium-vitae.html).

[29]www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_06081993_veritatis-splendor.html.

[30] Cfr., in particolare, il documento della  Commissione vaticana Covid 19 citato alla nota 9, che inquadra questo tema nell’insegnamento di Papa Francesco circa la dottrina sociale della Chiesa. Sul carattere dirimente dell’appello al bene comune c’è da registrare una dura polemica, interna al tradizionalismo cattolico,  tra Roberto de Mattei (On the moral liceity of the vaccination, Ed. Fiducia, Roma, 2021) e Christofer Ferrara (Covid Vaccines, the Common Good, and Moral Liceity: a Response to Professor de Mattei – Part I: https://catholicfamilynews.com/blog/2021/04/18/covid-vaccines-the-common-good-and-moral-liceity-a-response-to-professor-de-mattei-part-i/#_edn36). L’opposizione alla gerarchia romana nel caso dei vaccini è ovviamente solo l’ultimo atto di una opposizione più generale ai cambiamenti introdotti da Papa Francesco (il cui papato viene dichiarato “disastroso” da Christofer Ferrara) su molte questioni bioetiche. In proposito rinvio a L. Lo Sapio, Bioetica cattolica e bioetica laica nell’era di Papa Francesco. Cosa è cambiato?, con un saggio di G. Fornero, UTET, Milano 2017.

[31] F. D’Agostino, Pericoloso effetto-covid anche sui paradigmi bioetici, www.avvenire.it.

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