S&F_scienzaefilosofia.it

Il trascendentale e lo storico. Sul ruolo del concetto di primitivo nell’antropologia filosofica di Ernesto de Martino

Autore


Marco Valisano

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Dottorando di ricerca in Scienze Umanistiche presso l’Università di Modena e Reggio Emilia

Indice


  1. Il primitivo come cominciamento logico, non cronologico
  2. L’arcaico come dimensione primigenia dell’umano: a partire da Lévy-Bruhl
  3.  La crisi della presenza come riemersione storica dell’arcaico

↓ download pdf

S&F_n.  20_2018

Abstract


THE TRANSCENDENTAL AND THE HISTORICAL. ON THE ROLE OF THE CONCEPT OF PRIMITIVE IN ERNESTO DE MARTINO’S PHILOSOPHICAL ANTHROPOLOGY


“Primitive” has been a core concept of cultural anthropology for a long time. Its interpretations were, however, manifold. On this background, this paper aims at showing the particular Ernesto de Martino’s non-historical (that is, transcendental) interpretation of this concept. Through an analysis of the role played by the idea of “primitive” in de Martino’s philosophical anthropology an innovative theory on the relation between the transcendental and the historical can, in fact, be found.

  1. Il primitivo come cominciamento logico, non cronologico

In Naturalismo e storicismo nell’etnologia Ernesto de Martino attacca rudemente i «signori etnologi» sul terreno metodologico. L’autore elenca un certo numero di errori concernenti le ricerche etnologiche (che per de Martino sono ricerche storiografiche)[1] condotte in maniera naturalistica, due dei quali risultano di diretto interesse per l’analisi che qui propongo: la «corruzione del cominciamento ideale ed eterno delle categorie nel cominciamento in tempo» e «la ingenua credenza della storia come un passato e come un di fuori»[2]. Il filosofo e antropologo napoletano mirava a correggere questi errori intervenendo polemicamente nel dibattito storico-religioso relativo a quale fosse stata la prima forma di religione nella storia dell’umanità. Non interessa, qui, questo problema in sé e per sé, ma il fatto che de Martino, affrontandolo, esibisca una particolare postura teorica sul tema del primitivo e dell’arcaico.

De Martino asserisce ripetutamente che ciò che è arcaico cronologicamente (per esempio una eventuale prima forma storica di religione) non per forza lo è logicamente: «Ciò che viene prima nel tempo potrebbe essere dal punto di vista logico e storiografico meno “primitivo” di ciò che viene dopo»[3]. L’accertamento cronologico non ci dice niente sulla primitività dei nostri oggetti d’analisi. Bisogna infatti precisare che l’uso che veniva generalmente fatto del concetto di primitivo riguardava solo in apparenza un mero accertamento cronologico, e che in realtà concerneva precisi giudizi di tipo qualitativo su altre forme di vita. In questo contesto l’arcaico assumeva, di volta in volta, caratteri differenti secondo l’interesse dello studioso che utilizzava il concetto: il primitivo poteva essere l’originario ancora incorrotto dal processo storico[4], un prima caratterizzato da una minore evoluzione in senso sociale[5] o, ancora, una differente forma mentis, una tonalità in certo modo irrazionale di cui sarebbero state impregnate le popolazioni oggetto di studio[6]. De Martino quindi doveva anzitutto sgombrare il campo dall’equivoco del criterio cronologico, poiché la discussione sul primitivo non ruotava veramente attorno a giudizi di tipo quantitativo, attorno a un prima e a un poi. Ciascuna posizione mirava infatti, surrettiziamente, a sancire una primitività qualitativa al fine di evidenziarne poi la differenza con la nostra modernità (vuoi per denunciare di questa la decadenza, per magnificarne il progresso o, ancora, per mostrare la differenza della sua ratio da quella arcaica). De Martino, interpretando il primitivo come un cominciamento logico, dà invece alla questione un taglio completamente differente: «[...] restiamo per conto nostro fermi al vero che la religione come categoria (autonoma o non, qui non importa chiarire) non patisce cominciamento nel tempo, ma è sempre stata»[7].

È però necessaria una precisazione. Spesso in de Martino la parola “religione” vive di una ambiguità: da un lato essa denota un prodotto storico, questa o quella religione particolare; dall’altro il termine vuole riferirsi a una dimensione arcaica del religioso in quanto sfera primitiva ed esistenziale. Nella prima accezione la religione non è affatto sempre stata, e non è perciò in questo senso che de Martino qui la intende; la seconda accezione ha invece un altro tipo di inconveniente, poiché incoerente con l’apparato teorico crociano che, per il resto, de Martino senz’altro utilizza con profitto. Il problema è già stato ottimamente trattato da Gennaro Sasso, il quale ha mostrato come, all’interno del sistema crociano, questa aporia risulti letteralmente insanabile[8].

Ma non si tratta, in questa sede, di vagliare se de Martino fosse ortodosso, né se fosse rigoroso (problema che invece ha occupato Sasso), bensì di valutare quale fosse la sua lettura dell’arcaico, e dunque, se vogliamo, della religione in quanto categoria autonoma[9]. Da Naturalismo e storicismo si ricava, a questo riguardo, una chiara posizione: le indagini sul primitivo devono avere un respiro lato sensu antropologico, perché l’arcaico non riguarda ciò che l’uomo fu, ma ciò che il sapiens, dacché esiste, è. Si tratta di un punto importante, perché de Martino, nel prosieguo della sua ricerca, tenterà di cogliere il manifestarsi di questa dimensione arcaica all’interno del processo storico.

 

  1. L’arcaico come dimensione primigenia dell’umano: a partire da Lévy-Bruhl

Tra le concezioni del primitivo con cui de Martino polemizza spicca per importanza quella proposta da Lucien Lévy-Bruhl in un libro del 1927, La mentalità primitiva. Secondo l’autore francese i primitivi sono portatori di una diversa mentalità, che li rende scarsamente capaci di identificare i nessi fisici di causa e di effetto, nonché sostanzialmente indifferenti al principio di non contraddizione[10]. Quella dei primitivi è una «prelogica», ma non nel senso di cronologicamente anteriore, bensì di qualitativamente differente. Si tratta di una logica di tipo partecipativo, in cui tutto partecipa di tutto in un continuo gioco di analogie e richiami: l’immagine è anche il raffigurato, la forma è anche il contenuto, la parte è anche il tutto, il materiale è anche l’oggetto. La logica partecipativa pare muoversi in un continuum percettivo privo di punti di riferimento stabili, dando vita a una dimensione esperienziale propriamente arcaica in cui a fatica si distinguono, nel mondo, delle unità discrete non comunicanti. Nel mondo primitivo ciò che viene primariamente messo a fuoco non è un insieme di oggetti, ma una certa quantità di sostanze[11]. Diviene così possibile che un uomo (la sua sostanza, o meglio: lui in quanto sostanza) sia in due posti contemporaneamente, o che un certo luogo assorba le proprietà degli eventi che vi accadono.

Prima che il lettore si faccia un’idea troppo esotica di questa prelogica, è opportuno mettere a fuoco un punto che de Martino pare avere ben chiaro, ovvero che essa non è estranea al nostro modo “moderno” di stare al mondo. Si prendano alcuni esempi: l’immagine si fonde col raffigurato ogni volta che baciamo la foto dell’amata; la forma si confonde con il contenuto laddove percepiamo come “sinistra” una stanza in cui è stato, tempo addietro, compiuto un delitto; la parte sta per il tutto se ci troviamo a dire che Senna, “al volante”, ci sapeva fare; il materiale significa l’oggetto quando qualcuno dice di adorare “le tele” di van Gogh; una persona può essere in un luogo e contemporaneamente in un altro ogni qual volta, pur sapendola altrove, ne avvertiamo la presenza e ci sentiamo da lei osservati[12].

Ne La mentalità primitiva Lévy-Bruhl distingue in maniera netta la logica partecipativa dalla nostra, anche se qualche anno più tardi sentirà il bisogno di rivedere questa posizione in maniera sostanziale[13]. Tuttavia, nel frattempo, ecco che de Martino definisce come una illusione il fatto che la legge di partecipazione sia cosa «diversa dal principio di identità nel suo uso pratico», illusione che «riposa sul presupposto dualistico di una natura fisica come sistema in sé di identità, di esclusioni e di relazioni contrapposto a un intelletto capace di percorrerlo»; legato a questo primo presupposto illusorio ne sta poi un altro, ovvero «che la sistemazione ordinaria della natura da parte dell’uomo culto sia assoluta e obiettiva»[14]. Non esistono quindi, per de Martino, oggetti dati che il nostro intelletto avrebbe solo il compito di porre in corretta relazione, ma è il nostro intelletto a produrre gli oggetti attraverso l’organizzazione di una rete di relazioni analogiche. E questo per un uso pratico.

Prima di procedere conviene fare brevemente il punto, esulando per un momento dal testo demartiniano. Sembra che per de Martino la logica partecipativa di Lévy-Bruhl sia diventata una sorta di soglia di articolazione tra una nuda vita biologica, arcaica, ancora priva di un mondo in cui abitare (questo, infatti, non c’è prima di venire messo in forma dall’intelletto), e una vita storicamente qualificata, in grado di mettere a fuoco una qualche realtà data. La prima dev’essere, a rigore, comune alla specie nel suo insieme; la seconda, invece, solo a una certa comunità, a un certo tipo di forma di vita.

E in effetti negli anni successivi de Martino si dedicherà a indagare la soglia tra queste due “vite”, nel tentativo di comprendere come avviene la messa in forma del reale, questa «pedagogia della funzione identificante nel suo uso pratico»[15]. Nel fare questo, però, si accorgerà presto che, se si considera la realtà come ciò che viene posto attraverso una capacità relazionale (e non da una funzione dell’intelletto che semplicemente ri-conosce oggetti dati), diventa necessario togliere all’Io il suo statuto di realtà data. L’Io diventerà perciò, come tutto il resto del reale, una particolare cristallizzazione storica, non preesistente alle relazioni che la informano. Le condizioni di possibilità dell’esperienza diventeranno oggetto di esperienza e mutamento, e l’Io sarà destinato a una continua dinamica storica di perdita e riscatto. Poiché solo «ciò che è relazionale perde la propria realtà o la ritrova, non le cose»[16].

 

  1. La crisi della presenza come riemersione storica dell’arcaico

Ne Il mondo magico de Martino riprende anzitutto, e in maniera più approfondita, la critica al concetto moderno di realtà, prendendo spunto dalla spinosa questione relativa alla effettiva realtà dei poteri magici[17]. Attraverso l’analisi di un’ampia documentazione antropologica, de Martino decreta l’impossibilità di stabilire l’irrealtà di quei poteri, mettendoci di fronte allo scandalo di una natura culturalmente condizionata[18]: essa sta lì non perché così il mondo è, ma perché così viene prodotto e vissuto.

Ma se si fermasse qui, l’autore non farebbe altro che ribadire, forte di una maggiore cognizione antropologica, le stesse tesi enucleate nel saggio critico su Lévy-Bruhl di qualche anno prima. Invece procede ben oltre e, come accennato, in duplice direzione: da un lato cerca di chiarire la dinamica “pedagogica” attraverso la quale le comunità umane creano mondo, identificandola nelle pratiche magico-rituali; dall’altro afferma che detta pedagogia consente l’entrata nella storia di un Io che, lungi dall’essere il presupposto di ogni prassi umana (ad esempio delle pratiche magiche), è un suo prodotto storico. Questo Io storicamente prodotto (e la cui esistenza, in quanto prodotto storico, non può venire assicurata) viene chiamato da de Martino «presenza». Ma non bisogna intendere questa presenza alla stregua di una qualche identità storica che il soggetto ritiene di essere, bensì, e più radicalmente, come la stessa condizione di possibilità per essere un soggetto agente. Vediamo meglio questo punto.

“Presenza” è un concetto che nelle opere demartiniane successive prenderà anche altre sfumature sostanziali[19], ma che in questo libro del 1948 viene accostato chiaramente all’Io penso kantiano, all’unità dell’appercezione[20]. L’argomentazione del filosofo di Königsberg è nota: l’unità analitica dell’appercezione è, per Kant, la capacità, da parte del soggetto, di identificarsi con se stesso, il suo esser capace di dire “io sono io”. Questo giudizio è analitico, nel senso che il concetto del predicato è già contenuto nel concetto dell’oggetto di cui si predica. La capacità di identificarsi con se stessi troverebbe la propria condizione di possibilità nella relativa facoltà di accompagnare con la proposizione “io penso” ogni mia rappresentazione, e dunque in una primigenia capacità di sintesi tra due elementi eterogenei: “io” e la “mia rappresentazione”. L’unità analitica dell’appercezione deriverebbe dunque necessariamente da una unità sintetica, ovvero esprimibile in un giudizio che non predichi qualcosa di già implicito nel concetto dell’oggetto, ma gli aggiunga qualche cosa (l’essere mia di quella rappresentazione). Stenograficamente: l’identificazione del soggetto con se stesso presuppone la capacità di quel soggetto di attribuirsi ogni rappresentazione come propria, e perciò l’unità sintetica dell’appercezione deve stare giocoforza a garanzia della relativa unità analitica. Siccome questo Io unitario che riconosce ciascuna rappresentazione come propria deve obbligatoriamente stare quale ineludibile presupposto intellettivo di ogni esperienza, Kant parla di unità trascendentale dell’appercezione[21].

De Martino segue Kant fino a che si tratta di definire il concetto di presenza: essa è effettivamente l’“Io penso” presente nella Critica della ragion pura. Ma mentre per Kant esso è il presupposto di ogni esperienza, un trascendentale non soggetto a mutamento, per de Martino è, come abbiamo visto, un prodotto storico, un che di relazionale e non di sostanziale. In quanto tale, a certe condizioni può venire meno. A questo venire veno de Martino dà il nome di «crisi della presenza», crisi che può insorgere in momenti di pericolo fisico, di stanchezza, di solitudine, di percezione dell’inconsueto, e in generale ogni qual volta l’individuo non riesce a padroneggiare la situazione e a gettare una realtà davanti a sé[22]. La crisi si manifesta come collasso di ogni funzione discriminante, come stallo della «funzione identificante nel suo uso pratico»[23], ed è allora che interviene quella pedagogia che in questo libro è rappresentata dagli istituti magico-rituali. Attraverso i sistemi di partecipazione (della parte col tutto, del materiale con l’oggetto, e così via»[24], detti istituti consentono la ripresa della nostra capacità discriminante, ristabilendo di volta in volta le condizioni di possibilità del soggetto. Il trascendentale kantiano, pertanto, viene posto in essere da una prassi storica. Riassumendo la posizione provocatoriamente ossimorica di de Martino, potremmo dire: la presenza, in quanto incerta condizione di possibilità di una qualsivoglia vita qualificata, è un trascendentale storico, un apriori acquisito[25].

La crisi è la rovina delle condizioni di possibilità del soggetto. Ma una dimensione siffatta, in cui il soggetto non può esistere così come non può esistere un mondo, l’abbiamo già incontrata: il primitivo. Sembra perciò lecito intendere la crisi della presenza come riemersione storica di questo strato arcaico dell’umano, riemersione capace di annullare mondo e Io a causa della rovina della «funzione identificante nel suo uso pratico». Le tecniche magico-rituali di riscatto rappresenterebbero, conseguentemente, niente meno che il punto di giuntura primigenio tra una vita non qualificata (la nostra arcaica e sempre stata natura) e una vita che si fa storica; una vita che, parafrasando Günther Anders, viene sempre di nuovo rimessa al mondo[26].

De Martino, com’è noto, rischia di confondere le acque quando parla del magismo come di un’epoca storica, dunque come di un passato[27]. Non che il testo del 1948 si presti, nel suo complesso, solo a questo tipo di lettura[28], ma l’ambiguità risulta a più riprese evidente. Questo punto troverà però precisazione negli appunti postumi pubblicati in La fine del mondo e in Scritti filosofici, nonché nella raccolta Storia e metastoria. In questi lavori il “mondo magico”, con le sue crisi della presenza e i suoi istituti culturali di ripresa, entrerà di fatto e di diritto all’interno del mondo contemporaneo, insinuandosi fin nelle nostre pratiche più abituali[29]. La crisi diventerà un «rischio antropologico permanente»[30], così pervasivo e radicale che un commentatore ha potuto interpretare il riscatto storico della presenza alla stregua di una continua ripetizione dell’antropogenesi[31]. Sarà dunque sui modi ordinari e quotidiani di gestire questo rischio che de Martino, negli ultimi anni, concentrerà la sua attenzione[32].


[1] E. de Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941), Argo, Lecce 1996, p. 218

[2] Ibid., p. 58.

[3] Ibid., p. 227.

[4] W. Schmidt, The Origin and Growth of Religion. Facts and Theories (1930), tr. eng. Methuen & Co. Ltd., London 1935.

[5] J. Frazer, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion (1894), Oxford University Press, London and New York 1994; E. B. Tylor, Primitive Culture. Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Art and Custom (1871), vol. I-II, Dover Publications, Mineola and New York 2016.

[6] L. Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva (1927), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2007.

[7] E. de Martino, Naturalismo e storicismo, cit., p. 119.

[8] G. Sasso, Ernesto de Martino tra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli 2001, p. 12.

[9] Sul problema delle categorie, cfr. M. Mustè, Il problema delle categorie, in «Paradigmi», XXXI, 2013, pp. 19-33.

[10] L. Lévy-Bruhl, op. cit.

[11] Su questo punto, cfr. M. Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza, Quodlibet, Macerata 2009, pp. 45-51.

[12] Sulle analogie tra la logica dei “moderni” e quella dei “primitivi”, si vedano W. Köhler, Psychological Remarks on Some Questions of Anthropology, in «The American Journal of Psychology», 50, 1-4, 1937, pp. 271-288; L. Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer (1967), tr. it. Adelphi, Milano 1995.

[13] L. Lévy-Bruhl, Quaderni (1949), tr. it. Einaudi, Torino 1952.

[14] E. de Martino, Naturalismo e storicismo, cit., p. 95.

[15] Ibid., pp. 104-105.

[16] G. Simondon, Sulla tecnica (2014), tr. it. Orthotes, Napoli-Salerno 2017, p. 8.

[17] E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948), Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 9-10.

[18] Ibid., p. 53.

[19] Cfr. Id., Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (1958), Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 23-25; Id., Scritti filosofici, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 2005, p. 94.

[20] Id., Il mondo magico..., cit., pp. 158-159.

[21] I. Kant, Critica della ragion pura (1787), tr. it. Bompiani, Milano 2004, B 132-B 133, B 137, B 140.

[22] E. de Martino, Il mondo magico..., cit., pp. 78, 85, 104.

[23] Ibid., p. 72.

[24] Ibid., p. 129.

[25] Cfr. G. Sasso, op. cit., p. 256.

[26] G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione (1992), Palomar, Bari 1993, p. 32.

[27] Cfr. ad esempio E. de Martino, Il mondo magico..., cit., pp. 136-137, 149, 161.

[28] Si veda ibid., p. 129 nota 89, nonché p. 151, in cui de Martino scrive il magismo «come epoca storica appartiene […] alla fisiologia della vita spirituale nella varietà delle sue forme».

[29] G. Sasso, op. cit., p. 285; cfr. E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi della apocalissi culturali (1977), Einaudi, Torino 2002; Id., Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, Argo, Lecce 1995; Id., Scritti filosofici, cit..

[30] Id., Storia e metastoria..., cit., p. 112; Id., La fine del mondo..., cit., pp. 138, 219.

[31] Cfr. P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 75-88.

[32] Cfr. M. Valisano, Esserci, ovvero far differenza. Costituirsi della presenza e limiti dell’uso del corpo in Ernesto de Martino, in In limine. Esplorazioni interdisciplinari attorno all’idea di confine, a cura di F. Calzolaio, E. Petrocchi, M. Valisano, A. Zubani, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2017, pp. 175-191.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *