Autore
Indice
1.Introduzione
2. La scienza cognitiva classica e il modello inside-out
3. L’esternalismo e la NSC
4. Uno sguardo all’enattivismo
5. Bergson e l’esternalismo
6. Bergson e l’enattivismo
7. Conclusione
S&F_n. 22_2019
Abstract
Bergson and the Contemporary Philosophy of Mind. A Comparison to the Enactivism
In the last two decades, the research approach in Philosophy of Mind has changed considerably. The studies about mental phenomenon inspired by the so called “Internalist” model were focused on the relationship between mental state and neural movements and assumed that the mind has mental representations analogous to computer data structures, and computational procedures similar to computational algorithms. The new “Externalist” model, instead, is focused on relationship between mental state and the rest of the world and assumes that the contents of mental states are dependent at least in part on the interaction between the subject and external world or environment. The aim of this paper is to compare this contemporary developments in Philosophy of Mind and the body-mind theory of Henri Bergson (1859-1941) in order to show how the work of the French philosopher has anticipated the main theoretical concepts of Externalism.
- Introduzione
Nell’ambito della filosofia della mente[1], come ormai dichiarato dalla maggior parte degli specialisti, è in atto un vero e proprio mutamento di paradigma. Rispetto al modello di spiegazione del fenomeno mentale definito internalista, orientato cioè a considerare la mente come sistema (chiuso) d’elaborazione dati separato dall’ambiente circostante, scevro da implicazioni strutturali anzitutto col proprio corpo/sostrato materiale, sembra gradualmente, ma decisamente, prendere sempre più spazio quello esternalista. Questo secondo modello, ben lungi dal costituire un fronte di ricerca unitario, traccia però ormai indiscutibilmente una direzione comune a diversi programmi di studi che, pur nelle loro specificità, considerano la mente come il “risultato” della complessa interazione tra soggetto cognitivo e ambiente, e che proprio nella sempre più profonda chiarificazione della trama di rapporti (fisici, biologici, culturali) tra individuo e mondo cercano la chiave per comprendere il fenomeno mentale. Se nella visione internalista, il mondo è concepito come il referente dei nostri stati mentali, i quali sono confinati “dentro” la testa, per l’approccio esternalista la mente deborda il perimetro del sistema nervoso, fino a includere porzioni del mondo circostante. Secondo la teoria della “Mente Estesa”, ad esempio, elaborata per la prima volta da Andy Clark e David Chalmers[2], la mente dovrebbe essere pensata come ontologicamente estesa al resto del mondo, ben oltre dunque quel sostrato neurale che istintivamente si è soliti concepire come esclusivo riferimento “materiale” delle funzioni mentali. Fin qui si è fornito solo un quadro approssimativo, cui seguiranno le opportune specificazioni nel resto di questo lavoro.
Ora, rispetto al panorama brevemente tratteggiato, questo contributo si propone di illustrare, con relativi supporti argomentativi, come il pensiero del filosofo francese Henri Bergson – con specifico riferimento alla sua opera Materia e memoria del 1896 – contenga delle vistose anticipazioni, non sempre adeguatamente rimarcate e valorizzate, delle istanze teoretiche essenziali del paradigma esternalista. Si badi bene: non è di certo possibile definire “esternalista” il filosofo francese, la qual cosa richiederebbe un’indebita applicazione retroattiva di categorie filosofiche contemporanee; si vuole qui sostenere, più modestamente, che i motivi speculativi fondamentali dell’esternalismo sono già presenti nell’opera bergsoniana, anche se per lo più in forma latente.
Non è pensabile una ricostruzione puntuale, nel breve spazio di questo contributo, dell’intero orizzonte degli studi sulla mente d’impianto esternalista. La scelta, perciò, sarà quella di tratteggiare gli elementi di fondo del modello internalista e di quello esternalista – in modo da illuminare nelle linee essenziali le differenze reciproche ― assumendo poi l’enattivismo (una delle declinazioni dell’esternalismo) quale punto di vista paradigmatico e spazio di osservazione comparata tra la filosofia della mente contemporanea e la prospettiva di Bergson.
- La scienza cognitiva classica e il modello inside-out
Il mutamento di paradigma che ha interessato la filosofia della mente negli ultimi decenni, al quale si faceva riferimento nell’introduzione di questo scritto, può essere descritto come una transizione dalla “scienza cognitiva classica”, di indirizzo internalista, verso una “nuova scienza cognitiva” di approccio esternalista. Il programma di ricerca della versione “classica” della scienza cognitiva (SCC), infatti, sviluppatasi tra gli anni ’50 e ’80 del Novecento, era fondato sulla convinzione che fosse possibile studiare i processi cognitivi considerandoli processi di elaborazione operati su rappresentazioni, seguendo il filo di un’identificazione più o meno spinta tra apparato cognitivo umano e calcolatore digitale[3]. Il SCC ha subìto nel tempo diverse critiche principalmente a motivo del suo approccio internalista, orientato cioè a considerare la mente come sistema chiuso, solipsisticamente caratterizzato. Per il modello esplicativo internalista, in altre parole, la mente sostanzialmente «è ciò che accade dentro la testa».
Il funzionalismo computazionale, recita l’anti-individualista, ignora il mondo, inteso tanto come natura quanto come società […] Le computazioni sono sensibili esclusivamente alle proprietà formali intrinseche delle rappresentazioni interne[4].
In questo senso, allora, la mente potrebbe essere pensata come un insieme di meccanismi per mezzo dei quali l’input sensoriale viene trasformato, ridotto, integrato, immagazzinato, recuperato e, infine, utilizzato[5]. Possiamo definire questa concezione esplicativa modello Inside-Out, oppure attraverso il richiamo alla metafora del “computer” - divenuta un “classico” della letteratura specialistica della SCC - basata sull’idea per cui «ogni performance cognitiva può essere spiegata facendo riferimento ad algoritmi, implementati in qualche modo nella mente, e molto simili al linguaggio della macchina, basato su strutture simboliche, dei computer»[6].
In tale prospettiva, il soggetto – racchiuso nel sacco epidermico – si compatta attorno al fascio delle percezioni che, per così dire, veicolano in lui le informazioni sul mondo esterno attraverso le “porte” o “finestre” sull’ambiente circostante, costituite dai canali sensoriali. Il cervello, dal canto suo, lavora sui dati percettivi e restituisce al soggetto una certa immagine del mondo “là fuori”.
- L’esternalismo e la NSC
Il controcanto speculativo al paradigma fin qui esposto è rappresentato dal modello esternalista, il quale ― lungi dal costituire un movimento unitario ― definisce più un’anticipazione euristica comune a diversi programmi di ricerca, tutti accomunati da un assunto teorico di fondo: l’interazione continua tra agente e ambiente riveste un ruolo costitutivo[7] per il sorgere e lo strutturarsi della nostra esperienza mentale. Proprio in forza della considerazione del ruolo giocato dal livello sensorimotorio e dall’ambiente nei processi mentali, nelle scienze cognitive e in filosofia della mente si parla ormai quasi unanimemente di cognizione grounded, situated, enacted o, per utilizzare un termine forse più noto, embodied[8]. In altre parole, per l’approccio qui preso in esame, nello studio del fenomeno mentale è essenziale considerare il suo carattere situato, che lo istanzia in radice. In quanto situata, dipendente cioè nella sua intrinseca strutturazione dal contesto ambientale in cui accade, la cognizione è anche sempre:
-sociale, per il suo essere localizzata in ambienti costruiti dagli uomini nelle comunità sociali;
-incorporata, nel senso che gli aspetti materiali corporei degli agenti cognitivi sono considerati rilevanti;
-concreta, poiché vengono considerati della massima importanza i vincoli fisici delle strutture su cui si realizzano i caratteri mentali;
-immersa nell’ambiente, giacché l’interazione continua tra agente e ambiente riveste un ruolo fondamentale[9].
Proprio a partire da questa prospettiva, l’approccio dell’Embodied cognition[10], ad esempio, sostiene che la gran parte dei processi cognitivi avvenga mediante i sistemi di controllo del corpo. La recente ricerca scientifica ha mostrato interessanti interazioni tra funzioni cognitive superiori e sistema sensorimotorio; il materiale sperimentale di supporto a tale idea non manca, e la sua provenienza disciplinare è la più disparata. La scoperta dei cosiddetti neuroni canonici, ad esempio, ha mostrato come una classe di neuroni risponda all’osservazione di oggetti le cui caratteristiche fisiche (forma, grandezza) sono intimamente correlate con il tipo d’azione “codificato” da quegli stessi neuroni. In altri termini, l’osservazione di un oggetto, pur in un contesto che con esso non prevede alcuna interazione attiva, determina l’attivazione del programma motorio che s’impiegherebbe se si volesse interagire con esso: vedere l’oggetto significa evocare automaticamente cosa faremmo con quell’oggetto[11]. Nel campo della filosofia della mente, insomma, è in atto un ripensamento dei confini del fenomeno mentale. Se quest’ultimo non accade all’interno del sacco epidermico come la digestione accade nello stomaco, ci si può chiedere, con Clark e Chalmers, «dove finisce la mente e inizia il resto del mondo?»[12]. Se per l’internalismo i confini della “mente” sono quelli della scatola cranica, l’esternalismo immagina, con differenti livelli di radicalità, che la mente sia più estesa del sistema nervoso. Insomma, i confini della mente, nella prospettiva esternalista, tendono a dilatarsi, e si ammette una certa distribuzione delle funzioni cognitive sui supporti esterni (ambientali, culturali e tecnologici), muovendo da forme di esternalismo soft, che guardano a ciò che è esterno al sistema nervoso come funzionalmente costitutivo per il sorgere dell’esperienza, fino a forme di esternalismo hard o “radicale” che pensano la mente come ontologicamente estesa o distribuita su tutti i “supporti” del processo cognitivo. Tra questi due estremi, abbiamo un’ampia gamma di posizioni intermedie.
La nuova scienza cognitiva o scienza cognitiva post-classica (NSC) è mossa dunque da una chiara istanza anti-dualista, che si tramuta in una valorizzazione del “mondo” quale elemento imprescindibile di analisi per la comprensione del fenomeno mentale. Col termine “mondo” si fa qui riferimento al corpo (e con esso alla dimensione emotivo-affettiva e all’azione), all’ambiente esterno, e pure agli aspetti culturali e sociali: come è facile intuire, ciascun indirizzo o filone riconducibile all’orizzonte della nuova scienza cognitiva è portato a riconoscere poi a ognuno dei fattori appena richiamati maggiore o minore peso, combinandoli in modo specifico a seconda delle prospettive scelte. Ma un nucleo comune è ben individuabile.
La cognizione, secondo la scienza cognitiva classica, si può definire come: individuale, astratta, razionale, distaccata dall’ambiente, generale. La cognizione situata si propone di studiare i fenomeni cognitivi «nel loro contesto naturale», sottolineando l’importanza delle abilità senso motorie nel complesso delle nostre capacità intelligenti, come il ragionamento, il linguaggio, la pianificazione. Laddove la scienza cognitiva classica li considerava unicamente come processi astratti, distaccati dall’interazione agente/ambiente, la cognizione situata attribuisce un ruolo importante alle attività più basilari e condivise col resto del mondo animale nello studio della razionalità e del pensiero umani[13].
Il soggetto è allora sempre, in linguaggio heideggeriano, un Dasein, un Esser-ci, dove il “Ci” designa lo spazio d’inscrizione della trama di influssi bidirezionali individuo-ambiente decisivi per la costituzione dell’esperienza, anzi, ancor meglio, che sono in quanto tali, la nostra esperienza.
- Uno sguardo all’enattivismo
Per l’enattivismo il fenomeno percettivo si dà come emergenza dall’attività esplorativa dell’organismo nel suo ambiente[14]. La mente, allora, coi processi cognitivi correlati, emerge dalla fitta rete sensomotoria che il corpo intreccia con l’ambiente circostante, rete che permette all’azione di essere guidata percettivamente. Come ha ben sintetizzato Vittorio Gallese, allora, «da un lato, i processi sensoriali costituiscono il presupposto dell’azione, ma contemporaneamente sono anche parte dell’azione»[15].
Alva Noë è uno degli autori contemporanei più influenti del panorama enattivista. Per motivi di spazio, ci focalizzeremo sul suo contributo. Anch’egli, fedele al dettato secondo il quale la coscienza emergerebbe dall’interazione soggetto-mondo, non manca di sottolineare la stretta coappartenenza di azione e percezione:
Percepire è un modo d’agire. La percezione non è qualcosa che ci accade. È qualcosa che facciamo. […]. Il mondo si rende disponibile al percipiente attraverso il movimento fisico e l’interazione. […] L’esperienza percettiva acquisisce contenuti grazie alle abilità corporee in nostro possesso. Quello che percepiamo è determinato da ciò che facciamo[16].
Noë chiarisce come, secondo l’approccio enattivista, la nostra capacità percettiva non soltanto dipende dalla dinamica sensomotoria del soggetto, ma è bensì costituita da quest’ultima. Se questo è vero allora – prosegue il nostro autore – dobbiamo abbandonare l’idea secondo la quale la percezione riguarderebbe ciò che accade “dentro la nostra testa” dove, complice l’elaborazione neurale, si costituirebbe una rappresentazione interna del mondo esterno; al contrario, essa va concepita come «una specie di attività intelligente (skillful) dell’animale nel suo complesso»[17]. Su queste basi, dunque, per Alva Noë il locus fisico dell’esperienza cosciente, il veicolo materiale della sua realizzazione, non è certamente il cervello isolatamente considerato: tale luogo, piuttosto, coincide col processo in cui l’attività neurale è incorporata nelle dinamiche sensomotorie che coinvolgono il soggetto e il suo ambiente.
Contro la centralità assoluta accordata al cervello nel paradigma classico, a giudizio di Noë, parla una gran quantità di dati sperimentali, quali ad esempio ― solo per citarne uno ― gli studi sulla plasticità neurale dei furetti svolti da Mriganka Sur e colleghi presso i laboratori del MIT di Boston. Ciò che Sur e la sua equipe hanno fatto è stato scollegare i nervi ottici dalle aree visive e ricollegarli alle aree uditive, così da interrompere la normale correlazione tra l’attività neurale in una data area del cervello e la funzione visiva. Di solito l’attività neurale nella corteccia visiva dà luogo all’esperienza del vedere. Nel caso dei furetti di Sur però, citato da Noë come uno dei tanti supporti sperimentali a sostegno delle proprie tesi, gli animali erano capaci di vedere quando a essere attivata era una porzione completamente diversa del loro cervello. Tali ricerche mostrerebbero allora
come il legame tra le aree cerebrali e l’esperienza cosciente (ad esempio il collegamento tra la corteccia uditiva e le esperienze uditive, e quello tra la corteccia visiva e le esperienze visive) sia malleabile. […] Modificando la normale relazione tra gli occhi (o la retina) e il cervello, Sur ha ottennuto un ricablaggio delle esperienze e del cervello. […] Il fatto che sia possibile variare in questo modo la coscienza in relazione ai supporti neurali ci dice che non vi è nulla di speciale nelle cellule della cosiddetta corteccia visiva che le renda appunto visive. Le cellule presenti nella corteccia uditiva possono a loro volta essere visive. Non vi è alcuna connessione necessaria tra il carattere dell’esperienza e il comportamento di certe cellule[18].
Il punto fondamentale, insiste Noë, è accettare l’inesistenza di un legame necessario ed esclusivo tra il carattere della nostra esperienza cosciente e il comportamento dei neuroni. Il ruolo di questi ultimi nell’emergenza degli stati mentali è imprescindibile, ma non esclusivo. Se chiediamo dunque “qual è il carattere dell’attività cerebrale che ci permette di avere un’esperienza visiva diversa in quanto tale da esperienze di altro tipo?” (ad esempio quelle uditive), dal punto di vista difeso dallo studioso americano, stiamo ponendo un interrogativo insolubile, proprio perché stiamo cercando “nella testa”, e più precisamente nel comportamento delle cellule neurali, ciò che queste ultime non hanno: i neuroni non vedono. Per comprendere la natura della mente bisogna guardare oltre il cervello:
Ciò che determina il carattere della nostra esperienza – ovvero quel che rende la nostra esperienza proprio quel tipo di esperienza che è – non è l’attività neurale nel nostro cervello; piuttosto, è la relazione dinamica che intratteniamo con gli oggetti[19].
Niente di più lontano dall’ipotesi sostenuta da un certo neurocentrismo e/o neuroriduzionismo in filosofia della mente, i quali decretano la diretta e totale discendenza dei nostri stati mentali dal comportamento delle cellule neurali. Non basta forse, sentenziano i sostenitori di queste prospettive, una semplice stimolazione diretta delle cellule nervose per causare una certa corrispondente perturbazione dell’esperienza del soggetto? Questa banale operazione da laboratorio non è sufficiente a dimostrare che il costruttore del mondo esperito dai soggetti è il cervello? Noë rifiuta totalmente questa impostazione, usando quale campione significativo della tesi da decostruire, le posizioni dello scienziato Francis Crick:
L’assunzione posta alla base di buona parte dell’indagine scientifica dedicate alla coscienza consiste nel considerare quest’ultima alla stregua di qualsiasi altro fenomeno neuroscientifico. Essa accade dentro di noi, nel cervello. […] Francis Crick, vincitore del premio Nobel e co-scopritore della struttura della molecola di DNA, ha affermato (in un libro dal titolo The Astonishing Hypothesis, letteralmente “L’ipotesi sorprendente”, reso in Italiano con La scienza e l’anima): “Tu, la tua gioia e i tuoi dolori, i tuoi ricordi e i tuoi progetti, il tuo senso di identità personale e libero arbitrio siete di fatto nient’altro che i comportamenti di un vasto sistema costituito da cellule nervose e dalle molecole che le compongono[20].
Prima ancora che in base al complesso di argomenti sperimentali prodotti dalla ricerca della nuova scienza cognitiva, la tesi per la quale “noi siamo il nostro cervello”, e che a detta di Noë, ha guidato per decenni come assunto teorico di fondo la ricerca neuroscientifica, non reggerebbe anche per evidenti limiti logico-formali: è certamente possibile, sostiene il nostro autore, produrre esperienze coscienti attraverso la semplice stimolazione diretta del cervello. Ma dedurre da questo la completa dipendenza della coscienza dal solo sostrato neurale è scorretto. Ove fosse possibile, infatti, creare raffinate allucinazioni corrispondenti a tutte le nostre esperienze sensoriali, magari sfruttando una nuova e sofisticatissima tecnologia, tutt’al più potremmo concluderne che un cervello più l’intervento di uno scienziato possono dare origine a stati coscienti, non certamente che un cervello, da solo, sia in grado di farlo. Dunque la coscienza risultante dall’esperimento, quanto alla sua eziologia, non sarebbe identica a quella sperimentata ordinariamente[21]. In secondo luogo, aggiunge Noë, quando produciamo rappresentazioni nella coscienza tramite stimolazione diretta del cervello, quello che facciamo realmente è modulare stati di coscienza già esistenti, non certamente una creazione dal nulla della coscienza:
Al più, ciò che siamo autorizzati a concludere da considerazioni di questo tipo è che l’azione sul cervello può produrre cambiamenti nella coscienza; non siamo autorizzati a concludere che la coscienza dipenda unicamente dalle azioni sul cervello[22].
Il cervello e il sistema nervoso, allora, nella misura in cui rendono possibile la consapevolezza percettiva dell’ambiente, non hanno il compito di generare immagini interne elaborando la molteplicità dei dati sensibili; piuttosto, favoriscono, insieme al nostro corpo, l’interazione dinamica con l’ambiente: gli stati di coscienza sono la risultante dell’infinita e continua declinazione dell’essere nel mondo del soggetto cognitivo. Nel quadro dipinto da Noë, dunque, l’esperienza del soggetto è l’infinita riconfigurazione a carattere pragmatico del mondo.
In virtù di questo originario essere-nel-mondo del soggetto, Alva Noë non pensa il processo cognitivo in termini rappresentazionalisti ma come un realismo diretto: il soggetto, in altri termini, possiederebbe un accesso non mediato al mondo proprio perché già da sempre vi appartiene, è implicato nella trama fitta e profonda di relazioni tra enti grazie alla quale un mondo può emergere per un soggetto.
Nella visione di esperienza qui sviluppata, le percezioni più che riferirsi al mondo, sono episodi di contatto col mondo. […] Secondo il realismo diretto azionista (o enattivista) che sto sviluppando, non c’è esperienza percettiva di un oggetto che non sia dipendente dall’esercizio, da parte di colui che percepisce, di una speciale forma di conoscenza. La consapevolezza percettiva di un oggetto, per il realismo azionista-diretto, è il risultato della conoscenza senso-motoria[23].
In tale concezione, allora, l’oggetto è affermato in quanto si presenta in carne e ossa (e non in un’immagine mediana tra l’io percipiente e il mondo esterno) e sempre inesauribile nelle sue proprietà e determinazioni ulteriori date nei successivi decorsi percettivi.
- Bergson e l’esternalismo
In base a quanto appreso nei precedenti paragrafi, possiamo elencare alcuni punti caratteristici del paradigma esternalista. In primo luogo, il cervello – benché indispensabile per l’insorgere dell’esperienza cosciente – non appare più come “l’organo della coscienza” al quale riferirsi in via pressoché esclusiva, bensì si presenta come l’elemento co-essenziale di un insieme più vasto di fattori che coinvolge il corpo in azione e l’ambiente circostante. Senza il riferimento a tale sistema dinamico, l’esperienza mentale risulterebbe sostanzialmente inesplicabile. Ma rilevando questa differenza non siamo ancora arrivati al cuore della questione. La chiave per comprendere la distanza nelle due impostazioni, infatti, sta nell’individuare ciò con cui l’esperienza percettiva deve essere messa in relazione. La concezione internalista, infatti, tende a connettere la percezione solo con la sostanza cerebrale: l’esperienza del soggetto nella percezione è dovuta esclusivamente ai processi cerebrali che decodificano gli input esterni. In questo modo, allora, afferma Alva Noë ricostruendo il pensiero di quanti sostengono questa posizione, la coscienza sarebbe ciò che accade nel cervello più o meno come la digestione avviene nello stomaco:
Essi tendono a pensare che la coscienza, qualunque sia la sua spiegazione ultima, debba essere qualcosa che accade da qualche parte e in un qualche tempo nel cervello umano, così come la digestione accade all’interno dello stomaco[24].
Sorprendentemente questa è proprio l’immagine usata da Bergson per argomentare contro quanti credono sia possibile spiegare l’esperienza cosciente semplicemente attraverso l’analisi dei processi cerebrali:
Talvolta sentiamo dire: “In noi la coscienza è legata a un cervello; dunque, bisogna attribuire la coscienza agli esseri viventi che hanno un cervello, e negarla agli altri”. Ma vi accorgerete subito del vizio di quest’argomentazione. Ragionando nello stesso modo, potremmo anche dire: “In noi la digestione è legata a uno stomaco; dunque, gli esseri viventi che hanno uno stomaco digeriscono, e gli altri non digeriscono”. In questo caso ci sbaglieremmo di grosso perché, per digerire, non è necessario possedere uno stomaco, e neppure possedere degli organi: un’ameba digerisce, nonostante non sia altro che una massa protoplasmatica appena differenziata. Tuttavia, man mano che il corpo vivente si complica e si perfeziona, il lavoro si divide; alle diverse funzioni sono assegnati organi differenti; e la facoltà di digerire si localizza nello stomaco e, più in generale, in un apparato digerente che la assolve nella maniera migliore, non dovendo fare nient’altro. Allo stesso modo, nell’uomo la coscienza è incontestabilmente legata al cervello; ma non ne consegue che un cervello sia indispensabile alla coscienza[25].
Il filosofo francese aveva già detto chiaramente in Materia e memoria che, sebbene sia incontestabile una solidarietà stringente tra i mutamenti della nostra percezione cosciente e quelli della sostanza cerebrale, al tempo stesso da questa solidarietà non ne può discendere una riduzione esplicativa della prima alla seconda. Difatti, a giudizio di Bergson, «il sistema nervoso non ha nulla di uno strumento che servirebbe a fabbricare o anche a preparare delle rappresentazioni»[26] e il cervello è come un «una specie di centralino telefonico»[27] che riceve movimento e fa partire la risposta a tempo debito: più è ampia l’esitazione della risposta tanto più grande sarà la quantità di libertà dell’organismo in oggetto, il quale supererà quella soglia atopica oltre la quale l’esperienza diventa mia. Ma in ogni caso tale organo non costruisce alcuna immagine del mondo fuori.
Non diciamo dunque che le nostre percezioni dipendono semplicemente dai movimenti molecolari della massa cerebrale. Diciamo che variano con essi, ma che questi stessi movimenti restano inseparabilmente legati al resto del mondo materiale. Allora non si tratta più soltanto di sapere come le nostre percezioni si riallaccino alle modificazioni della sostanza grigia. Il problema si allarga, e si pone così in termini molto più chiari[28].
Se si vuole comprendere l’esperienza cosciente, in altri termini, bisogna immettere tale fenomeno nell’insieme delle sue connessioni col resto del mondo, pena il fraintendimento da cima a fondo dell’oggetto in questione. In Materia e memoria, Bergson non fa che affrontare la questione del rapporto tra lo spirito e il corpo esattamente a partire da questo spostamento d’asse teoretico. Tale approccio euristico, a nostro avviso, anticipa nelle riflessioni del filosofo francese l’orientamento dell’esternalismo contemporaneo in filosofia della mente; un’anticipazione alla quale finora, a parere di chi scrive, non è stata data la giusta attenzione. Per Bergson, la coppia di termini cui far riferimento per spiegare la relazione spirito-corpo non è coscienza/cervello, ma coscienza/mondo. Questo ci permette subito di mettere in relazione il discorso di Bergson con l’esternalismo tout court. Qual è, infatti, il cuore dell’ipotesi esternalista? Che l’esperienza sia più estesa del sistema nervoso. E ciò è quanto il pensatore francese sembra ammettere apertamente.
Si considera la pura percezione? Facendo dello stato cerebrale l’inizio di un’azione e non la condizione di una percezione, noi rigettavamo le immagini percepite delle cose fuori dall’immagine del nostro corpo; rimettevamo dunque la percezione nelle cose stesse. Ma allora, se la nostra percezione fa parte delle cose, le cose partecipano della natura della nostra percezione. L’estensione materiale non è più, non può più essere quella molteplice estensione di cui parla la geometria; assomiglia piuttosto all’estensione indivisa della nostra rappresentazione. Sarebbe come dire che l’analisi della pura percezione ci ha lasciato intravedere nell’idea di estensione un possibile avvicinamento tra l’esteso e l’inesteso[29].
Il discorso di Bergson, in sostanza, mira a ridiscutere i due pilastri “indiscutibili” sui quali si regge il dualismo attribuito alla tradizione cartesiana: l’inestensione dello “spirito” da un lato, e il carattere spaziale dell’estensione della materia. Ancora, si badi bene: Bergson non dice semplicemente che la percezione è nelle cose. In questo caso, infatti, potremmo forse avvicinare la concezione bergsoniana a quella del Dasein che ek-siste necessariamente in-der-Welt dell’ermeneutica esistenziale heideggeriana o della fenomenologia in generale. Bergson, invece, dice che la percezione, pensata per così dire nella sua “purezza”, è parte delle cose. Si tratta di un’ipotesi alquanto eccentrica a una prima lettura. La percezione non è forse, come insegnava Kant, la modificazione dello spirito da parte di un oggetto (Gegestand) dato che, per così dire, “preme” sui nostri organi percettivi ed è responsabile dell’insorgere, in noi, della rappresentazione? La percezione, cioè, non è fin dal suo sorgere, e poi lungo tutto il suo dispiegarsi, qualcosa del soggetto (genitivo possessivo)? A questo punto, un’immagine elaborata dallo stesso Bergson può forse venire in soccorso al nostro sforzo di comprendere e aiutarci a penetrare nel suo discorso.
Figura 1
Il punto S è, nello stesso tempo, sia un punto del piano P (il piano dell’insieme delle immagini, della “materia”), sia vertice del cono SAB, che rappresenta la dimensione, per così dire, immateriale dello spirito. S è il punto d’intersezione che fa da trait d’union tra lo spirito e la materia nel quale si situa l’atto della “percezione pura”. La materia e lo spirito, in un punto sono assolutamente identici, coincidono, sono consustanziali, oppure ― come ha ben detto Adriano Pessina ― si può dire anche che nella percezione pura «c’è continuità tra percepito e percipiente». Come detto, Bergson rivede da cima a fondo l’impostazione dualista dell’esperienza di ascendenza cartesiana: se il principio spirituale e quello materiale sono ab initio concepiti come separati, infatti, il problema della loro unione (questione che è al centro delle ricerche di Materia e memoria) sarà essenzialmente irrisolvibile. Secondo Bergson, infatti, la difficoltà di articolare una teoria dell’esperienza plausibile discende direttamente dal considerare «la materia come essenzialmente divisibile e ogni stato d’animo come rigorosamente inesteso»[30]. Ma, ancora, cosa vuole dirci Bergson aggiungendo l’aggettivo “puro” a “percezione”? Cosa distingue la “percezione pura” dalla percezione così com’è comunemente intesa? La percezione pura, afferma Bergson, esiste più di diritto che di fatto; a essa si arriva decostruendo l’esperienza vissuta del soggetto ed è dunque definibile come limite trascendentale (Grenze) dell’esperienza. Come insegnano le complesse analisi svolte in Materia e memoria, che qui non possiamo riprendere[31], la percezione, nel suo concreto esercizio quotidiano, è sempre intrisa di ricordi: l’elemento “soggettivo” dell’esperienza, insomma, ciò che la costituisce in quanto mia, è inoculato dal ricordo, così come afferma chiaramente il filosofo francese: «la coincidenza della percezione con l’oggetto percepito esiste più di diritto che di fatto. Bisogna tener conto del fatto che il percepire finisce con l’essere soltanto un’occasione per ricordare»[32]; ma «la mia percezione, allo stato puro, è isolata dalla mia memoria, non va dal mio corpo agli altri copri: è, all’inizio, nell’insieme dei corpi, poi, a poco a poco, si limita e adotta il mio corpo come centro»[33]. Come ha spiegato Ronchi, infatti, e guardando allo schema che abbiamo riportato in precedenza, di fatto S è sempre in rapporto con il cono di cui è vertice.
Come tale non è mai dato, se non in quanto già sempre riflesso in un circuito della memoria […] Se allora la percezione pura deve essere intuita in S come tale, comprendiamo la necessità di quell’aggettivo che la specifica rispetto alla percezione in generale: essa è pura perché esiste di diritto piuttosto che di fatto[34].
Bergson, in sostanza, afferma perentoriamente un originario radicamento esterno della percezione. “Pura”, infatti, va inteso in senso kantiano: pura è la percezione che sta prima dell’esperienza in quanto egologicamente modalizzata. Si dà quindi un punto di coincidenza spirito-materia nel quale questi due “lati” dell’esperienza sono la medesima cosa. Ma tale punto, difficilissimo da pensare, non è, per così dire, a disposizione nel suo “in quanto”. Se si tratta, lo abbiamo visto, di qualcosa che esiste di diritto piuttosto che di fatto, se siamo in presenza di un concetto limite (Grenze), allora tale punto di contatto è assolutamente atopico e incirconscrivibile da parte dell’esperienza soggettiva. Rispetto a quanto detto finora, c’è un altro passo di Materia e memoria che ci sembra abbia una grande valenza esplicativa e questo giustifica la lunghezza della prossima citazione.
Si prenda, per esempio, un punto lumunoso P, i cui raggi agiscono sui differenti punti a, b, c della retina. […] Provvisoriamente limitiamoci a dire, senza troppo approfondire qui il senso delle parole, che il Punto P rinvia alla retina delle vibrazioni luminose. […] Ora, io vedo che le vibrazioni trasmesse dal punto P ai diversi corpuscoli retinici sono condotti ai centri ottici sottocorticali e corticali, spesso anche a degli altri centri, e che questi centri a volte trasmettono a dei meccanismi motori, a volte le arrestano provvisoriamente […]. Si potrà dire, se si vuole, che l’eccitazione, dopo aver percorso questi elementi, dopo aver raggiunto il centro, qui si converte in un’immagine cosciente che in seguito è esteriorizzata nel punto P. Ma, esprimendosi così, ci si piegherà semplicemente alle esigenze del metodo scientifico; non si descriverà affatto il processo reale. In realtà non c’è un’immagine inestensiva che si formerebbe nella coscienza ed in seguito si proietterebbe in P. La verità è che il punto P, i raggi che emette, la retina, e gli elementi nervosi interessati, formano un tutto solidale, che il punto luminoso P fa parte di questo tutto, e che è proprio in P, e non altrove, che l’immagine di P è formata e percepita[35].
Anche da questo testo, si può comprendere quanto il nostro autore sia in sintonia, a nostro avviso, con quanto ci pare essere il presupposto concettuale di ogni tipo di esternalismo: lo studio della relazione tra lo spirito e la materia non deve affatto ridurre la “materia” presa in considerazione al cervello, bensì guardare all’intero campo d’esperienza del soggetto. Il polo materiale della dualità spirito-materia, insomma, per Bergson ― così come per l’esternalismo ― non è riducibile all’organo cerebrale ma va allargato all’ambiente in cui il soggetto è inserito. La genesi dello “spirito”, in altri termini, comunque la si voglia spiegare, è per Bergson direttamente e costitutivamente legata all’interazione tra l’individuo e il mondo circostante.
Se lo scrupolo filologico e metodologico ci impedisce di individuare nel discorso del filosofo francese tutti gli elementi per una vera e propria teoria della “mente estesa”, pretesa che sarebbe certamente azzardata, al tempo stesso la vicinanza tra i presupposti teorici di quest’ultima e il discorso bergsoniano è a nostro avviso solidamente supportabile.
- Bergson e l’enattivismo
Se la valorizzazione del “mondo” in ordine alla genesi della nostra esperienza mentale è così forte nella riflessione bergsoniana, come abbiamo cercato di mostrare fin qui, non sorprende che il nostro autore dedichi in Materia e memoria grande attenzione al “corpo”, visto quale Leib, corporeità viva e in commercio costante con un ambiente che, lungi dall’essere già dato, si struttura proprio in forza di tale commercio, fino ad affermare che «gli oggetti che circondano il mio corpo riflettono l’azione possibile del mio corpo su di essi»[36], e cioè a sostenere che percepire un oggetto e definire le linee della mia azione possibile su di esso sono il medesimo atto, anticipando così, a nostro avviso, l’orientamento teoretico fondamentale dell’Embodied cognition e, in particolare, dell’enattivismo.
Per Bergson, infatti, il modo di presentarsi del percetto è direttamente influenzato dalla modalità di interazione, di stampo pragmatico, con esso giocata dal soggetto. Secondo il filosofo francese, gli oggetti «rinviano al mio corpo, come farebbe uno specchio, la sua eventuale influenza: si ordinano secondo le capacità crescenti o decrescenti del mio corpo»[37]; gli oggetti, allora, se facciamo bene attenzione a questa interessante frase di Bergson, non “premono” sull’apparato percettivo del soggetto immerso nell’ambiente investendolo con una molteplicità di sensazioni organizzate dall’intelletto secondo concetti o categorie; Bergson dice che nell’interazione percettiva gli oggetti già «si ordinano» (ils s’ordonnent). Sensi e intelletto, allora, sono già da sempre circolarmente congiunti: la percezione è già ordinatrice, è già portatrice di intelligibilità.
Vedere un oggetto, in altre parole, vuol dire già immaginarsi l’azione potenziale che lo coinvolgerà e, simultaneamente, immaginare un’azione potenziale vuol dire, propriamente, vedere un oggetto: l’azione fa vedere. In quest’ottica, Bergson ridefinisce in tono pragmatico la materia e la percezione: «Chiamo materia l’insieme delle immagini, e percezione della materia queste stesse immagini riferite all’azione possibile di una certa immagine determinata, il mio corpo»[38]. Anche per Bergson, insomma, è la costante interazione sensomotoria individuo-ambiente a garantire, propriamente, il fatto che si dia esperienza di un “mondo”. In tempi recenti, le analisi di Rizzolatti e Sinigaglia hanno messo in luce una dinamica simile. Nel caso della conoscenza di una tazzina di caffè
l’estrapolazione e l’elaborazione delle informazioni sensoriali relative alla forma, alla taglia e all’orientamento del manico, del bordo superiore, ecc. rientrano nel processo di selezione delle modalità di presa, suggerendo la serie di movimenti (a cominciare da quelli relativi alla prefigurazione della mano) che di volta in volta intervengono nell’atto di afferrarla. Il successo o il fallimento di quest’ultimo dipenderanno da numerosi fattori, tra i quali anche la nostra capacità di eseguire e di controllare i singoli processi motori richiesti – ma ciò non toglie che la tazzina funga nell’uno come nell’altro caso da polo d’atto virtuale, che per la sua natura relazionale definisce ed è insieme definito dal pattern motorio che viene ad attivare[39].
La mia percezione, allora, stando a quanto affermato, è essenzialmente pragmatica: l’uso potenziale di un oggetto condiziona in modo indiscernibile la percezione dello stesso. Il soggetto, dunque, si muove nel mondo secondo la modalità di colui che ha da agire e proietta nello spazio circostante la luce della sua azione potenziale, grazie alla quale, letteralmente, vede le cose. Un soggetto siffatto non ha forse il medesimo statuto che a suo tempo Bergson gli aveva assegnato in Materia e memoria? Anche per il nostro autore, infatti, come abbiamo visto, il corpo in azione, letteralmente, “fa vedere” le cose o, più precisamente, è responsabile del costituirsi di un “mondo” per un soggetto. Gli oggetti che mi circondano, come abbiamo visto, «riflettono l’azione possibile del mio corpo su di essi»: è il legame pragmatico col mondo ― che è sempre “fungente”, si direbbe adoperando il dizionario della fenomenologia ― a favorire il distacco dei singoli enti dall’insieme delle immagini, a perimetrare nel flusso della vita, che è molteplicità indivisa, questo o quell’oggetto, il tutto in vista del maggiore adattamento all’ambiente di quell’essere vivente sempre in divenire che io sono. È difficile ignorare la grande vicinanza tra la posizione sopra riportata e quanto affermato da Bergson negli ultimi passi citati. Se Rizzolatti e Sinigaglia definiscono la tazzina come «un polo d’atto virtuale», Bergson aveva parlato di «azione possibile» (action possible) riflessa dagli oggetti in direzione del soggetto.
Ma le riflessioni di Bergson sul corpo e sul suo ruolo nella costituzione dell’esperienza cosciente si spingono ancora più a fondo. Se, infatti, il soggetto si colloca nel mondo come “individuo” distinto dal resto degli enti in funzione della sua azione potenziale e dunque sempre in rapporto al proprio corpo, possiamo dedurne che il soggetto in quanto individuo che fa esperienza di un mondo, sia dato anzitutto dal corpo vivo e secondariamente dalla coscienza di sé. Per Bergson, infatti, sembra che l’aurora della soggettività coincida, in senso ontologico, con la nascita dell’azione possibile sulle immagini, azione riferita, quanto alla sua attività, a quell’altra immagine sui generis che chiamo il “mio corpo”:
Gli psicologi che hanno studiato l’infanzia sanno bene che la nostra rappresentazione incomincia in forma impersonale. È a poco a poco, e a forza di induzioni, che essa adotta il nostro corpo come centro e diventa la nostra rappresentazione. Il meccanismo di questa operazione è d’altronde facile da comprendere. Via via che il mio corpo si sposta nello spazio, tutte le altre immagini variano; questa, al contrario, resta invariabile. Io devo quindi farne proprio un centro, al quale riferirò tutte le altre immagini. […] Dapprima c’è l’insieme delle immagini; in questo insieme ci sono dei “centri d’azione”, contro cui sembrano riflettersi le immagini interessanti; è così che nascono le percezioni e che si preparano le azioni. Il mio corpo è ciò che prende forma al centro di queste percezioni; la mia persona è l’essere a cui bisogna riferire queste azioni[40].
Se, dunque, normalmente, sembra sia possibile dire «io» poiché si dà una coscienza di sé che, insieme, sa di avere un corpo distinto dagli altri, per Bergson le cose vanno rovesciate: il processo di individualizzazione passa dal corpo per poi, secondariamente, divenire il portato di un’autocoscienza.
Raccogliendo le conseguenze di quanto detto finora, desideriamo avanzare un’ulteriore riflessione di carattere ontologico. Se, per Bergson, lo abbiamo visto, si ha tanto più “mondo” quanto maggiore è il raggio virtuale d’azione del nostro corpo, allora è proprio la finitezza del corpo vivente il fondamento di possibilità del darsi del mondo. Secondo Ronchi, infatti
Heidegger non si esprimerà diversamente da Bergson, quando porrà la finitezza a fondamento della comprensione dell’essere che caratterizza quell’ente che noi stessi sempre siamo […] Ma interpretando in senso decisamente biologico questa finitezza, come indeterminazione della risposta motrice che “affetta” in gradi diversi il vivente, Bergson, a differenza di Heidegger, non ha difficoltà ad estendere, per così dire, la condizione di Dasein e di in-der-Wel-sein al vivente come tale. Il vivente è Dasein[41].
In base a quanto detto, in altri termini, Bergson avrebbe “biologizzato” la finitezza che Heidegger attribuiva esclusivamente al Dasein inteso come attore antropologico: la realtà si disvela per un corpo finito che sempre ha da fare il suo proprio essere. Non è questo, in fondo, quanto afferma, inconsapevolmente o consapevolmente, l’enattivismo contemporaneo, quando fa del corpo vivente in azione il principio costituente del “mondo”? Non è qui, per così dire, retrocessa al corpo quella finitezza che per l’autore di Sein und Zeit costituiva la possibilità del disvelamento dell’essere? Ascoltando la lezione bergsoniana, insomma, crediamo che l’esito propriamente ontologico cui, a nostro avviso, dovrebbe condurre la coerenza interna delle tesi dell’enattivismo contemporaneo sul corpo sia il seguente: il corpo è il luogo originario del disvelarsi della verità dell’essere. Anche qui, come in precedenza, i testi di Materia e memoria offrono significative anticipazioni assai poco valorizzate: la vulgata di un Bergson “spiritualista” – in altri termini strenuo difensore dei “diritti” dello spirito in polemica col riduzionismo della psicologia scientifica del suo tempo – ha probabilmente reso cieca buona parte della letteratura contemporanea in filosofia della mente, molto attenta al dialogo con le neuroscienze, rispetto agli spunti offerti dal pensiero bergsoniano su questi temi.
- Conclusioni
All’inizio di questo contributo, ci eravamo proposti di provare a mostrare una concordanza tra la teoria dell’esperienza tracciata da Henri Bergson in Materia e memoria e i fondamentali orientamenti teoretici dell’esternalismo contemporaneo in filosofia della mente, e in particolare con l’enattivismo. Il discorso fin qui sviluppato ci ha permesso di individuare nello spostamento d’asse teorico operato da Bergson rispetto allo studio del rapporto spirito/materia ― dall’analisi della relazione coscienza/cervello a quella coscienza/mondo ― un punto che a noi pare di evidente raccordo tra le due prospettive. Se l’attenzione della maggior parte degli studiosi coevi al filosofo francese si era concentrata sulla relazione tra la coscienza e il sostrato neurale, il nostro autore cambia totalmente il campo d’indagine: lo studio della relazione tra lo spirito e la materia non deve affatto ridurre la “materia” presa in considerazione al sostrato cerebrale, bensì guardare all’intero campo d’esperienza del soggetto. Allo stesso modo, negli ultimi decenni, nell’ambito della filosofia della mente si sta assistendo alla medesima transizione: da un approccio internalista a quello esternalista, per il quale la mente non è qualcosa che accade “dentro la testa” ma dipende costitutivamente dal mondo esterno e spinge dunque a guardare all’intrico di rapporti tra quest’ultimo e il soggetto se si vuole costruire una teoria esplicativa adeguata al fenomeno mentale.
Il punto decisivo per cogliere il nesso teoretico fondamentale tra le teorie bergsoniane e l’attuale paradigma “esternalista” della filosofia della mente è questo: per entrambi il rapporto da indagare non è quella tra la coscienza e il cervello ma tra coscienza e resto del mondo. Quando Bergson afferma che «il punto P, i raggi che emette, la retina, e gli elementi nervosi interessati, formano un tutto solidale, che il punto luminoso P fa parte di questo tutto, e che è proprio in P, e non altrove, che l’immagine di P è formata e percepita» non fa altro che suggerire lo stesso spostamento additato dall’esternalismo contemporaneo: non è sufficiente guardare “dentro la testa” ma è necessario cogliere il soggetto nel suo ambiente, perché la percezione ab origine è radicata esternamente. In quest’ottica, grande rilevanza all’interno dell’approccio esternalista, è dato allo studio delle interazioni sensomotorie tra il soggetto e l’ambiente: anche in questo caso, accennando al contributo del filosofo americano Alva Noë, abbiamo potuto mettere in luce una convergenza teoretica, a nostro avviso alquanto vistosa, tra il discorso bergsoniano e alcune delle teorie più aggiornate della filosofia della mente contemporanea, in riferimento, ad esempio, all’importanza accordata alla tonalità pragmatica dell’esperienza, all’avvicinamento tra percezione e azione, e, in senso ampio, alla considerazione del soggetto/organismo inserito nel suo ambiente quale locus d’origine di ogni esperienza mentale. Una serie di contiguità che abbiamo potuto mostrare nelle loro linee essenziali e che, a parere di chi scrive, attendono di essere ulteriormente esplicitate in tutta la loro portata teoretica.
[1] La “filosofia della mente” si occupa specificatamente del body-mind problem, si interroga cioè sulle funzioni mentali e sul loro statuto ontologico, in particolare indagando i rapporti tra quelle e il sostrato neuronale. Evidentemente si tratta di un campo di ricerca a forte carattere interdisciplinare, nel quale è fondamentale il rapporto con tutti gli altri saperi afferenti all’insieme delle scienze cognitive. Queste ultime sono sovente confuse con le neuroscienze; la sovrapposizione è favorita dai numerosi ed estesi punti di intersezione tra i due ambiti. Tuttavia “scienza cognitiva” e “neuroscienza” non sono propriamente la stessa cosa. Le scienze cognitive, nel loro complesso, mirano a capire il funzionamento di un qualsiasi sistema, naturale o artificiale, di ricevere, elaborare e comunicare informazioni (e dunque di manipolare simboli). Le neuroscienze, invece, studiano la mente in rapporto al suo sostrato materiale, ossia il cervello e il sistema nervoso. Su questo Cfr. P. Legrenzi, Prima lezione di scienze cognitive, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. V-VI.
[2] Cfr. A. Clark, D. J. Chalmers, The Extended Mind, in «Analisys», 58, 1998, pp. 7-19.
[3] Cfr. M. Di Francesco, G. Piredda, La mente estesa. Dove finisce la mente e comincia il resto del mondo?, Mondadori, Milano 2012, p. 44.
[4] A. Paternoster, I fondamenti epistemologici della «nuova» scienza cognitiva, in L. Floridi (a cura di), Linee di ricerca, SWIF, 2005, p. 602.
[5] Cfr. U. Neisser, Psicologia cognitivistica (1967), Martello Giunti, Milano 1976, pp. 5-7.
[6] F. Caruana – A. Borghi, Il cervello in azione. Introduzione alle nuove scienze della mente, Il Mulino, Bologna 2016, p. 15.
[7] Cfr. M. Di Francesco, G. Piredda, La mente estesa. Dove finisce la mente e comincia il resto del mondo?, cit., pp. 79-80.
[8] Cfr. F. Caruana – A. Borghi, Il cervello in azione. Introduzione alle nuove scienze della mente, cit., p. 19.
[9] Più che di esternalismo sarebbe meglio parlare di esternalismi, al plurale, data la varietà di indirizzi e sfumature presenti tra gli studiosi. Per una panoramica si veda M. C. Amoretti, La Mente fuori dal Corpo. Prospettive esternaliste in relazione al mentale, Franco Angeli, Milano 2011; M. C. Amoretti, R. Manzotti, Esternalismi, in «Rivista di Filosofia», 103, 1, 2012 pp. 41–67; S. Hurley, The Varieties of Externalism, in R. Menary (ed.), The Extended Mind, MIT Press, Cambridge (MA) 2010, pp. 101-155.
[10] Per un’agile introduzione ai molteplici indirizzi dell’Embodied cognition si veda il contributo di F. Caruana, A. Borghi: Embodied Cognition, una nuova psicologia, in «Giornale Italiano di Psicologia», 1, 2013, pp. 23-48.
[11] Su questo argomento si possono vedere: V. Gallese , L. Fadiga , L. Fogassi, G. Rizzolatti , Action Recognition in the Premotor Cortex, in «Brain», 119, 1996, pp. 593-609; A. Murata, L. Fadiga, L. Fogassi, V. Gallese, V. Raos, G. Rizzolatti, Object Representation in the Ventral Premotor Cortex (Area f5) of the Monkey, in «J. Neurophysiol.», 78, 1997, pp. 2226-2230; V. Gallese, G. Lakoff, The Brain’s Concepts: The Role of the Sensory-motor System in Reason and Language, in «Cognitive Neuropsychology», 22, 2005, pp. 455-479. Si veda anche G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006 e il più recente G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, Specchi nel cervello, Raffaello Cortina, Milano 2019.
[12] È l’interrogativo chiave del contributo di A. Clark e D.J. Chalmers, The Extended Mind (in «Analisys», 58, 1, 1998, pp. 7-19) che ha posto all’attenzione della comunità scientifica internazionale l’ipotesi della “mente estesa”, sulla quale torneremo a breve.
[13] M. Di Francesco – G. Piredda, La mente estesa. Dove finisce la mente e comincia il resto del mondo?, cit., p. 81.
[14] Per l’origine e i fondamenti di questa prospettiva di ricerca si veda F. Varela – E. Thompson – E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza (1991), tr. it. Feltrinelli, Milano 1992.
[15] V. Gallese, Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività. Una prospettiva neuro-fenomenologica, pp. 293-326 in M. Cappuccio (ed.), Neurofenomenologia. Le scienze della mente e le sfide dell’esperienza cosciente, Mondadori, Milano 2012, p. 302.
[16] A. Noë, Action in perception, MIT Press, Boston 2004, p. 1. «Perceiving is a way of acting. Perception is not something that happens to us. It is something we do. […] The world makes itself avaible to the perceiver through physical movement and interaction. […] Perceptual experience acquires content thanks to our possession of bodily skills. What we perceive is determinate by what we do». Traduzione mia.
[17] Ibid., p. 3. «A kind of skillful activity on the part of the animal as a whole». Traduzione mia.
[18] Cfr. A. Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza (2009), tr. it. Cortina, Milano 2010, p.58.
[19] Ibid., p. 63
[20] Ibid., p. 5.
[21] Cfr. ibid., p. 178.
[22] Ibid.
[23] A. Noë, Varieties of presence, Harvard University Press, Cambridge 2012, p. 65. «In the view of experience developed here, perceptions are not about the world; they are episodes of contact with the world. […] According to the actionist (or enactive) direct realism that I am developing here, there is no perceptual experience of an object that is not dependent on the exercise, by the perceiver, of a special kind of knowledge. Perceptual awareness of objects, for actionist-direct realism, is an achievement of the sensorimotor understanding». Traduzione mia.
[24] A. Noë, Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza, cit., p. 4.
[25] H. Bergson, L’energia spirituale (1919), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 7.
[26] Id., Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra lo spirito e il corpo (1896), tr. it. Laterza, Roma-Bari 2009, p. 24.
[27]Ibid., p. 23.
[28]Ibid., p. 19.
[29]Ibid., p. 153.
[30] Ibid., pp. 184-185.
[31] Si vedano in particolare i capp. 2 e 3 dell’opera.
[32] Ibid., p. 53.
[33] Ibid., p. 49.
[34] R. Ronchi, Bergson. Una sintesi, Marinotti, Genova 2011, p. 94.
[35] H. Bergson, Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra lo spirito e il corpo., cit., pp. 33-34.
[36] Ibid., p. 16.
[37] Ibid.
[38] Ibid., p. 17.
[39] G. Rizzolatti – C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, cit., p. 47.
[40] H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 37.
[41] R. Ronchi, Bergson. Una sintesi, cit., p. 104.