Autore
Stefano Pilotto
Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne
ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia della scienza presso l’Università di Roma La Sapienza. Dal 2017 è membro di Épistémologie Historique: Research Network on the Tradition and Methods of Historical Epistemology (Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne)
Indice
- Premessa
2. Persone e cose
3. Effetti di un corpo postmoderno
4. Cyber-ontologia del corpo
5. Conclusioni. Per una prospettiva organologica
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S&F_n. 24_2020
Abstract
The Ambiguity of Cyborg. Rethinking the Body and its Prostheses
This paper proposes a critical reflection about the body’s status, starting from Donna Haraway’s theorization on cyborg. Human corporeality is conceived in its relationship with technology, with the aim of remarking the importance of this link in the evolution of our species. The cyborg image rises as a critic against the relations’ naturalization of domination and patriarchy, involved in the history of our culture and society. The Aristotelian distinction between free men and slaves, as a “natural” distinction among persons and technological tools, will be firstly analysed to deconstruct the classical idea of man. After a brief presentation of Haraway’s theory, her concept of cyborg as a hybrid of tools and living-body will be problematized by means of the perspective in philosophy of technology which proposes to rethink the status of technical organs. To sum up, this paper seeks to outline a not-reductionist theory of the body to generate a different comprehension of technological objects in continuity with the biological world.
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Premessa
A circa trent’anni dalla prima uscita di Simians, Cyborg, and Women di Donna Haraway[1], si prende avvio dalla teoria della pensatrice americana per una riflessione critica intorno allo statuto del corpo, compreso a partire dalla sua rete di relazioni con gli oggetti tecnici, rilevandone il potenziale significato anche all’interno della storia naturale della nostra specie. Com’è noto, il libro deve la sua fortuna soprattutto ai capitoli conclusivi, gli unici tradotti e diffusi in italiano sotto l’emblematico titolo di Manifesto Cyborg[2], testo che assume sicuramente un significato nuovo alla luce della rivoluzione delle tecnologie digitali avvenuta negli ultimi anni.
Sebbene la figura di una soggettività ibrida dall’aura futuristica aveva inizialmente una funzione simbolica e provocatoria, essa è ormai da molto tempo una realtà ben più concreta[3] e pertanto come tale occorre comprenderla, mediante un’epistemologia non riduzionista che sappia considerare in modo integrato il piano biologico e quello tecnologico, individuando le ragioni per superare la tradizionale dicotomia natura-cultura.
Questa riflessione è possibile grazie anche a una filosofia della tecnica che ha riconfigurato totalmente la relazione tra vita umana e oggetti tecnici[4], secondo un rapporto di reciprocità che vede negli artefatti molto più che dei meri accessori, al contrario si riconosce in essi la condizione di possibilità materiale che ha permesso a una particolare forma di vita di dirsi umana, secondo una prospettiva acquisita a partire dalla storia della nostra evoluzione bio-culturale[5].
La flessione etico-politica della teoria cyber-femminista, inoltre, permette di considerare gli effetti pratici che una tale ontologia è in grado di produrre, mettendo in questione la soggettività classica e le sue modalità di interazione interindividuale e di presa sul mondo, concepite ed esercitate all’insegna del dominio fin dall’antichità.
- Persone e cose
Uno degli esempi più antichi e autorevoli in proposito è offerto da Aristotele. Nel primo libro della Politica, infatti, troviamo descritti gli elementi costitutivi della polis e tra questi troviamo formulata la distinzione tra uomini liberi e schiavi. Secondo lo Stagirita il rapporto che sussiste in questo binomio è innanzitutto quello del possesso, dato che lo schiavo è in prima istanza parte della proprietà (ktêsis) dell’uomo libero, in quanto necessario per la vita del suo padrone proprio come qualunque bene di sussistenza. Lo schiavo infatti, pur essendo dotato di anima, è considerato a tutti gli effetti uno strumento (órganon), in quanto caratterizzato da due aspetti comuni a ogni genere di utensile: l’utilità nello svolgere determinate azioni e la sua amovibilità rispetto a chi lo possiede[6]. In questa definizione, come anche in quella degli altri attori sociali – il marito e la moglie, il padre e i figli – la corporeità riveste un ruolo significativo. Data la robustezza fisica che lo distingue dal padrone, lo schiavo appare per natura adatto al lavoro; mentre la donna – secondo il medesimo argomento – risulta inadatta tanto al lavoro pesante dello schiavo quanto al ruolo di comando della casa, dal momento che in tal senso l’autorità spetta esclusivamente all’uomo libero in virtù della sua anima razionale. La distinzione metafisica tra le anime e i corpi acquista così una valenza politica che viene dissimulata sotto il velo della natura; ecco allora che i corpi, pur essendo assoggettati all’ordinamento della polis, in funzione del loro telos ne divengono uno dei princìpi costitutivi, apparendo come il fondamento “naturale” della loro stessa subordinazione.
Quel che rende questi individui disponibili al padrone-marito, non sembra essere dettato in prima istanza dalle loro caratteristiche intrinseche, bensì sarebbe dovuto al “grado di umanità” loro riconosciuto. Mediante l’assimilazione dei loro corpi agli oggetti, infatti, essi vengono concepiti come strumenti che possono essere destinati rispettivamente al lavoro o alla procreazione. Possiamo perciò considerare tale visione oggettivante dei corpi come funzionale alle dinamiche di assoggettamento e discriminazione; non a caso partendo da tale principio Aristotele considera sullo stesso piano barbari, schiavi e donne, tutti egualmente estranei alla vita della polis[7]. L’assunzione senza riserve di questo postulato ha attraversato le antropologie sviluppate in Europa sin dall’antichità, innervandone la storia politica e sociale, così da legarsi anche ad altri princìpi e tradizioni culturali. Il principio implicito a un tale ordinamento lascia intendere che all’opposto di soggetti considerati fisicamente e intellettualmente inferiori, si situi il soggetto egemonico, che ha universalizzato la sua scala valoriale fino a imporsi come modello estetico, etico-morale e intellettuale, in breve l’ideale classico dell’Uomo che rappresenta il modello di riferimento basilare per ciò che conta come umano[8].
Possiamo dire, però, che l’impianto di questo ideale umanista abbia iniziato a eclissarsi con la progressiva scomparsa delle disposizioni fondamentali del sapere di cui lui stesso si è reso protagonista[9]. Questa rottura epistemologica ha avuto delle conseguenze notevoli tanto sul piano teoretico quanto pratico, rompendo la tradizionale dialettica tra Medesimo e Altro.
Il cambio di paradigma pensato in questi termini è stato segnato proprio dalla comparsa dell’Altro sulla scena della storia; l’ideale umanista è stato scardinato grazie all’intersezione di varie discipline come gli studi post-coloniali, le teorie femministe, gli studi ecologici e gli studi animali. Ciascuna delle istanze avanzate da queste forme del sapere sono state precedute de facto dai rispettivi fronti che animano il conflitto politico globale dal secolo scorso.
Ognuna di queste lotte e discipline ha contribuito a decostruire il primato dell’uomo bianco occidentale sugli altri popoli, la superiorità del maschile sul femminile, la piena disponibilità dell’ambiente naturale e degli altri viventi da parte di homo sapiens.
- Effetti di un corpo postmoderno
Lo scenario appena richiamato si può inscrivere nella cornice della postmodernità, epoca segnata dalla fine delle grandi narrazioni – stando alla nota e forse abusata diagnosi di Lyotard[10] – in cui tuttavia fa la sua comparsa un nuovo mito contemporaneo, quello del cyborg[11], figura propria della narrativa fantascientifica e cinematografica.
Il cyborg è l’emblema che mostra come la pervasività capillare della tecnologia nella vita umana sia ormai percepita anche nella cultura e nell’immaginario popolare. In questa forma provocatoria Donna Haraway, biologa di formazione e teorica femminista, presenta la sua critica trasversale al dominio patriarcale e più in generale alle forme di pensiero totalizzanti.
Com’è noto il termine cyborg etimologicamente è la contrazione dei termini “organismo cibernetico” (Cybernetic Organism), designando nella sua accezione più immediata un individuo che si configura come incontro di vivente e meccanico. L’ambiguità dello statuto del cyborg revoca il primato della naturalità del corpo, poiché l’ibridazione con l’inorganico mette in crisi la distinzione fra corpi viventi e strumenti tecnici, impedisce l’assimilazione discriminatoria degli individui agli oggetti, ma soprattutto contempla la possibilità di considerare gli artefatti come parti vitali di un organismo. Non si tratta semplicemente di un’inversione di prospettiva tra i corpi e le cose, ma di una strategia che permette di rinegoziare continuamente i confini tra l’organico e l’artificiale, rifiutando in tal modo la logica binaria “inclusione-esclusione” e gli esiti violenti della subordinazione che ne deriva.
L’effetto epistemico di questa posizione è notevole, poiché ripensando la corporeità secondo il modello cyborg, Haraway muove una critica all’approccio naturalistico, o per meglio dire alla presunta neutralità del naturalismo, nella consapevolezza che anche i discorsi scientifici – come ha mostrato Foucault – hanno effetti di potere. L’unione di politico e fisiologico, afferma Haraway,
è la fonte di giustificazioni antiche e moderne della dominazione, soprattutto della dominazione basata sulla differenza vista come naturale, data, inspiegabile e dunque morale[12].
Da questo tipo di critica, secondo la pensatrice americana, può venire un grande contributo per il femminismo e le donne, poiché la conoscenza delle scienze naturali è stata usata per secoli con l’intento di dominarle, escluderle dal campo scientifico, mentre per le poche che hanno potuto accedervi ciò ha comportato disparità e sfruttamento[13].
Benché l’interiorizzazione di questo stato di cose possa essere percepito come un aspetto “naturale” – come abbiamo visto in Aristotele – l’esclusione e lo sfruttamento sono il risultato di una precisa posizione all’interno della divisione sociale del lavoro[14], una posizione ratificata da forme di sapere che si trovano a essere estremamente permeabili alle ideologie e ai valori dominanti di una società. Un esempio cardine tra i prodotti di questo sapere è la nozione di genere, che, in un testo successivo al suo Manifesto, Haraway definisce
una relazione, non una categoria precostituita di esseri umani, o qualcosa che qualcuno può possedere. Il genere è la relazione tra vari tipi di categorie costruite, di donne e di uomini (e tra tropi variamente assemblati), differenziati per nazione, generazione, classe, lignaggio, colore e quant'altro[15].
La costruzione di categorie di questo tipo non ha fatto altro che favorire il dominio maschile, instaurando sulla differenza naturalizzata discriminazioni politiche e sociali che hanno relegato per secoli la donna nell’ambito della riproduzione,
ridotta alla sua funzione procreatrice, la donna-mater è materia vivente che riproduce il vivente ed è molto più vicina all’animale (zoe) che alla vita intesa come entità spirituale e discorsiva (bios)[16].
Ecco allora che all’artificialità delle tassonomie sociali, razziali e di genere prodotte sui corpi assoggettati, il modello del cyborg oppone un’artificialità di segno opposto, «un sé supremo finalmente libero da ogni forma di dipendenza»[17] fondato su un corpo che, a differenza delle forme precedenti, si manifesta nella consapevolezza della propria costruzione, sfuggente alle categorie dominanti.
- Cyber-ontologia del corpo
Soffermiamoci ora sulla portata ontologica del couplage tra macchinico e vivente. Se fin qui abbiamo considerato il cyborg un ibrido, in linea con la posizione di Haraway e di molta critica del settore, è tuttavia possibile mettere a tema questa forma di soggettività in altro modo.
Infatti, ripensando la distinzione tra persone e cose, che abbiamo introdotto mediante l’argomentazione aristotelica, riteniamo possibile andare oltre la prospettiva della pensatrice americana. Si è soliti assumere immediatamente la natura del cyborg come ibrida, perché si considera lo strumento – o la modifica apportata all’organismo – pari a un ente totalmente altro rispetto al cerchio chiuso dell’individuo, e non come qualcosa in linea con le sue stesse norme organiche.
Ma se il cyborg è innanzitutto una forma di soggettività fondata su un nuovo rapporto fra natura e cultura[18] – laddove la prima non può più essere intesa come mera risorsa per la seconda – ciò è possibile in virtù di un processo di retroazione basilare in ecologia, che ci permette di ritematizzare il rapporto tra tecnicità e vita. Ci riferiamo ai processi di scambio in cui al lavoro di costruzione del mondo, operato dagli organismi viventi, corrisponde la configurazione degli stessi organismi da parte del mondo.
Questa dinamica ecologica contempla l’individuo non come una monade, ma come realtà divisibile – a dispetto della sua etimologia – e in tal modo concepibile come un insieme organico integrato, aperto al mondo fin nella sua disposizione corporea più intima. Ogni forma di vita, dunque, è tale non solo per effetto del suo genoma, ma perché la pressione ambientale e le sue interazioni ne hanno modellato nel tempo la morfologia e il metabolismo[19], e in funzione di ciò la vita per affermarsi deve continuamente trovare delle strategie che le consentano di costruire le condizioni che ne permettano al meglio l’esistenza.
Per rispondere a questa esigenza fondamentale molte forme di vita adottano comportamenti tecnici[20], tuttavia per la storia dell’umanità questa strategia si è rivelata decisiva, costituendo il perno centrale della sua evoluzione, mediante l’esteriorizzazione di forme e funzioni primariamente appartenenti al corpo[21].
Rapportandosi agli oggetti tecnici – e tramite essi – l’umanità ha così modellato le sue facoltà cognitive, linguistiche e sociali, facendo della cultura la sua nicchia ecologica[22]. Pensare la tecnica in questa ottica, allora, non implica necessariamente regolare i conti con un destino nichilista o con forme surrettizie di dominio, ma permette di superare quella che Simondon ha definito «l’alienazione fondamentale»[23], andando a ricucire lo strappo tra l’ontogenesi dell’oggetto tecnico e la sua esistenza, non più avulsa dalla vita bensì reintegrata in essa.
Ecco allora che lo statuto dirompente del cyborg non appare più quello di un ibrido ma come quello di un organismo modulabile ed esteso, grazie a molteplici forme di protesi che amplificano o suppliscono a determinate prestazioni e funzioni corporee, rispondenti alle medesime norme del corpo organico.
La modularità protesica permette così di situare la corporeità cyborg a metà strada tra l’interiorità del corpo vivente e l’assoluta esteriorità degli artefatti[24], concependo gli strumenti come veri e propri organi che partecipano della vita del corpo. Nell’ottica di tale paradigma saltano necessariamente le nozioni e le delimitazioni ordinarie della corporeità. Tuttavia, come ha mostrato Merleau-Ponty[25], il corpo non è riducibile alla sola oggettualità poiché ciò che egli definisce corpo proprio è costituito da un insieme di modi di agire, di sentire e di essere nel mondo che valicano e includono ciò che è oltre il confine epidermico del soggetto. Nella logica binaria interno-esterno tutte le protesi appaiono ambigue nel loro situarsi, ciò nonostante come si può considerare un bastone rispetto alla percezione di un cieco, una sedia a rotelle nell’esperienza di una persona disabile o un arto bionico nei riguardi delle prestazioni di un’atleta paralimpica? Haraway afferma a buon diritto che «la medicina moderna è piena di cyborg»[26] di impianti di organi artificiali e di dispositivi che aiutano le persone a stare in vita, senza contare quelli che usiamo con disinvoltura nella quotidianità, con cui amplifichiamo comodamente le nostre capacità fisiche e mnemoniche. Tali modulazioni corporee mettono in discussione la logica duale, manifestando un’aperta continuità tra macchina e organismo.
Ciò che si produce da questo incontro, come abbiamo cercato di mostrare, non è una soggettività ibrida, ma estesa, fluida, dal momento che le modalità di relazione, di azione, e anche la stessa sensibilità o la memoria del singolo, passano tramite i dispositivi che egli incorpora, arrivando a divenire costitutive della sua soggettività.
- Conclusioni. Per una prospettiva organologica
Il modello del cyborg offre dunque la possibilità di pensare la soggettività svincolata da criteri identitari invarianti e universali, libera da categorie connotate secondo le idee dominanti, decostruendo così le gerarchie naturalizzate – razziali o di genere – tra le persone, nonché tra queste e gli oggetti tecnici.
A distanza di tempo, la forza del “mito” proposto da Haraway va oltre la sua stessa teoria, offrendo molteplici chiavi di lettura, dalla più visibile questione del rapporto tra vita e tecnica, al dibattito intorno alle categorie di sesso e genere.
Inserendosi nel solco del declino dell’antropocentrismo – inteso come paradigma caratterizzato dal fallologocentrico eurocentrico – questo mito è stato letto nel segno del postumanismo[27].
Eppure, anche se in questo modo di ripensare l’individualità è possibile trovare «una via d’uscita dal labirinto di dualismi attraverso i quali abbiamo spiegato noi stessi, i nostri corpi e i nostri strumenti»[28], non è chiaro come possa essere un oltrepassamento della condizione umana.
Come ha fatto notare il filosofo della biologia Georges Canguilhem, parafrasando Descartes, ogni macchina per funzionare deve rispettare le regole della natura e in ciò ogni artefatto è anche naturale[29], tanto più se concepiamo l’oggetto tecnico in senso organologico come secrezione del corpo e del cervello[30].
Questa ridefinizione dei termini permetterebbe di comprendere il meccanico a partire dall’organico, considerando, di conseguenza, l’essere umano in continuità con la vita mediata dalla tecnica. In tal caso la tecnica, e tutte le protesi di cui si serve la specie umana, altro non sarebbero che uno dei possibili esiti della stessa evoluzione naturale.
Inoltre, dal momento in cui le istanze di sovvertimento e liberazione dalle condizioni socio-economiche, dal dominio politico e patriarcale, appaiono tutte interne alla storia e a logiche di tipo umano, e poiché le stesse modalità di simbiosi tra corpi e oggetti tecnici vengono tessute a partire dal vissuto del corpo proprio, strutturato mediante le sue sensazioni e i suoi desideri, ci sembra che il traguardo segnato dal cyborg non contempli la fine dell’umanità tout court, rappresentando invece un’ulteriore tappa dell’evoluzione bio-culturale dell’umanità.
[1] D. Haraway, Simians, Cybord, and Women. The Reinvention of Nature, Routledge, New York 1991.
[2] Id., Manifesto Cyborg. Donne tecnologie e biopolitiche del corpo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1995.
[3] L. Malafouris, How things shape the mind: A theory of material engagement, MIT Press, Cambridge MA-London 2013.
[4] S. Loeve, X. Guchet, B. Bensaude Vincent (eds.), French Philosophy of Technology. Classical Readings and Contemporary Approaches, Springer, Cham 2018.
[5] I. Hodder, Entangled. An Archaeology of the Relationships between Humans and Things, Wiley-Blackwell, Oxford 2012.
[6] Aristotele, Politica, 1253 b -1254 b; per un’analisi tecnologica puntuale dello statuto dell’utensile si veda A. Leroi-Gourhan, Il filo del tempo. Etnologia e preistoria, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. 261-269.
[7] Ibid.
[8] R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, tr. it. DeriveApprodi, Roma 2014, p. 19.
[9] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it. BUR, Milano 2007, p. 414.
[10] J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, tr. it. Feltrinelli, Milano 2014.
[11] D. Haraway, Simians, Cyborgs and Women, cit.
[12] Ibid., p. 8 (traduzione nostra).
[13] D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne tecnologie e biopolitiche del corpo, cit., p. 103 e sgg.
[14] La pensatrice americana considera esplicitamente la sua teoria come espressione di un femminismo socialista e materialista, cfr. ibid., p. 39.
[15] D. Haraway, Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopo™. Femminismo e tecnoscienza, tr. it. Feltrinelli, Milano, 2000, p. 60.
[16] R. Braidotti, Meta(l)morfosi, in M. Fimiani, V.G. Kurotschka, E. Pulcini (a cura di), Umano, post-umano. Potere, sapere, etica nell’era globale, Editori Riuniti, Roma 2004, p.81.
[17] D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne tecnologie e biopolitiche del corpo, cit., p. 41.
[18] Ibid.
[19] R. Lewontin, Gene, organismo e ambiente, tr. it. Laterza, Roma-Bari 2002, p. 47.
[20] A. Manning, M. Stamp Dawkins, Il comportamento animale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2015.
[21] Cfr. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, 2 Voll., tr. it. Einanudi, Torino 1977; V. Petit, B. Guillaume, We Have Never Been Wild: Towards an Ecology of theTechnical Milieu, in S. Loeve, X. Guchet, B. Bensaude Vincent (eds.), French Philosophy of Technology. Classical Readings and Contemporary Approaches, Springer, Cham 2018.
[22] T. Ingold, Ecologia della cultura, tr. it. Meltemi, Milano 2016.
[23] G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, Paris 2012, p. 339.
[24] J. Goffette, Naissance de l’anthropotechnie. De la médecine au modelage de l’humain, Vrin, Paris 2008, p. 169.
[25] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. Bompiani, Milano 2003.
[26] D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne tecnologie e biopolitiche del corpo, cit., p. 40.
[27] R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, cit., p. 86; M. Grebowicz, H. Merrick, Beyond the Cyborg. Adventures with Donna Haraway, Columbia University Press, New York 2013.
[28] D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne tecnologie e biopolitiche del corpo, cit., p. 84.
[29] I. Hacking, Canguihem amid the cyborgs, in «Economy and Society», 27, 2-3, 1998, pp. 202-216.
[30] A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, 2 Voll., cit., p. 109.