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Indice
- Cercare nomi per dire la totalità
2. Cammino e orizzonte. La fatica del pensiero
3. Bisogno di senso e passione per il mondo
4. Tra cielo e terra
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S&F_n. 24_2020
Abstract
The Unpredictable as a Resource
As knowledge grows, the progress of science despite promises and reassurances does not provide certainty. The contents of science are increasingly specialised and closer to deciphering human life forms. Knowing the “what is” is always accompanied by governing the “what is known”, the critical reflection of culture as the human artifice par excellence. Culture also includes the unproductive philosophy, which does not offer conquests, nor absolute truths. Can the thought in the search for meaning resist the widespread blindness of science as technology, avoid the shipwreck of common living and the exhaustion of humanity’s creative resources? Perhaps only by bringing attention back to the “minor”, to the unpredictable which, despite everything, is the greatest danger and checkmate for the new mythology of technicians, experts and programmers.
La cecità è tanto più disperata, perché i naufraghi pretendono di governare il proprio naufragio, giurano che tutto può essere tecnicamente sotto controllo, che non c’è bisogno né di un nuovo dio né di un nuovo cielo – soltanto di divieti, di esperti e di medici.
Giorgio Agamben[1]
- Cercare nomi per dire la totalità
Il rapporto tra scienza e filosofia è un motivo di riflessione ricorrente nella cultura occidentale moderna e, tuttavia, mai giunto a una precisa definizione del peso dei rispettivi ruoli e campi di indagine. Esso mette in gioco l’intreccio tra esperienza, conoscenza e pensiero e perciò, alla radice, l’umano stesso, generando talvolta sovrapposizioni e conflitti[2]. Che vi sia una continuità, una gerarchia o un’opposizione tra scienza, scienze e filosofia non dipende tanto dai contenuti di verità di ciascuna, quanto dall’investimento in termini di credenze e di aspettative che investono conoscenza o pensiero, potenzialità e risultati nell’universo di valori accademici e sociali. Che l’ultima parola spetti alla scienza o alla filosofia viene deciso dalla strutturazione dell’universo simbolico che sottende la posizione dell’uomo nel mondo: partecipe dell’ordine, creatore dell’ordine e dell’equilibrio del e con il mondo, legittimando il diritto dell’azione teoretica e pratica dell’uomo sul mondo. Tutto è diventato più chiaro con l’affermazione moderna dell’antropocentrismo, che ha posto la centralità dell’uomo lasciando aperta la strada e la meta, ma mostrando allo stesso tempo la ferita di una perdita. La morte di Dio ha segnato l’autonomia, ma ha privato di un nome capace di esprimere il legame tra tutto e parti, la totalità scoprendo una mancanza resa sempre più evidente proprio dall’autonomia, dall’allargarsi dell’esperienza e delle relazioni umane[3]. Più che sul piano degli enunciati e delle teorie, questo ha pesato sul legame tra universo simbolico e processi conoscitivi, tra pre-dicibile e dicibile, segnalando alla radice una scomposizione dell’uni-verso, di un mondo catalizzatore di interessi e di convinzioni, chiamato all’adattamento funzionale alla trasformazione. Nel processo di modernizzazione l’emancipazione dalla religione, la ricollocazione dell’uomo al centro tra il cielo e la terra, tra l’in-finito e il finito ha messo fuori uso i vecchi strumenti di orientamento, la cui sostituzione ha richiesto un lungo lavoro di elaborazione della perdita e una rinnovata sperimentazione delle rotte della conoscenza[4]. Alla fine venuta meno la funzione di orientamento e di stabilizzazione di questo precategoriale che si declina nelle forme di vita, emerge l’opposizione tra conoscere e pensare, che chiama in causa l’intera relazione tra interno ed esterno, mette a soqquadro l’universo comune, piuttosto che le certezze e le evidenze: ciò che è dato e l’artificio, natura e cultura, si oppongono e confliggono. Pensare e governare questo conflitto è oggetto della filosofia che riflette a partire dal materiale offerto delle scienze, pone al centro la questione del presente come punto di non-ritorno della vicenda culturale del moderno.
- Cammino e orizzonte. La fatica del pensiero
Quando Hegel pensa la filosofia come sistema coglie il punto nevralgico del problema: la filosofia ha a che fare con le conoscenze ma ne coglie il lato processuale rinviando alla specificità di un vivente – l’uomo – che nel conoscere e nel pensare si determina, porta a compimento un incompiuto. Il pensiero muove dalla conoscenza rispondendo non della esattezza e certezza del contenuto delle scienze, ma prendendo in carico la mancanza, il non del tutto oggettivabile che si esprime nel bisogno di tenere insieme la pluralità e il dinamismo della natura, dentro e fuori dell’uomo, al di là di ogni definizione o proposizione. Già l’esperienza immediata di ciò che è traduce ciò che si offre ai sensi, ne fa materia della conoscenza come relazione pratica con il mondo, Wirklichkeit, produttrice di effetti. L’avanzare delle conoscenze perciò non è un accumularsi di contenuti, ma un riconfigurarsi del mondo che mette in questione le coordinate dell’esperienza, a partire dall’ indipendenza della natura dall’azione umana, che pone il diritto di utilizzazione e di trasformazione della natura al di là della sua tecnica[5]. Ancora più radicalmente del valore della scienza o della filosofia, la sperimentazione e la manipolazione prendono il posto dell’osservazione e della fedele lettura della lingua del mondo.
Il processo interessa tutti i momenti, comporta analisi e sintesi che il sistema tiene insieme: la filosofia della natura non è altro che il pensiero in cui convergono i saperi di ciò che è dato e regolato da leggi – la natura –, la filosofia dello spirito attraversa l’irrequieta e plastica processualità dello spirito, come eccedenza e salto dalla regolarità naturale a partire dal “noto”. La struttura che penetra e mette in relazione la natura e lo spirito emerge dal paziente movimento del logos che raccoglie e lega gli opposti, traducendo ciò che resiste (Wider-stand) in contraddizione (Wider-spruch), detto nell’opposizione e perciò investito dal movimento di negazione. Il concetto – Begriff – afferra, prende insieme ciò che l’esperienza ha reso visibile, produce una sintesi di quanto l’analisi ha ridotto all’occhio del soggetto, nella complementarietà tra soggetto e oggetto, nel legame tra tutto e parti, tra mondo e uomo, tra vita e forma: la natura si disvela nelle sue infinite sfaccettature e articolazioni attraverso i modi storicamente determinati delle relazioni dell’uomo con il mondo. Analisi e sintesi sono della scienza come della filosofia, rispondono all’istanza pratica che guida la mente e la mano dell’uomo: l’una si occupa di ciò che è, l’altra di ciò che diviene ma insieme contribuiscono al consolidamento della posizione dell’uomo nel mondo. Se la scienza procede per tappe e definisce i suoi campi di applicazione, la filosofia tende alla totalità che tiene insieme i momenti dell’esperienza diretta focalizzandosi sulla regolarità che fa delle leggi e delle figure l’oggetto-natura, sciogliendo l’opposizione nella tra-duzione/spostamento sul piano ideale. La negazione come Aufhebung è un passaggio di stato dall’immediato alla mediazione che “addomestica” il proteiforme indistinto e indipendente attraverso il lavoro della conoscenza[6]. Questo lega l’osservazione e la sperimentazione alla continuità del processo e alla vitalità della spinta dalla concettualizzazione, che attraversa la scissione tra vivente e non vivente, tra vita e forme, all’idealizzazione come compimento, in quanto totalità della/nell’opposizione. L’avanzare e l’arricchirsi di conoscenze della scienza moderna perciò ha prodotto una nuova consapevolezza di questo cammino intrapreso dall’uomo, che ha raggiunto nuove mete e allargato lo sguardo, ma non per questo ha rovesciato o rotto con il passato: non una vittoria contro l’oscurità e l’ignoranza, ma il prodotto di un lavoro continuo che metabolizza errori e acquisizioni, portando alla luce i fatti degli uomini come «fatti totali»[7]. Il fatto è perciò il precipitato delle interconnessioni tra passato e presente, tra individuo e comunità. In questa prospettiva la filosofia non si contrappone e nemmeno perfeziona i contenuti delle scienze, ne mette in luce piuttosto i legami con i bisogni della vita umana, gli intrecci con gli universi simbolici che orientano le scelte di campo, smascherando la pretesa di un’assoluta oggettività delle scienze. Il bisogno/illusione è alle spalle del desiderio di compiutezza, delinea il senso dell’affaccendarsi e affaticarsi degli uomini per compensare la fragilità e il limite del suo essere vivente. Il pensiero ha il compito di rintracciare il senso, passando dalla conoscenza al consapevole governo della relazione dell’uomo con il mondo.
- Bisogno di senso e passione per il mondo
Pochi giorni prima della sua morte Hegel, riconoscendo i grandi risultati della ricerca scientifica e gli effetti storico-culturali dell’acquisita coscienza della libertà, sottolinea come il risultato non abbia contribuito al benessere e alla felicità, generando una patologia, un disagio: l’uomo non si sente a casa propria nel mondo. Come se l’artefice non sapesse riconoscere la propria impronta nella sua opera, rimane bloccato e disgregato tra il mondo vecchio che non sente più proprio e un mondo nuovo che stenta a prendere figura. Si reitera il conflitto tra fede e sapere, tra conoscenza e sapere senza attingere nella scaturigine umana di entrambi il legame tra la spinta alla conoscenza e il bisogno di totalità. Non si tratta di affinare la vista, ma di riconoscere che nel limite dell’umano è in gioco la fatica del lavoro di attraversamento e di elevazione nella circolarità tra parti e tutto. La fede non sorregge più la fatica della vita umana, solo il sapere può compensare questa perdita assumendo il legame tra la finitezza dell’uomo e il divenire come opera ininterrotta di un genere. Rimane perciò ineliminabile lo scarto del soggettivo, tanto dal punto di vista del particolare che ogni volta da nuovo incide sulla continuità del genere, quanto dal punto di vista di uno “spirito” del popolo e dell’epoca, che fornisce le coordinate delle forme di vita umane, ogni volta diverse e adeguate al tempo. Se la conoscenza procede in avanti, il lavoro della scienza è sempre in fieri, se la filosofia riconosce la fatica e la disciplina come condizioni per il senso di questo cammino, insieme possono preservare la salute di questo vivente[8].
Il banco di prova del Moderno è questo pensare la continuità nell’opposizione, il progresso nel diversificarsi e arricchirsi dei risultati, la verità nell’ombra del crepuscolo più che nella luce piena nell’orizzonte pieno della forma relazionale della vita umana. Né la forma astratta, né lo scheletro possono surrogare lo sforzo di nervi e muscoli – l’intero dell’uomo – sottoposti al doppio movimento tra profondità e superficie che anima l’ideazione che accomuna e riflessione critica. Il salto dalla forma umana della vita – non-più-naturale, più-che-vita – è il dischiudersi di una possibilità nella doppia apertura – corporea e intelligente, passiva e attiva – nella cifra dinamica e intersoggettiva che fa i conti con la contingenza nonostante tutte le conoscenze acquisite e gli sforzi compiuti dai filosofi. In questo spazio aperto si determinano le gerarchie e i ruoli tra conoscenze e pensieri, un terreno arato e concimato da credenze e aspettative, da urgenze e intoppi che fanno della cultura una eredità e un potenziale di sviluppo – un ghenos – che si articola nelle configurazioni umane della vita.
Il bisogno e dunque la necessità della filosofia richiede la pazienza per riallacciare ogni volta la tessitura quando l’intreccio è consunto o irriconoscibile per l’uomo. Perciò la filosofia ondeggia tra tentazione di una fuga melanconica dal mondo e una rassegnata rinuncia alla fatica del pensiero[9]. Nel confronto con la scienza ha evitato la contraddizione, che è della vita, non delle altrettanto viventi scienza e filosofia. Ha indossato l’abito della scienza senza avere il fisico adatto, ha interrotto il suo legame con quel bisogno di orientarsi nel mondo orientandosi nel pensiero, proprio nel momento in cui la strada intrapresa dalle scienze verso la tecnologia ha potenziato più che soddisfatto quel bisogno. La spinta al rinnovamento e all’autonomia non ha concesso tregua al Moderno e al suo post: l’accelerazione con cui la scienze hanno occupato il centro della scena ha mobilitato tutte le coordinate, portato a compimento il sapere come potere, chiamando in causa la consapevolezza degli effetti pratici della conoscenza sulla forma umana della vita.
Crisi e critica si congiungono nella continua autocritica: stabilizzarsi e trasformarsi è un inanellarsi di arcaico e contemporaneo. Anche i nomi che la scienza usa per stelle e pianeti, dicono molto di più del semplice oggetto, coniugano la suggestione mitica con la scoperta più recente: nel fondo risuona in forme diverse la prossimità tra lo straordinario del nome divino – Plutone, Nettuno – e l’orgoglio per aver sottratto un altro frammento all’ignoto.
- Tra cielo e terra
Il cielo stellato dell’uomo primitivo è sempre cielo nella visione geocentrica come in quella eliocentrica, se abitato da divinità o insieme di stelle e pianeti, visto con il cannocchiale o attraverso immagini trasmesse da astronavi, guardato dal basso o attraversato ed esplorato da vicino. La comparazione è possibile in quanto la metamorfosi è generata dalla combinazione tra immaginazione e intelligenza in cui si riflettono emozioni e curiosità in uno spazio comune/comunicativo[10]. Alzare gli occhi al cielo o trasferire nel cielo la residenza di Dio allo stesso modo che cercare sui pianeti un nuovo mondo a disposizione per una madre-terra ormai depauperata, non toglie quel doppio movimento che disegna il senso del processo messo nel gioco passivo/attivo delle relazioni che animano la parola – cielo – al di là del moltiplicarsi dei connotati che arricchiscono il “cielo stellato”. Una cornice comune che consente la distanza tra il focus della visione e il tutto da cui si staglia, che dà significati diversi alla stessa parola solo perché si riferisce a qualcosa di concreto, percepibile nella sua bellezza o nella sua complessità. Solo l’attenzione scandisce il movimento circolare tra interiorizzazione ed esteriorizzazione occupando la ragione e vigilando sulla rete di relazioni. Se e quando la scienza astrae dalla sua origine umana che la ricolloca nel limite che le permette di avanzare o di correggere il tiro, senza intaccare il valore dei suoi contenuti. L’essere in cammino non è dato dall’origine, piuttosto dalla costellazione di fattori ambientali, sociali e culturali che disegnano le costellazioni dell’esperienza come viaggio mai giunto al termine[11]. Quando invece l’input è totalmente affidato all’artificio, quando si dilegua alla nostra vista il cielo con la sua carica evocativa, con quell’incognita che lo separa dalla nostra natura terrestre, viene meno la curiosità per il cielo, perde d’interesse l’esperienza in prima persona. Alla fine quando luci e rumori del nostro habitat rendono invisibile l’ultimo lembo, rimane l’unico cielo delle previsioni meteorologiche: fonte di informazioni ininterrotte perché le nostre possibilità non siano minacciate dall’imprevedibile[12].
Più che mettere in questione la ricerca o in dubbio le scoperte, è necessario fare un passo indietro, alle spalle, per interrogarsi sull’oggettività mediata dalla divulgazione e dall’invasività dei mezzi di comunicazione, più determinata dalla scienza. Su questo terreno si crea la sintesi tra la credenza nell’esattezza dei dati scientifici e il desiderio di sicurezza e di stabilità degli uomini: fattori soggettivi eppure decisivi nella legittimazione delle scienze “esatte”, “dure”. Un reiterarsi della fiducia che non intacca l’associazione immediata tra il cielo e la purezza, tra il cielo e il paradiso o il cielo e l’infinito, mostrando che ciò che è “tenuto per vero” e certo si lega allo spazio e al tempo di un vivente che dialoga in ogni sua parte con il mondo[13].
Nell’onda lunga di trasmissione dalla ricerca alla divulgazione, dalla divulgazione propagata dai media il surplus di informazioni distoglie l’attenzione dall’esperienza in prima persona, cancella la distanza necessaria per ogni processo di comprensione, assopisce. Un processo di astrazione, più che di approfondimento, che scarta l’inessenziale, lascia morire l’inutilizzabile, addomestica l’esperienza rassicurando con certezze che rispondono prima ancora che sia avanzata la domanda. Si tratta di una partecipazione al gioco che educa alle combinazioni, agli algoritmi: ultima forma di certezze e sicurezze come parassiti della indubitabilità della matematica. Dietro o nel sottofondo dei calcoli, degli algoritmi e della prevedibilità fluttuano caoticamente sentimenti, desideri raccolti e abbracciati da una pre-sunta oggettività. L’effetto è un ondeggiamento tra affidamento e diffidenza, tra rassegnazione e ribellione, che canalizzano il disagio e il disorientamento. L’occhio che surroga l’azione di tutti gli altri sensi è affetto da presbiopia, patologia non correggibile nemmeno da una lente multifocale, resa inutilizzabile per lo spegnimento della memoria visiva e l’atrofizzazione degli altri sensi.
Sempre meno abitanti, cittadini e partecipi dell’universo dei viventi, alla fine monadi che nel loro movimento si toccano, si allontano e reagiscono l’una sull’altra, mancando di porte e finestre, incapaci di allacciare un ponte con l’esterno, con l’altro. Non vi è un regista, una monade delle monadi – un Dio architetto e principe – rischiano di deflagrare nel caos: fuori gioco per percepire il disordine e fuori sesto per trovare la via d’uscita dall’entropia implosiva più che rigenerativa[14]. Nonostante gli sforzi l’imprevisto e l’imprevedibile sono sempre possibili, forse anche più possibili per l’avanzare dell’approccio tecnologico che pre-sume di surrogare e riprodurre l’umano nelle macchine[15].
Scoperta e pericolo, vita e morte, innovazione e adattamento occupano la ricerca scientifica e interrogano la filosofia nell’unico punto di applicazione che è l’umano. Là dove il progresso delle scienze ha rafforzato le sicurezze, ha lasciato in secondo piano l’istanza pragmatica, appropriativa che ispira il disegno dell’intreccio tra cielo e terra, tra terra e uomo, tra corpo e mente dell’uomo. L’ultimo anello, quello più lavorato e raffinato nella nostra cultura, ha per così dire dimenticato le proprie origini: il vivere comune, la comunicazione come spazio che rende possibile l’intera serie della catena. La scienza ha lavorato sulla specializzazione, sulla costruzione di strumenti capaci di portare il lontano al vicino, lo sconosciuto al conosciuto, ma proprio il dato artificiale dello strumentario ha allontanato il vicino – l’organismo, l’ambiente – assecondando il ritmo della riproducibilità e sottovalutando la complessità relazionale con cui l’umano ha compensato l’eccentricità del più-che vita. Un’opera di sezionamento, di partizione che avanza per riassemblaggi smembrando progressivamente l’intero, lavorando sulla finzione che prende il posto di quanto non è più percepito. Fare a pezzi l’intero dell’uomo attraverso una sempre più dettagliata conoscenza del suo corpo, prestarsi alla tentazione analitica dell’interpretazione della mente umana, produce una falsa alleanza tra desiderio e credenza: tradisce nel visibile l’invisibile, rende visibile bloccando il dinamismo della relazione: manipolazione, rimodellamento continuo che annichilisce anche l’ultima resistenza dell’anima. L’illusione è la realizzazione del desiderio più antico dell’uomo: rimuovere le tracce della fragilità, della mortalità, sconfiggere lo choc della contingenza. Come ogni desiderio senza oggetto o meglio tradotto/tradito da un doppio inquietante, che mette fuori gioco il desiderio rimuovendo quella mancanza, quel mancare di segni sicuri per decidere e conoscere il futuro che anima la filosofia. Credenza e desiderio sono derogati a messaggi – promettenti e rassicuranti – adeguati al mezzo – che impone tempi e scansione – per arrivare più velocemente ai destinatari. Una semplificazione che tende a generare un’omologazione più che una sintesi tra desiderio e credenza. Qualità impegnative, quali globale, planetario abbracciano in-differentemente vite sempre più confinate nel privato, disperse in città nevrotizzanti animate dal pulsare di informazioni che danno corpo e oggetto ai desideri, costruiscono credenze e certezze.
La patologia diffusa, la pandemia dello stato sonnambolico, è una fuga all’indietro, un ritorno all’arcaico, al legame empatico infantile: una simbiosi corretta nella crescita, regolata e stimolata da istituzioni e regole, predisposta alla neutralizzazione dello scarto individuale, della spinta creativa e forse anche vitale. Un processo di “educazione” che intreccia vite individuali e vita comune, storie e storia, tacciato come patologico quando resiste alla pedagogia dell’omologazione. Uno status che non si può capovolgere e che disturba l’ideale più che l’artificio concreto non toccato dalla macchina dello spettacolo. Non si torna indietro, non si può contrapporre ancora una volta il novum come terapia, né tanto meno creare tensione tra la conoscenza di ciò che è e la ricerca del senso che spingendosi oltre trova solo tracce e resti dell’umano. Una prova di quello che Anders chiama “fantasia etica” in grado di immaginare diversamente il mondo, l’umano, una fantasia che non contende perciò il campo alle scienze e nemmeno si illude sul potere assoluto di previsione delle scienze: riporta tutto al limite dell’umano[16].
In questa prospettiva l’attitudine immaturamente simbiotica può giocare a favore di una presa d’atto della priorità della vita, della dipendenza reciproca tra corpo e mente che attiva l’empatia come tonalità della relazione dell’uomo con il mondo[17]. Non un modello per il futuro, la soluzione vincente per la salvezza, piuttosto una resistenza contro la masochistica rassicurazione della fine di tutte le cose con l’estinzione dell’uomo. L’imprevedibile e l’incontrollabile non è perciò uno scandalo, l’errore o l’incidente, ma il limite insito in ogni sperimentazione. Calcoli, statistiche e algoritmi lavorano su quantità, ma non per questo azzerano la complessità dei fattori che ancora e sempre dal battito d’ala di una farfalla scatena effetti a catena[18]. Se tutto è connesso anche le prestazioni della tecnologia sempre più impegnate in sfide, contro – e non più – per, fanno i conti con l’imprevedibile: la finitudine non è una colpa o un difetto, ma una risorsa se solo si allarga lo sguardo dall’uomo al mondo, dall’uomo all’altro vivente, guardando verso il basso o meglio guardando senza rimanere impigliati nella rete dello spettacolo e dalla suggestione di poter sollevare i piedi da terra. Sul “non”, sulla mancanza che è dell’im-prevedibile che abita lo spazio tra il suolo e l’orizzonte, la filosofia può e deve lavorare come critica e autocritica della ragione che, d’altra parte, altro non è che un riallacciare continuo dei fili a cui l’imprevedibile fornisce materia.
[1] G. Agamben, Quando la casa brucia, Giometti & Antonello, Macerata 2020, p. 9.
[2] Basti solo pensare al testo di I. Kant, Il conflitto delle facoltà (1798), tr. it. Morcelliana, Brescia 1994.
[3] Cfr. G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza (1980-1981), tr. it Ombre Corte, Verona 2013.
[4] Cfr. J.-F. Lyotard, Perché la filosofia è necessaria (1964), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2013.
[5] Ancora Kant pensava a una tecnica della natura indipendente dalla mano dell’uomo, cfr. I. Kant, Prima introduzione alla critica del giudizio (1794), tr. it Laterza, Roma-Bari 1979, in particolare “Del giudicare teleologicamente”, § IX.
[6] Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Filosofia della natura, tr. it. a cura di V. Verra, Utet, Torino 2002, §245 con Aggiunta, §246 con Aggiunta.
[7] Assumiamo questo termine da M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche (1925), tr. it. Einaudi, Torino 2002.
[8] Cfr. R. Bonito Oliva, Rarefazione della cultura tra rivoluzione e ideologia. Note alla riflessione hegeliana sul Moderno, in A. Arienzo, F. Pisano, S. Testa (a cura di) La Fenomenologia dello spirito di Hegel. Problemi e interpretazioni, FedOA Press, Napoli 2018, pp. 47-72.
[9] Cfr. Id., La melanconia del distacco, in R. Diana (a cura di), Le «borie» vichiane come paradigma euristico. Hybris dei popoli e dei saperi fra moderno e contemporaneo, «I quaderni del LAB», 3, 2014, pp. 243-262.
[10] Cfr. G. Tarde, Le leggi sociali. Lineamenti di una sociologia (1898), tr. it. Paparo, Napoli 2014, p. 27 e sgg.
[11] Cfr. M. Serres, Il contratto naturale (1990), tr. it. Feltrinelli, Milano 2019.
[12] Cfr. P. Virilio, L’arte dell’accecamento (2005), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007.
[13] Cfr. T. Ingold, Ecologia della cultura (2001), tr. it. Meltemi, Milano 2016.
[14] Cfr. G. Bateson, Mente e natura (1979), tr. it. Adelphi, Milano 2008.
[15] Cfr. M. Serres, Il mancino zoppo: dal metodo non nasce niente (2015), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2016.
[16] Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale (1980), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992, vol. I, 293-309.
[17] Cfr. G. Clement, L’alternativa ambiente (2014), tr. it. Quodlibet, Macerata 2014.
[18] Cfr. E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro (2000), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2001.