Nell’ultimo anno sono state prodotte e distribuite molte pellicole che raccontano la cosiddetta era dell’uomo, l’Antropocene. Due in particolare, le pluripremiate Anthropocene: The Human Epoch (2018) e L’Homme a mangé la Terre (2019) – rispettivamente di Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier e Edward Burtynsky e del regista francese Jean-Robert Viallet – si concentrano sul tema della responsabilità e, in particolare, della responsabilità politica. Ricostruendo la storia degli ultimi decenni i film mostrano come la crisi ambientale sia strettamente collegata non solo a strategie di carattere produttivo, alla sempre maggiore e sregolata produzione di beni, alla velocizzazione dei trasporti, al consumo di suolo e di risorse primarie, ma anche alla guerra, nelle forme della guerra economica, della competizione tra Paesi o blocchi di Paesi contrapposti – in particolare Viallet mostra il nesso tra accelerazione tecnologica e inasprimento dei rapporti tra Urss e Usa nel corso della Guerra Fredda – e, infine, dello scontro bellico propriamente detto.
Nel suo ultimo lavoro Razmig Keucheyan (di cui ospitiamo un’intervista in questo numero di Scienza&Filosofia), docente di Sociologia presso l’Università di Bordeaux, inserisce la sua riflessione sulla crisi ecologica in questo solco. Ragionando sull’Antropocene in un’ottica che, come notiamo fin dal titolo, rimarca la sua natura politica e militare, Keucheyan esamina le ricadute etiche delle trasformazioni tecnologiche e dell’intervento sempre più massiccio e predatorio dell’uomo sulla natura. Anche Keucheyan sottolinea, come Viallet e Baichwal, de Pencier e Burtynsky, la necessità di rimettere al centro la questione della responsabilità, ma lo fa rifiutando l’idea che sia l’umanità nel suo complesso a dover essere messa sotto accusa. La tesi portata avanti in questo libro è che ci sia una netta separazione tra responsabili e vittime della crisi ecologica, separazione che ricalca quella che Du Bois ha definito linea del colore (ma che, in senso ampio, possiamo leggere anche come linea del genere e della classe).
Il testo di Keucheyan tiene assieme due piani di discorso. Il primo ricostruisce le tappe della messa a profitto del “capitale naturale”, le dinamiche di potere, i costi umani – in termini di salute e qualità della vita, nel loro senso più ampio. L’altro riguarda la narrazione, la rappresentazione, nel dibattito culturale e nei circuiti mediatici mainstream, del disastro ecologico. In particolare, riguardo a questa seconda traccia, l’autore tiene a sottolineare l’inefficacia, se non la pericolosità, di una retorica che descrive la crisi ambientale come tragedia che colpisce e coinvolge l’intero genere umano e che sarebbe dunque «capace di far emergere le condizioni di un’azione comune dell’umanità» (p. 11). Dipesh Chakrabarty ha sostenuto che, a differenza di quanto accade nelle crisi economiche, di fronte al disastro ecologico non ci sono scialuppe di salvataggio per i privilegiati. A questa lettura e all’ipotesi di una possibile azione comune, Keucheyan contrappone la necessità della radicalizzazione degli antagonismi sociali. La logica dell’intersezionalità, che ha orientato parte del dibattito politico, culturale e sociale degli ultimi anni, deve aprirsi a una nuova (quarta) dimensione, quella della natura.
La costruzione di un movimento per la giustizia climatica passa così anzitutto per la messa in luce del debito ecologico che i Paesi del Nord del mondo hanno contratto con quelli del Sud, che i ricchi hanno contratto con i poveri, gli uomini con le donne. Per Keucheyan evento rivelatore per eccellenza di questo debito ecologico e del razzismo ambientale è l’uragano Katrina che nel 2005 ha sconvolto l’area di New Orleans. Può un fenomeno naturale essere “razzista”? Sì, sostiene ironicamente il sociologo francese, se, come mostra questo episodio tragico, i più colpiti, quelli che sono stati soccorsi meno accuratamente e con più ritardo sono stati gli afroamericani e, in particolare, gli afroamericani delle classi popolari.
«Le disuguaglianze ecologiche, di cui il razzismo ambientale è una forma, rimandano a un’idea semplice: il capitalismo presuppone e crea allo stesso tempo delle disuguaglianze nel rapporto che gli individui e i gruppi di individui hanno con l’ambiente» (p. 37), come per Moore, anche per Keucheyan il rapporto con l’ambiente è – in tutte le declinazioni che questa espressione può avere – un rapporto di capitale. Resta da comprendere perché questa implicazione sia così poco indagata nell’ambito del dibattito politico e culturale e perché la questione ecologica venga frequentemente affrontata come a sé stante. Se la natura appare “esterna” ai rapporti di capitale e ai rapporti sociali, sottolinea Keucheyan, è perché il suo spazio viene prodotto – nel senso di Lefebvre – come separato, autonomo. Le associazioni ambientaliste tradizionali hanno riconosciuto con fatica, nei decenni passati, il nesso tra dimensione economico/sociale e ecologica, il movimento operaio, dal canto suo, ha avuto fin dalle origini un rapporto ambiguo con le tematiche legate all’ambiente, individuando spesso un’opposizione tra possibilità di preservare la natura e opportunità di piena occupazione e di sviluppo produttivo. È allora doppiamente necessario per Keucheyan alimentare un dibattito sui temi ecologici che superi la separatezza, se non addirittura l’opposizione, tra questione ambientale e giustizia sociale. Bisogna costruire discorsi pragmatici sulla crisi ambientale che non la separino da quella sociale, che inducano all’azione, che sollecitino la dimensione etica senza divenire paralizzanti, senza indurre i soggetti a rinchiudersi nell’impegno individuale o, ancor peggio, a abbandonarsi alla disperazione che si prova quando si ha la sensazione che, ormai, sia “tutto perduto”.
La filosofia del Novecento – si pensi ad esempio alla riflessione di Arendt, Anders, Canetti – di fronte alla rapida evoluzione della tecnica e all’impatto dell’attività antropica sul mondo, all’abnorme e all’imponderabile che si erano manifestati nell’impiego dell’atomica, emblema della dismisura umana, si era interrogata sul nesso tra prevedibilità e responsabilità. Keucheyan, sulla scorta di Giddens, Habermas, Ewald e Beck, ripensa questa implicazione a partire dal tema dell’imprevedibilità del rischio. «Nella postmodernità, alcuni rischi sono diventati così costosi da non essere più assicurabili secondo i criteri dell’assicurazione moderna. Sfuggono al controllo degli esseri umani anche quando sono stati creati da loro» (p. 81) «alla fine del XIX secolo comincia a profilarsi l’idea che gli incidenti e gli altri imprevisti sul luogo di lavoro non siano imputabili a qualcuno, che dipendano da un rischio insito nell’attività industriale (…). Diversamente dalla responsabilità, il rischio non è il prodotto di nessuna intenzionalità, è un principio impersonale» (p. 83). Nella rappresentazione attuale della crisi ambientale la sostituzione della responsabilità collettiva e individuale (personale) con il rischio (impersonale) inibisce la possibilità di costruire quel fronte comune necessario a impedire la messa a profitto la natura, a ripensare globalmente le strategie di sopravvivenza per il pianeta, e per l’uomo.
La ridefinizione del rapporto tra uomo e natura è dunque strettamente collegata a quella del rapporto degli uomini (e delle donne) fra di loro, così come sono implicate l’un l’altra la giustizia ambientale e quella sociale, la sfida e la crisi ecologica e quella politica. Ne Il principio di responsabilità (1979), Jonas suggerisce che, in un futuro non troppo lontano, l’umanità potrebbe pagare la sua salvezza dall’annientamento fisico a caro prezzo, con la moneta della libertà. Il pericolo è che si configuri una situazione per cui solo una tirannia, una dittatura benevola potrà inibire l’uomo a continuare a arrecare danni irreparabili all’ambiente e dunque a se stesso, compromettendo le possibilità di sopravvivenza sue e delle generazioni future (p. 121). Keucheyan, seguendo l’ipotesi di Jonas, si interroga su chi, in mancanza di sbocchi alternativi, di fronte a questa congiuntura critica, possa essere adeguatamente preparato al compito e assumere il potere. Non certo l’élite politico/finanziaria, sempre più incline a un «breve-terminismo che la rende incapace a inserire il cambiamento climatico il cambiamento climatico nei suoi calcoli» (p. 119). Solo i vertici militari e i loro apparati sembrano essere in grado, attualmente, di pianificare la loro azione su un arco temporale medio-lungo, di trenta/cinquanta anni, «nulla fa pensare a priori che questa tirannia sarà militare. Ma il grado di preparazione delle forze armate di fronte alla crisi ecologica suggerisce che potrebbero essere dei seri candidati per assumere il comando. L’adattamento al cambiamento ambientale, in ogni caso, richiederà una dimensione militare decisiva» (p. 121). In quest’ottica – seguendo un ragionamento certo inquietante nel suo catastrofismo, ma non implausibile – la crisi ambientale si configura come crisi dell’umano non solo nel senso della zoé, ma anche del bios. Con il disastro ecologico non si mette in pericolo la “sola” sopravvivenza fisica, ma, prima ancora, la vita politica – intesa come libertà, piena capacità e possibilità di decisione – del genere umano.
A meno che, auspica Keucheyan, proprio i soggetti più colpiti dalla crisi ecologica non facciano fronte comune e, cambiando i rapporti di forza e ripensando le politiche sociali e ambientali, si facciano carico di questo compito e scrivano un finale diverso della storia. Insomma, ecologismo o barbarie.
Viola Carofalo
S&F_n. 21_2019