Autore
Indice
1.Introduzione
2. Da Apocalypse Now a Il ramo d’oro
3. Il viaggio di Willard
4. La matrice mitica di Apocalypse Now
5. Conclusione
S&F_n. 22_2019
Abstract
Along the edge of a straight razor. Apocalypse Now between cinema and philosophy: a Frazerian interpretation
This short paper aims to propose a philosophical reading of the Francis Ford Coppola’s masterpiece Apocalypse Now. Not settling with the traditional interpretation of the movie as a cinematographic free transposition of Conrad’s Heart of Darkness, the paper try to put in evidence the cultural background of the Coppola’s movie using a multi-level approach, in which philosophy and literature converge: in particular the analysis will be brought through the mythological perspective used by of James G. Frazer in his famous book The Golden Bough. From this point of view the movie seems to show a very evocative painting in which are represented the myths collected in The Golden Bough; a painting, the one sketched by Coppola, of which Heart of Darkness is only the frame.
Del resto la Sibilla, a Cuma, l’ho vista anch’io, con questi miei occhi, dondolarsi rinchiusa, dentro un’ampolla, e quando i fanciulli le chiedevano: “Sibilla, che vuoi?”, quella rispondeva: “voglio morire”.
Petronio Arbitro, Satyricon
- Introduzione
In tutta la produzione culturale e letteraria che l’Europa del XX secolo ha partorito, ciò che venne prodotto nel 1922 merita una menzione particolare: mentre in Francia venivano pubblicati sia Sodome et Gomorrhe, il quarto volume della Recherce di Marcel Proust, sia l’Ulysses di James Joyce, in Germania Hermann Hesse dava alle stampe Siddhartha. Nell’Ottobre dello stesso anno, poi, proprio mentre in Italia si assisteva all’ascesa al potere del Partito Nazionale Fascista in seguito alla marcia su Roma, in Inghilterra, sul periodico letterario The Criterion apparve un poemetto di Thomas Stearns Eliot destinato a lasciare un segno indelebile nella letteratura novecentesca di lingua inglese: The Waste Land.
In origine il dattiloscritto eliotiano avrebbe dovuto recare in epigrafe una frase emblematica del capolavoro di Joseph Conrad Heart of Darkness, facendo sì che l’ingresso nella terra desolata di Eliot fosse sancito dalle ultime parole sibilate dal misterioso Kurtz, ormai morente: «The horror! The horror!»[1].
Ciò non avvenne a causa dell’intervento del poeta statunitense Ezra Pound che, non stimando in particolar modo l’opera di Conrad, sconsigliò a Eliot di rifarsi a Heart of Darkness, convincendolo. L’epigrafe del poema venne cambiata[2] e oggi reca le parole della Sibilla Cumana, profetessa di tristi sventure, contenute nel frammento del Satyricon di Petronio (e poste in epigrafe anche a questo testo). Il contributo di Pound fu fondamentale per il successo dell’opera, tant’è che il manoscritto di Eliot reca la dedica, con un esplicito riferimento dantesco, «For Ezra Pound il miglior fabbro».
La stima nei confronti di Pound e l’influenza che questi esercitò sul poco più giovane collega non soppressero tuttavia l’interesse di Eliot per il capolavoro di Conrad. Tre anni dopo la pubblicazione di The Waste Land e non avvalendosi più della supervisione di Pound, infatti, Eliot diede alle stampe una poesia intitolata The Hollow Men (1925) recante in epigrafe un’altra citazione di Conrad tratta da Heart of Darkness: «Mistah Kurtz... he dead»[3]. Ancora una volta Eliot faceva riferimento all’oscura figura di Kurtz.
Tornando a The Waste Land, da una parte si può dire che la lettura di Conrad portò alle narici di Eliot la puzza del mistero[4] di quel wilderness, metafora del viaggio di Heart of Darkness; dall’altra, la vera fonte ispiratrice del poema è da ricercarsi nell’opera del 1920 di Jessie L. Weston, From Ritual to Romance, da cui deriva il titolo dell’opera eliotiana e verso la quale il poeta si sentiva debitore[5]. Lo studio della Weston indaga la figura mitica del Re Pescatore e affianca la leggenda del Graal (e le sue varie declinazioni nel corso della storia) al simbolismo proprio dei culti misterici; in questo senso, l’opera della Weston si profila come una vera e propria indagine sul mito.
Ora, se nella sua dichiarazione di estetica (espressa con altre parole nella prefazione a The Nigger of the ‘Narcissus’) Conrad si pone come compito quello di riuscire, attraverso il mezzo della parola scritta, a farci sentire e, soprattutto, di riuscire a farci vedere, la trasposizione visiva di tutto ciò che è stato caoticamente citato sino a ora converge nella celebre pellicola di Francis Ford Coppola Apocalypse Now.
Uscito nel 1979 e vincitore di diversi premi, il film di Coppola pare essere una di quelle opere che contengono al loro interno la chiave di lettura dell’opera stessa: il film è l’adattamento cinematografico di Heart of Darkness, da cui è liberamente tratto il soggetto; in esso, poi, Kurtz (personaggio del romanzo che nel film diventa un ufficiale statunitense improvvisamente impazzito) cita generosamente versi di Eliot tratti da The Waste Land e da The Hollow Men; infine, in quello che potrebbe apparire un puro vezzo didascalico, un’esplicativa inquadratura verso la fine del film si sofferma su alcuni libri e, tra la Bibbia e un volume di Eliot, è possibile scorgere anche From Ritual to Romance di Jessie Weston.
Come spesso accade nelle grandi opere d’arte, però, Apocalypse Now non si esaurisce in un’analisi “orizzontale” in cui vengono individuate citazioni, omaggi e riferimenti, bensì presenta più livelli di lettura, a cui corrispondo differenti profondità interpretative: secondo la critica, come si è detto, il film di Coppola non è altro che la trasposizione cinematografica del libro di Conrad; coerentemente con questa interpretazione lo scrittore e sceneggiatore italiano Giaime Alonge individua la vera differenza tra il romanzo di Conrad e il film di Coppola nella figura di Marlow/Willard, che in Apocalypse Now non è più mero spettatore ma che, anzi, mettendo in discussione se stesso, salta a piè pari nell’abisso aperto da Kurtz sino a raggiungere il più profondo cuore di tenebra. In virtù di questa differenza fondamentale e a proposito del nucleo vitale del film, il finale, Alonge polemizza con il critico cinematografico Joy Gould Boyum sostenendo che il finale del film è coerente e aderente al puro spirito di Heart of Darkness[6].
A un primo livello d’analisi questa posizione convince; se invece si intende procedere a una lettura più approfondita del film, muovendo dal solco aperto da Alberto Moravia quando sostenne che «di Cuore di tenebra, alla fine, c’era molto poco»[7], è possibile accorgersi che il penetrante quadro tratteggiato da Conrad non è lo stesso rappresentato da Coppola, ma che ne è solamente la cornice esterna al cui interno pare ora essere trasposta un’opera diversa, un libro che nel fotogramma accennato sopra si intravede solo per un attimo: Il ramo d’oro di Sir James G. Frazer.
- Da Apocalypse Now a Il ramo d’oro
Questa nuova chiave di lettura è in parte suffragata da un curioso gioco di rimandi che restituisce però interessanti suggestioni: se, come si è detto, in Apocalypse Now convergono diverse influenze, a partire dal capolavoro di Conrad fino ad arrivare alle poesie di Eliot passando per il libro della Weston, è altrettanto vero che ognuna di queste opere ha subito a sua volta l’influenza del Ramo d’oro, facendo del film di Coppola una sorta di sintetico compendio delle eredità culturali che l’opera di Frazer ha lasciato nel corso del Novecento. Conrad lesse infatti il Ramo d’oro (pubblicato per la prima volta nel 1890, cioè nove anni prima della pubblicazione di Heart of Darkness) e rimase colpito dalle pagine in cui Frazer espone l’assassinio rituale del Chitomé, il re-pontefice del Congo che viene assassinato da colui che è destinato a succedergli; Conrad, inoltre, conobbe personalmente il pupillo di Frazer, Bronisław Malinowski: i due, entrambi polacchi naturalizzati britannici, erano accomunati da particolari affinità intellettuali che hanno fatto sì che l’antropologo James Clifford proponesse l’accostamento tra questi due “narratori dell’altro”[8]. Per quanto riguarda la ricezione dell’opera di Frazer da parte di Eliot e della Weston, l’influenza è ancor più esplicita: nel suo The Waste Land, Eliot paga pegno a From Ritual to Romance della Weston e questa, a sua volta, riconosce il suo debito verso l’antropologo scozzese: «Io mi dichiaro una seguace impenitente della fondamentale teoria di J. G. Frazer e, come ho detto prima, ritengo che quella teoria abbia un’importanza di gran lunga superiore e di portata alquanto più vasta di quanto si sia potuto finora immaginare»[9]. L’influenza frazeriana subita da Eliot, poi, non fu innescata unicamente dallo studio della Weston, ma da una lettura attenta e diretta de Il ramo d’oro[10]: «Nel febbraio del 1924 Thomas S. Eliot scriveva: “Frazer ha esteso la coscienza della mente umana fin dentro un oscuro e remoto abisso di tempo, mai esplorato prima”»[11].
A questo punto, Apocalypse Now pare prefigurarsi come una complessa melodia polifonica, in cui le voci dei rimandi si rincorrono con armonia e di cui il Ramo d’oro costituisce il leitmotiv.
La presenza dell’impronta del filosofo e indagatore del mito Frazer nella pellicola di Coppola può avere alcune spiegazioni: da una parte, un’interessante suggestione proviene dal filosofo francese Jean Baudrillard quando sostenne che, in un periodo storico violento e attuale (come poteva essere quello successivo alle due guerre mondiali e gli anni della guerra fredda), «il mito irrompe nel cinema come contenuto immaginario […]. Il mito, scacciato, dal reale, dalla violenza della storia trova rifugio nel cinema»[12]. Quest’ipotesi, nella misura in cui afferma che negli anni Settanta il cinema forniva un terreno fertile per rappresentare il modello mitico, da sola non basta; tale prospettiva ha però il merito di interpretare il mito non come un arcaico relitto, un’inattuale e ingenua eredità dell’uomo primitivo ma come uno spirito vivo, che si agita nei recessi dell’uomo e che si incunea nella modernità. A questa suggestione si deve pertanto aggiungere il particolare interesse di Coppola verso la filosofia (in particolar modo il pensiero di Bergson e la sua concezione del tempo) e verso il mito, le sue narrazioni e le sue rappresentazioni: a conferma dell’interpretazione di un film come un legittimo modo di fare filosofia[13], una delle ultime fatiche del regista statunitense, Youth Without Youth, è tratta dall’omonimo libro del filosofo e mitografo Mircea Eliade. In questa prospettiva, accostarsi a Eliade significa entrare in contatto con quella morfologia del sacro e con le “ierofanie” a cui lo studioso rumeno dedicò molti dei suoi studi: come accaduto con il Ramo d’oro in Apocalypse Now, ancora una volta Coppola si volge con ispirazione al mondo archetipico.
Tornando alla pellicola in oggetto, in origine il soggetto di Apocalypse Now pensato da uno dei simboli della New Hollywood John Milius riguardava una squadra di Berretti Verdi attiva al confine con la Cambogia. Il regista avrebbe dovuto essere George Lucas e Coppola aveva consigliato ai due di rifarsi a Heart of Darkness per dare più spessore al film[14]. Diversi anni dopo, con Milius in qualità di sceneggiatore e Walter Murch al montaggio, Coppola iniziò a lavorare al progetto lasciato in sospeso dai due colleghi.
Probabilmente le suggestioni derivanti dal Ramo d’oro affondano però le loro radici anni addietro, intorno al 1960, cioè quando il giovane Coppola si innamorò delle opere cinematografiche del maestro della “settima arte” Sergej Michajlovič Ėjzenštejn[15]. Una volta elevato il cineasta russo a riferimento principale, l’aspirante regista decise di dedicarsi completamente alla propria formazione culturale. A Coppola dunque non può esser sfuggito il fatto che, durante il suo soggiorno nel continente americano, Ėjzenštejn si sia recato in Messico e che lì abbia maturato delle riflessioni che si ritrovano nei suoi scritti degli anni Trenta e Quaranta: in essi il regista sovietico esprime la convinzione che per produrre delle opere cinematografiche funzionali, il materiale per la loro realizzazione debba essere attinto dal patrimonio delle culture arcaiche, caratterizzate da un modo di pensare che Lévy-Bruhl definisce “prelogico”[16]. Le conclusioni a cui approda il regista de La corazzata Potëmkin non sono casuali ma sono anzi spiegabili alla luce del fatto che durante il viaggio e il soggiorno in Messico Ėjzenštejn portò con sé e lesse proprio il capolavoro di Frazer[17].
Lasciando quest’ipotesi a livello di una semplice suggestione, è comunque necessario rivalutare il ruolo che ha ricoperto l’opera di Frazer nella pellicola di Coppola: non più parziale e vaga ispirazione in secondo piano, una sorta di nota a piè di pagina nell’attualizzazione cinematografica di Heart of Darkness; bensì il contrario. Il viaggio verso il cuore di tenebra conduce all’ombra delle frasche del Ramo d’oro: è infatti possibile interpretare Apocalypse Now come l’impervio viaggio che lentamente conduce il giovane aspirante rex nemorensis (Willard) nell’oscuro bosco in cui vive il sanguinario Re-sacerdote in carica (Kurtz) e dove, infine, si compiranno i destini di entrambi.
Dunque, ricapitolando, se l’escamotage narrativo del film attinge a Heart of Darkness, il vero cuore pulsante di Apocalypse Now è da ricercarsi tra le pagine del Ramo d’oro. In questa prospettiva, tutto il film è una lenta preparazione del suo compimento finale, in modo che il viaggio verso Kurtz porti direttamente al corrispettivo coppoliano del santuario di Nemi di cui tratta Frazer.
- Il viaggio di Willard
Vietnam, fine anni Sessanta. Al capitano dell’esercito americano Willard viene affidata una missione speciale: viaggiare lungo il fiume Nung fino a penetrare nella remota giungla cambogiana, dove il geniale colonnello Kurtz, dopo aver disertato, è al comando di una legione di montagnard e di indigeni che lo venerano come un dio. L’obiettivo della missione di Willard è uccidere l’ex colonnello apparentemente impazzito. Durante il viaggio, però, il capitano comincia a subire la fascinazione della figura enigmatica e misteriosa di Kurtz. Mentre «il senso dell’assurdità cominciava a esercitare il ben noto fascino»[18], il viaggio di Willard sul Patrol Boat River lungo il fiume in mezzo alla giungla si carica di significati simbolici e diventa una vera propria discesa verso l’inferno, in cui, a uno a uno, i compagni di viaggio del capitano vengono uccisi. Parallelamente si svolge un’altra discesa, per così dire speculare, totalmente interiore e per questo motivo altrettanto pericolosa; il viaggio di Willard, infatti, è anche una discesa allegorica nelle profondità inesplorate della psiche umana. Più il capitano procede e s’inoltra nella foresta selvaggia, più ogni distinzione tra giusto e sbagliato viene meno, facendo vacillare le poche certezze del capitano. La morale si rivela una fragile costruzione, tutta umana, che non appena entra in contatto con una realtà “altra” vacilla pericolosamente. Il capitano è ossessionato dalla figura di quest’uomo esemplare, Kurtz, che è stato capace di liberarsi delle categorie della morale comune e che vive come un dio pagano adorato dai selvaggi. Dapprima incuriosito, poi affascinato e sedotto, Willard comincia gradualmente a interrogare se stesso in un muto confronto con la figura di Kurtz; un dialogo che attende solo di essere animato. In questa prospettiva, il viaggio lungo il fiume Nung (qui una sorta di Averno coppoliano) non è solo un viaggio di formazione per il capitano; il viaggio che diventa un’odissea apocalittica e psicoanalitica rappresenta, attingendo ancora una volta al vocabolario conradiano, la vera e propria linea d’ombra del capitano Willard, ossia quel sottile e non ben definito confine tra la giovinezza e la maturità di un Io che prende coscienza di sé.
Il film culmina in un finale che condensa tutti i riferimenti sopra citati e che ne fa un’opera complessa e stratificata, con una marcata componente intertestuale.
Il fiume è la via che, come un serpente, si snoda a spirale nel wilderness della giungla vietnamita fino a raggiungere il confine con la Cambogia, sancito dal ponte Do-Lung. Il Do-Lung è un ponte che segna un confine ma al tempo stesso è anche una porta: usciti dalla pericolosa foresta, vera e propria selva oscura dantesca, varcando il ponte si entra nel regno di Kurtz. Accolti dalle teste mozzate illuminate dai lugubri fuochi che si stagliano nella fumosa nebbia baluginante, si approda in una terra selvaggia impregnata da un’atmosfera malarica di malattia e morte: una terra desolata. Come nella rappresentazione dell’atto finale di una tragedia shakespeariana, si ritrovano alla corte di Kurtz i protagonisti del finale di Coppola: il giovane (anti)eroe Willard, angosciato da amletici dubbi riguardanti cosa sia giusto fare; una sorta di giullare del re, il logorroico fotoreporter (tragi-comico personaggio interpretato da Dennis Hopper); per ultimo, poi, emergendo da una tagliatissima luce caravaggesca, fa la sua comparsa sulla scena il terribile antagonista Kurtz, la cui sinistra ambiguità è fonte di seduzione: spietato e sanguinario dio pagano che però legge e recita le poesie di Eliot, animo primitivo ma colto, allucinato e illuminato al tempo stesso. Se, come si è detto, la linea d’ombra di Willard ha avuto origine durante l’insidioso viaggio con l’irruzione della figura di Kurtz nel suo orizzonte mentale, la linea d’ombra del colonnello è consistita nell’aver lucidamente guardato dentro l’oscuro e proverbiale abisso nietzscheano, mentre questo, l’abisso, guardando dentro Kurtz, ne ha visto chiaramente il suo cuore di tenebra, facendolo emergere.
Dapprima fatto prigioniero, poi liberato dal colonnello, Willard intrattiene infine una profonda e suggestiva conversazione con questa sorta di Übermensch, divinità pagana della foresta. L’incontro finale con Kurtz spinge il capitano a sporgersi oltre il ciglio che lo separa dal nero abisso, immergendosi nella voragine: Willard, in bilico proprio come la lumaca che striscia lungo il filo del rasoio nel sogno ricorrente del colonnello, facendosi amico dell’orrore invocato da Kurtz introietta l’insegnamento dell’ufficiale disertore. Divenuto ormai il suo alter ego, Willard uccide Kurtz in un omicidio dai connotati e dal significato profondamente rituali.
- La matrice mitica di Apocalypse Now
Quarant’anni esatti sono passati dalla premiere del film al Festival di Cannes del 1979, nel quale Apocalypse Now si aggiudicò la Palma d’oro ex aequo con Il tamburo di latta di Schlöndorff.
Durante il Festival, Coppola propose a sorpresa due versioni del finale del film – un caso storico e fino a quel momento senza precedenti. Nella prima versione Willard, una volta terminata la missione, torna a casa; nella seconda versione, invece, il capitano porta a compimento la sua missione uccidendo il colonnello ma finisce per prenderne il posto, diventando a sua volta una sorta di divinità pagana del villaggio[19]. Tale finale invalida inevitabilmente la conclusione della prima versione: a differenza di ciò che accade in Heart of Darkness, qui non vi è alcun ritorno alla civiltà. Marlow torna a casa e racconta la sua storia; a Willard questa possibilità è negata: analogamente al rito di successione del rex nemorensis, il rituale è stato compiuto e tornare indietro non è più possibile. Willard non è più lo stesso e un ritorno in società, in America, è semplicemente impensabile.
È precisamente a questo punto che si manifesta appieno il debito del film nei confronti del Ramo d’oro. Al culmine della tensione latente che domina Apocalypse Now per la sua intera durata, infatti, i riti descritti nell’opera di Frazer convergono nel finale della pellicola: le sanguinose leggi che regolavano la successione al sacerdozio del santuario di Diana e la figura del rex nemorensis che lo presiede prendono vita.
Nel suo studio, Frazer sottolinea a più riprese la pratica, comune a numerose culture del passato, dell’omicidio rituale del Re divino: quando l’uomo-dio comincia a manifestare i primi sintomi di invecchiamento o di malattia, è necessario che egli muoia di morte violenta; solo così si può impedire che lo spirito divino se ne vada in modo naturale, gettando di conseguenza la terra e la popolazione nella mortifera sterilità. Attraverso questo rituale il potere e lo spirito divino vengono trasferiti nelle mani del suo assassino, il quale diventa il nuovo Dio. Ciò accadeva anche vicino a Roma, nel bosco che circonda il piccolo lago di Nemi, ed è proprio dalla vicenda del rex nemorensis, il Re-sacerdote votato a Diana e incarnazione della divinità silvestre, che l’opera di Frazer prende le mosse.
In questa prospettiva mitica, tutto il viaggio mostrato nel film è una discesa negli Inferi e nell’inconscio. Una discesa che, priva di “virgiliesca” guida, è vera e propria caduta libera nel wilderness delle tenebre del cuore. Quasi fosse un affluente dell’Acheronte, il Nung conduce Willard al suo punto d’arrivo, dove lo attendono in un’immobilità e in un silenzio eterei centinaia di uomini, indigeni e no: sono gli uomini vuoti del regno di Kurtz. Come in un girone dantesco, la violenta terra di questo dio pagano è disseminata di cadaveri e, tra le ombre, emana esalazioni paludose, respiro di una foresta sterile e corrotta. Questo regno malsano e desolato non è che il riflesso del suo dio decadente e consapevolmente malato Kurtz. In questo scenario, che rimanda direttamente alla leggenda del Re Pescatore riportata nell’opera della Weston, avviene il patetico incontro tra Willard e l’ex ufficiale: in un passaggio emblematico, il colonnello nega al capitano il diritto di giudicarlo ma gli riconosce significativamente il diritto di ucciderlo. Siamo alle ultime battute del film; l’inquadratura di Coppola si sofferma un attimo sui libri della Weston e di Frazer: il rito di successione è già iniziato.
La notte cala e nel villaggio è in corso una cerimonia pagana, tra idoli e danze frenetiche. Mentre nella notte primordiale risplendono i fuochi rituali, dalle acque del fiume emerge Willard con la faccia sporca di fango, di melma primigenia: nella terra guasta di Kurtz nemmeno l’acqua è fonte di purificazione. In un crescendo dal ritmo sincopato, il capitano raggiunge il dio pagano nella sua solitudine e lo uccide in una memorabile scena in cui i fendenti inferti a Kurtz si inframmezzano ai colpi di machete con cui, nello stesso momento, gli indigeni uccidono un bue in un sacrificio rituale. La scena dell’uccisione di Kurtz rimanda direttamente alla bouphonia descritta da Frazer, ossia l’“assassinio del bue” in cui la vittima immolata non è solo un’offerta al dio ma è creatura sacra in se stessa[20]. In questo scenario, poi, un’altra interessante suggestione proviene dai disegni che il “maestro” di Coppola, Ejzenštejn, cominciò a tratteggiare in Messico. Questi, infatti, avevano per oggetto una serie di corpi dilaniati e smembrati; ciò condusse il regista a riflettere circa la genesi del montaggio cinematografico e a identificarlo con lo smembramento di un corpo. L’evocazione di una scena di un corpo dilaniato richiamava alla memoria del regista la figura di Dioniso e dei riti dionisiaci descritti nelle pagine di Frazer che avevano come momento culminante del cerimoniale lo sparagmòs, ovvero lo smembramento della vittima sacrificale: «Ci viene in mente Dioniso. I miti e i misteri di Dioniso. Dioniso che viene dilaniato, e le sue membra che di nuovo si compongono in un Dioniso trasfigurato. Cioè, la soglia da cui muove l’arte del teatro, che diventerà in seguito arte del cinema. Quella soglia a partire dalla quale il rito sacro si trasforma gradualmente in arte. L’effettiva azione del culto trapassa gradualmente nel simbolo del rito per poi divenire un’immagine nell’arte»[21]; lo stesso Dioniso capace di trasformarsi in animale (non a caso spesso raffigurato con le sembianze di un bue) e che Frazer riteneva essere una divinità della vegetazione[22], proprio come il rex nemorensis.
In una frenetica orgia di sangue, il colonnello, da tempo consapevole della sua morte imminente, viene dunque ucciso senza odio dal giovane venuto da lontano per destituirlo, in un rituale le cui origini affondano nel mito. Il mito di Frazer si agita dunque all’interno della pellicola di Coppola; ancor prima dell’influenza impressa sul regista americano e su Ejzenštejn, però, il Ramo d’oro estese le sue radici d’influenza anche sul padre della psicanalisi, il viennese Sigmund Freud, che trasse ispirazione dall’opera di Frazer per il suo Totem e tabù. Nel 1899, mentre Conrad dava alle stampe Heart of Darkness, Freud pubblicava L’interpretazione dei sogni[23], la cui epigrafe recita perentoria il famoso verso virgiliano tratto dall’Eneide in cui si fa riferimento al sotterraneo mondo infernale in cui scorre l’Acheronte. Considerato da una prospettiva freudiana, infatti, l’intero viaggio che porta Willard alla sua destinazione finale è una discesa nelle profondità dell’inconscio, in cui il capitano guarda per la prima volta dentro di sé, trovandosi faccia a faccia con il proprio Es. Sulla scorta di queste suggestioni, ancora una volta il mito trova spazio nella rappresentazione di Coppola e l’assassinio rituale di Kurtz assume di fatto anche i caratteri dell’omicidio edipico: Edipo/Willard compie il suo destino uccidendo e sostituendo la figura “paterna” del colonnello, Laio/Kurtz. Se nello svolgimento della vicenda il “reale” si intreccia al “fantastico” narrativo, l’irruzione del mito nel film funge dunque da cerniera tra questi due livelli.
- Conclusione
Il cerimoniale si avvia ora verso il suo epilogo e l’euforica eccitazione primordiale scema. Il colonnello, coperto di sangue, spira pronunciando le parole che tanto colpirono Eliot: di nuovo, «The horror! The horror!». Kurtz, il dio-uomo, il sovrano pagano, è morto e, col sottofondo dei ritmi tribali indigeni, è lecito congedarsi con le parole con cui Frazer chiude la sua opera; «Il re è morto. Viva il re!»[24].
Willard, dopo aver ucciso il colonnello, si muove in mezzo ai fuochi e alle danze rituali dove si era appena consumato il sacrificio animale e, tra simulacri e statue, si trova immerso nella folla di indigeni e montagnard: con reverenza e timore, essi si scostano in silenzio per lasciarlo passare. Suggellato dal sangue, il rito di successione si è infine concluso.
L’assassinio rituale del capo compiuto da Willard è una cerimonia perfettamente inscrivibile nella logica e nelle pratiche della comunità pagana raccolta nel villaggio di Kurtz e infatti nel finale della seconda versione del film, come già anticipato, Willard rimane nel villaggio, insediandosi nei panni del nuovo sovrano divinizzato: una conclusione alternativa suggestiva ma meno convincente.
Riepilogando, con la sua opera Frazer aveva cercato di srotolare un filo di Arianna che permettesse all’uomo di muovere qualche breve passo in un labirinto la cui estensione era pari a quella del cammino della specie umana.
Al fine di districarsi in quel variopinto gomitolo formato dai millenari fili della magia, della religione e della scienza, l’autore del Ramo d’oro ritenne necessario gettare nuova luce su quel paradigma ancestrale che ogni uomo condivide nel suo profondo e di cui, nel corso della storia, si è servito per interpretare la vita e il mondo: il mito. In un certo senso e in modo analogo, Coppola ha tentato di servirsi del mito per rappresentare la componente primitiva latente in ciascun uomo, pronta a emergere non appena vengono a cadere norme e principi etici e morali: una sorta di Vietnam privato e individuale.
Certamente la prospettiva mitica non esaurisce il ventaglio epistemologico o le categorie logiche dell’uomo, tuttavia indagare le leggende dell’antichità significa anche condurre una ricerca intorno alla complessità psichica dell’essere umano.
Coppola ha dichiarato che realizzare un film equivale a fare indagine filosofica con nuovi strumenti: «Per me lavorare a un film equivale a porre una domanda, e quando finisco il lavoro conosco la risposta, o perlomeno parte della risposta»[25].
In questo senso, però, Frazer sembra essere ancora una volta un passo avanti a Coppola: nonostante nutrisse una scarsa fiducia nel progresso illimitato dell’umanità e, anzi, esternasse dubbi riguardo il futuro dell’Occidente[26], nell’ultimo capitolo del Ramo d’oro osservava che è pur sempre necessario non lasciarsi scoraggiare da quella ricerca infinita in cui consiste il progredire della conoscenza, poiché «come accade quando si cerca la verità, se abbiamo risposto a una domanda molte altre ne abbiamo sollevate»[27].
[1] J. Conrad, Cuore di Tenebra (1899), tr. it. Einaudi, Torino 1999, p. 218.
[2] Riguardo alla prima stesura del testo di Eliot si fa riferimento a T.S. Eliot, The Waste Land. A Facsimile and Transcript of the Original Drafts Including the Annotations of Ezra Pound, a cura di V. Eliot, Harcourt Brace Jovanovich, Inc., New York 1971.
[3] J. Conrad, op. cit., p. 220.
[4] Ibid., p. 106.
[5] T. S. Eliot, La terra desolata (1922), tr. it. Mursia, Milano 1976, p. 87.
[6] G. Alonge, Tra Saigon e Bayreuth. Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, Tirrenia Stampatori, Torino 2001, pp. 14 -18.
[7] A. Moravia, A tutto Conrad, in «L’Espresso», XXXVI, 25, 1990, p. 129..
[8] J. Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 121.
[9] J. L. Weston, Indagine sul Santo Graal (1920), tr. it. Sellerio editore, Palermo 2005, p. 42.
[10] T. S. Eliot, La terra desolata, cit., p. 87.
[11] G. Scarpelli, Il razionalista pagano. Frazer e la filosofia del mito, Meltemi editore, Milano 2018, p. 9.
[12] V. Zagarrio, Francis Ford Coppola, Il Castoro, Milano 1995, p. 75.
[13] M. Capello (a cura di), Di tempo e sogno, Feltrinelli (Le Nuvole), Milano 2008, p. 10.
[14] V. Zagarrio, op.cit., p. 40.
[15] Ibid., p. 20.
[16] A questo proposito si veda A. Somaini, Ejzenštejn Il cinema, le arti, il montaggio, Einaudi, Torino 2011.
[17] A. Grasso, Sergej M. Ejzenštejn, Il Castoro, Milano 1995, p. 80.
[18] J. Conrad, La linea d’ombra (1917), tr. it. Rusconi, Santarcangelo di Romagna 2009, p. 18.
[19] M. Capello (a cura di), op. cit., p. 46.
[20] J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione (1890), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 559.
[21] S. M. Ejzenštejn, La nascita del montaggio: Dioniso in Teoria generale del montaggio, Marsilio, Padova 1985, p. 227.
[22] J. G. Frazer, op. cit., p. 561
[23] S. Freud, Traumdeutung, Leipzig und Wien, Deuticke 1900 [1899]. Il frontespizio reca la data 1900 ma in realtà la data corretta corrisponde al mese di Novembre 1899.
[24] J. G. Frazer, op. cit., p. 827.
[25] M. Capello (a cura di), op. cit., p.10.
[26] G. Scarpelli, op. cit., p. 109.
[27] J. G. Frazer, op. cit., p. 824.