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Diderot interprete della natura

Autore


Mario Cosenza

Università degli Studi di Napoli Federico II

Dottorando di ricerca in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II in cotutela con l’Université Paris Nanterre

Indice


  1. Di cosa parliamo quando parliamo di scienza?
  2. Geni compresi
  3. Interprete della natura

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S&F_n.  20_2018

Abstract


DIDEROT INTERPRETER OF NATURE


De l’interprétation de la nature is a fundamental work to understand Diderot’s scientific thought and probably of the whole century.  His preference for biology rather than mathematics is not an idiosyncrasy but it’s instead a signal of the new dynamic conception of materialism. The reader has the availability of the materials to build a solid scientific philosophy: the scientific community,  the divulgation, the creator geniuses, the relationship between different knowledges and considerations that are detached from the mere scientific data and that restructure the philosophical scientific questions which have always been asked.

  1. Di cosa parliamo quando parliamo di scienza?

È evidentemente banale ricordare che Diderot concepisse il sapere da enciclopedista. Ma non è operazione inutile quella di ricordare come l’enciclopedista, almeno à la Diderot, non fosse semplicemente un erudito, bensì soprattutto un pensatore che faceva dell’ipotesi della concatenazione dei saperi un metodo di indagine olistico[1]. Questo portò il philosophe di Langres a confrontarsi con problemi da cui molti dei suoi contemporanei erano lontani quasi “geneticamente”. Sforzandoci allora di pensare un legame fondante la coerenza degli immensi contributi di Diderot – senza però appiattirli su di una sistemicità da lui non ricercata ma anzi rifuggita – è lecito riferirsi al suo senso del pratico e dell’utilizzabile, al costante riferirsi alla divulgazione e alla comunità, ossia al problema del dire la filosofia e della sua ricezione; da questo punto di vista, (quasi) tutto sembra ricongiungersi e sembra confluire nella visione che Diderot ebbe della scienza e delle sue prerogative. D’altronde, già D’Alembert, nel Discorso preliminare dell’Enciclopedia, con la sua profonda e radicata maturità teorica ed espositiva, aveva chiaramente evidenziato l’orizzonte in cui i philosophes-enciclopedisti si muovevano. Diderot, come in quasi ogni ambito, ne trasse però meglio di tutti le conseguenze, le istanze di sottofondo e le prospettive future.

Per una visione del Diderot filosofo della scienza, abbiamo, oltre alle numerose voci enciclopediche che egli compilò, un’opera magna: De l’interprétation de la nature.

Siamo nel 1753, e il lavoro va alle stampe quasi in contemporanea con il terzo volume dell’Encyclopédie. È questo un Diderot radicalmente maturo, e anzi nell’ambito del trattato puro queste pagine saranno quasi “definitive”[2].

Va subito detto come Diderot, da enciclopedista, non avrebbe mai potuto promuovere una visione del sapere, finanche scientifico, come incursione solitaria di singoli personaggi, completamente slegati da qualsiasi dovere di diffusione delle conoscenze[3]. La comunità scientifica dev’essere un gruppo di studio, che divulghi e punti alla chiarezza.

L’interesse della verità richiederebbe che coloro che riflettono si degnassero finalmente di associarsi con coloro che si danno da fare […] e tutti i nostri sforzi fossero riuniti contro la resistenza della natura; e, in questa specie di collaborazione filosofica, ciascuno adempisse al compito che gli conviene[4].

 

Per un tal progetto c’è bisogno di collaborazione non solo ideale:

Bisogna rivelare la cosa e il metodo. Quanto considero grandi per la loro invenzione gli uomini [Newton e Leibniz] che scoprirono i nuovi calcoli! Quanto li trovo meschini nel mistero che essi ne fecero! […] Rivelare non è sufficiente, bisogna anche che la rivelazione sia intera e chiara[5].

 

L’epopea della conoscenza va resa popolare

Affrettiamoci a rendere popolare la filosofia! Se noi vogliamo che i filosofi progrediscano avviciniamo il popolo muovendo dal punto al quale sono pervenuti i filosofi. Si dirà che vi sono opere che non potranno mai essere alla portata degli spiriti comuni? Chi afferma questo mostra solo di ignorare ciò che possono realizzare il buon metodo e la lunga abitudine[6].

 

La questione è evidentemente anche politica; metodo e abitudine possono riuscire lì dove non si crederebbe possibile, e l’esclusione di qualcuno dalle possibilità conoscitive, è semplicemente un malcelato arbitrio che sottintende motivazione ideologiche. Certo, pensare che tutti contribuiscano alla scienza è una pura idea limite, ma non per questo è meno vera.

La natura non è già abbastanza nascosta dal suo proprio velo senza che vi sia bisogno di aggiungervi quello del mistero e non sono già abbastanza le difficoltà dell’arte?[7]

 

Diderot canta la ragionevolezza della divulgazione, cosa per lui logica e naturale. Bisogna mostrare a tutti l’importanza delle questioni affrontate, renderle fruibili, ed evidenziare che esse possono essere utili anche per dei problemi quotidiani (la scienza ha a che fare con la vita pratica, o non è), o comunque tendenti a un’ottica che non sia astrattamente vuota.

Vi è un solo mezzo per rendere la filosofia veramente raccomandabile agli occhi del volgo: mostrargliela unita all’utilità. Il volgo chiede sempre: a che serve? E non si deve mai porsi in una situazione che costringa a rispondergli: a nulla[8].

 

Diderot non vuol certo negare che alcune scoperte, trovate, intuizioni siano possibili solamente a grandi spiriti, dopo dure applicazioni, con l’aiuto di grandi maestri; o negare alla filosofia suoi specifici campi di applicazione; né tantomeno precludere la libertà dell’avventura intellettuale. Vuole, però, impedire che siano limitate in partenza le possibilità di partecipazione alla ricerca – e in filigrana s’intravede il Diderot democratico degli scritti politici più avanzati.

È una questione anche statistica: una scoperta è tanto più possibile quanto maggiori saranno i partecipanti agli studi che potrebbero renderla tale – ricordando che la scoperta che non solo è pura “invenzione” o tecnicismo, ma è espansione di luce su quello che si può comprendere delle posizioni umane nel cosmo.

Certo, ci sono delle preferenze, e non tutti i saperi si equivalgono:

Gli uomini straordinari per il loro talento devono rispettare se stessi e la posterità nell’impiego del loro tempo. Che cosa penserebbe essa di noi, se le trasmettessimo una insettologia completa e una immensa storia degli animali microscopici?[9]

 

Preferenza legata al fatto che

l’utile circoscrive tutto[10].

 

Di massima importanza diventa, allora, definire cosa è utile, e riconoscere l’esistenza di utili spirituali e non sono pratici e concreti, o peggio ancora, commerciali.

L’utile “dello spirito”, infatti, può contribuire, nell’ottica di Diderot, al benessere comune e – ma va capito come –all’abbattimento di una società intrinsecamente basata sul privilegio, tema a cui Diderot si avvicino anche grazie alle indagini “su arti e mestieri” che egli svolse per l’Encyclopédie[11].

Per dirla con Venturi:

Due conclusioni principali trasse Diderot da questo contatto diretto con il lavoro: una teorica e l’altra politica, del resto strettamente congiunte. La philosophie gli apparve sempre più legata allo sviluppo della società, sempre più intimamente congiunta con il lavoro, con le tecniche. […] – Rendre la philosophie populaire- prendeva così un nuovo senso, significava portare sempre più profondamente nella società quella forza che egli sentiva nell’illuminismo. Unire quelli che hanno – beaucoup d’intruments et peu d’idées - e quelli che hanno – beaucuop d’idées et peu d’instruments - non restava soltanto un principio della scienza, assumeva un carattere sociale, proprio grazie all’importanza che Diderot aveva voluto dare, nell’Enciclopedia, all’osservazione delle arti[12].

 

Dunque, il quadro è di apertura e condivisione, e ritorna una continua chiave di lettura etico-politica anche nella ricerca scientifica. Come pensare sempre il bene comune.

Ma, specificamente, come organizzare un metodo, quali tra le tante scienze privilegiare, come interpretare la natura?

Iniziamo da un’esclusione, da un nemico pubblico, un metodo d’indagine che Diderot considerava più metafisico che scientifico, e contro cui lanciò feroci invettive, condite da una previsione dai risultati imbarazzanti:

La regione dei matematici è un mondo intellettuale, nel quale ciò che viene considerato come verità rigorosa perde completamente questa prerogativa, quando lo si trasporti sulla nostra terra. […] La matematica, soprattutto quella trascendente, non conduce a nulla di preciso senza l’esperienza, essa è una specie di metafisica generale ove i corpi sono spogliati delle loro qualità individuali[13].

 

La matematica (o la geometria: Diderot usa qui in maniera interscambiabile i termini) è quindi una regione del puro intellettuale, lontanissima dalla possibilità di incidere sul mondo materiale, che è il riferimento ultimo dell’indagine scientifica. Essa è gioco, o metafisica camuffata (e nel mondo dei filosofi, queste affermazioni sono come dichiarazioni di guerra).

Molti rapporti intercorrono fra un giuoco e la matematica. Tralasciando, da un lato, l’incertezza derivante dalla sorte, o paragonandolo, dall’altro, con l’inesattezza derivante dall’astrazione, una partita può essere considerata come una serie indeterminata da risolvere sulla base di condizioni date. Non c’è problema di matematica al quale non possa convenire questa stessa definizioni, e la cosa del matematico non esiste in natura più di quella del giocatore. Si tratta dall’una come dall’altra parte di convenzioni. Quando i geometri hanno screditato i metafisici, essi erano ben lontano dal pensare che tutta la loro scienza non fosse che una metafisica. Un giorno si chiese: chi è un metafisico? Un geometra rispose: un uomo che non sa nulla. I chimici, i fisici, i naturalisti e tutti coloro che si dedicano all’arte sperimentale, non meno esagerati nei loro giudizi, mi sembrano sul punto di vendicare la metafisica attribuendo la stessa definizione al geometra[14].

 

Dunque, il problema della matematica teorica è la sua astrattezza e il fatto che, non avendo attinenza con la realtà, possa essere considerata come una serie di enigmi che parte da condizioni date. Diderot certo non nega l’importanza della matematica applicata, ma considera l’astrazione come un problema chimerico, ai limiti del passatempo inconcludente. Con la matematica non si scopre il mondo, bensì al massimo si vince un gioco. Un matematico che considerasse solo la propria disciplina, perderebbe completamente di vista la realtà fisica delle cose – e Diderot è pur sempre un filosofo materialista. La matematica di Diderot è un’invenzione, una creazione, un sentimento forse, ma non una scoperta[15].

E questa creazione è arrivata al suo limite ultimo, e si fermerà stancamente:

Una grande rivoluzione è imminente nelle scienze. In base all’inclinazione presente negli spiriti per la morale, le belle lettere, la storia della natura e la fisica sperimentale, oserei quasi affermare che, prima che siano trascorsi cento anni, non si avranno in Europa neppure tre grandi geometri. Questa scienza si fermerà completamente dove l’avranno lasciata i Bernoulli, gli Eulero, i Maupertuis, i Clairaut, i Fontaine e i d’Alembert. Essi avranno gettato le colonne d’Ercole. Non si andrà più oltre. Le loro opere sussisteranno nei secoli e venire come quelle piramidi d’Egitto le cui masse, ricoperte di geroglifici, risvegliano in noi l’idea del terribile della potenza e delle risorse degli uomini che le hanno innalzate[16].

 

La matematica sarebbe dunque per Diderot arrivata alla saturazione. L’opera degli ultimi matematici meritevoli ricorderà ai posteri la grandezza della ragione umana, e come una Piramide farà paura e meraviglia. Una piramide innalzata al loro Dio, una piramide che è arte e non conoscenza.

La parola per un discorso intorno a tale previsione, e per una schietta difesa, va a Ernst Cassirer:

Tutti sanno quanto poco questa profezia si sia avverata, per quanto riguarda la storia della matematica pura: non erano passati ancora i cento anni del Diderot quando moriva il Gauss, dal quale la matematica doveva ricevere ancora una forma nuova e per cui merito essa doveva, nel contenuto e nel metodo, allargare il suo territorio in una guisa che il secolo XVIII non poteva prevedere. Eppure la predizione del Diderot si fondava su una sensazione giusta. Egli infatti vuol mettere in rilievo e insiste sul fatto che la matematica non eserciterà più a lungo il suo dominio esclusivo fra le scienze della natura. Qui sta sorgendo un rivale che essa non riuscirà a vincere interamente. Per quanto la matematica sia perfetta nel suo campo, per quanto essa vi si elevi alla massima precisione ed esattezza dei concetti, appunto questa sua perfezione è e rimane per necessità il suo limite immanente. Essa non può infatti varcare la cerchia dei concetti propri, che si è creati da sé; non ha un accesso diretto alla realtà empirica e concreta delle cose. Soltanto l’esperimento, soltanto l’osservazione fedele della natura può aprirci quell’accesso.[…] Si tratta quindi di combattere, nel regno della scienza naturale, non solo lo spirito di sistema metafisico, ma anche quello matematico. Tosto che il matematico non sviluppa soltanto il proprio mondo concettuale, ma crede anche di poter stringere la realtà nella rete dei suoi concetti, ecco che egli stesso è diventato un metafisico[17].

 

Dunque, lungi dall’essere un’idiosincrasia personale, se non una totale incomprensione[18], quella di Diderot è una vera e propria svolta epocale, e

Le sue parole dovrebbero esser prese nel senso di una nuova e più completa consapevolezza del ruolo spettante alle scienze naturali, di una nuova e più completa consapevolezza del sistema proprio dei matematici, i quali procedono da concetti logici e da assiomi che, pur essendo di una rigorosa validità logica, mancano però di qualsiasi rapporto diretto con la realtà empirica e concreta delle cose[19].

 

La matematica per Diderot si avvicina troppo pericolosamente alla metafisica. Troppo autoreferenziale e chiusa, senza sbocchi verso osservazione e descrizione; essa, sistemica e non sistematica, troppo ricercata ed elitaria come metodica del sapere, non sarà mai capace di comprendere l’ampiezza del reale.

Con ciò il Diderot […] annuncia un nuovo metodo di pensiero. Allo spirito calcolatore e ordinatore del secolo XVII, allo spirito del razionalismo si contrappone ora una nuova tendenza; la tendenza ad assicurarsi della pienezza della realtà e ad abbandonarvisi senza preconcetti, senza tener conto se quella pienezza si possa indicare mediante concetti chiari e distinti, o si possa misurare e calcolare. Si continui pure a costruire siffatti sistemi di concetti: ma non ci si faccia illusioni circa la loro reale importanza e la loro portata. […]Si tratta di un nuovo indirizzo, quasi di un nuovo temperamento degli studi che qui s’impone e chiede di essere riconosciuto e giustificato nella sua peculiarità e nel suo valore metodico[20].

 

Torna qui la ricorrente distinzione squisitamente illuminista: la sistematicità continua e paziente – alla costante ricerca di nessi tra saperi – è da ricercare, il sistema è invece vicolo cieco della ragione, vanità ed errore definitivo.

Ma che cos’è esattamente il sistema metafisico per Diderot? Sicuramente, è anche un’espressione di un sentimento tout court artistico:

Felice quel filosofo sistematico al quale la natura avrà dato, come un tempo a Epicuro, a Lucrezio, a Aristotele, a Platone, una forte immaginazione, una grande eloquenza, l’arte di presentare le proprie idee mediante immagini sorprendenti e sublimi! L’edificio da lui costruito potrà cadere un giorno; ma la sua statua resterà in piedi, in mezzo alle rovine[21].

 

Caratteristiche chiare: non si parla né di osservazione, né di riflessione, né di descrizione bensì di immaginazione, eloquenza, conversione di idee; sembra quasi di leggere Carnap che, nel Ventesimo secolo, su questa scia, definirà i metafisici “dei musicisti senza capacità musicale”.[22]

Il sistema, come dice Cassirer,

possiede quindi, in fondo, più importanza individuale che universale, più importanza estetica che logico-oggettiva[23].

 

Un sistema può anche essere uno strumento di conoscenza come altri, nel caso, purché non lo si faccia dominare incontrastato, né lo si veneri: ma questo è terribilmente difficile, e si finirà sempre, se pur involontariamente, per escludere tutto ciò che con il sistema non è in linea. Il reale è troppo più ampio di ogni schema mentale ispirato dall’amore per l’ordine.

La distinzione tra sistema e sistematicità è dunque spartiacque della filosofia della scienza diderotiana. Essa ha inoltre dei corollari. Il sistema tende a escludere osservazione ed esperimenti. La mancanza di queste operazioni è la cartina di tornasole di due metodiche completamente differenti del filosofare, da Diderot chiamate sperimentale e razionale.

Abbiamo distinto due tipi di filosofia: la sperimentale e la razionale. L’una ha gli occhi bendati, procede a tentoni, afferra tutto ciò che le cade tra le mani, e alla fine incontra cose preziose. L’altra raccoglie queste materie preziose e cerca di farsene una fiaccola; ma questa pretesa fiaccola le è, fino ad ora, servita meno di quanto alla propria rivale sia servito procedere a tentoni. L’esperienza moltiplica i propri movimenti all’infinito, è continuamente in azione, e impiega nella ricerca dei fenomeni tutto il tempo che la ragione impiega a ricercare analogie[24].

 

In qualche modo, dunque, pur se procedendo talvolta senza metodo, la filosofia sperimentale è più vicina alla comprensione dei nessi tra le cose materiali. Essa è sì meno nobile, ma anche più attiva, reattiva, agile. Il razionale, inteso come metafisico, è, invece, in fondo anche pigro e pregiudiziale:

La filosofia sperimentale non sa che cosa ricaverà o non ricaverà dal proprio lavoro, ma lavora senza riposo. Al contrario la filosofia razionale soppesa le possibilità, si pronuncia e all’improvviso si ferma. Essa dichiara arditamente: non è possibile decomporre la luce. La filosofia sperimentale l’ascolta, e per secoli interi tace davanti ad essa; poi improvvisamente mostra il prisma e dichiara: la luce si decompone[25].

 

La filosofia sperimentale

che non si propone proprio nulla, è sempre contenta di ciò che le avviene di conseguire[26].

 

Si tratta, per Diderot, di tener sempre fermo davanti a sé è il dovere di ricercare. Quello che veramente è insostenibile per il philosophe non è tanto il contenuto o l’atteggiamento della metafisica razionale, bensì il metodo con cui essa si pone come unica fonte di sapere. Un sapere che in qualche modo diviene istituzione, che parla ex-cathedra e che non permette la ricerca continuata del nuovo. Diderot è in questo, e altrove, un sovversivo, nella misura in cui il suo agire non riconosce autorità che non sia l’evidenza. L’unica possibilità da lui riconosciuta rimase sempre quella della continua, sistematica, anche tragica, ricerca.

La fisica sperimentale può essere paragonata, nei suoi buoni effetti, al consiglio di quel padre che in punto di morte disse ai suoi figli di avere un tesoro nascosto nel campo ma di non saperne il punto preciso. I figli si misero a vangare il campo; non trovarono il tesoro che cercavano, ma fecero in quella stagione un raccolto abbondante che non si aspettavano[27].

 

Ma non vi è solo miseria nella filosofia razionale, anzi: Diderot addirittura concede un privilegio ai metafisici, tra cui, per alcuni aspetti e a ragione, addirittura di schiera.

Anche a costo di essere accusato di fare la mia apologia, oserei dire che se mai è permesso a certi autori di essere oscuri, ciò è permesso soltanto ai metafisici propriamente detti. Le grandi astrazioni non consentono altro che un fioco lucore. L’atto della generalizzazione tende a spogliare i concetti di tutto ciò che essi hanno di sensibile. Via via che avanza la generalizzazione, gli spettri corporei svaniscono; le nozioni si ritirano a poco a poco dall’immaginazione verso l’intelletto; le idee diventano puramente intellettuali. Allora il filosofo speculativo assomiglia a colui che guarda dall’alto di quelle montagne le cui cime perdono nelle nubi: gli oggetti della pianura sono scomparsi davanti a lui, a lui non gli resta altro che lo spettacolo dei propri pensieri e la coscienza dell’altezza alla quale si è innalzato e alla quale non a tutti è forse permesso di seguirlo e di respirare[28].

 

Dunque, parlando di propria apologia, il philosophe stesso pare schierarsi tra i metafisici: tutto si gioca qui sul significato che si dà al termine metafisica. Nella misura in cui essa è generalizzazione regolativa, unione di concetti di stampo induttivo, tutta posteriore all’osservazione, Diderot non esita a riconoscerne i meriti. Il punto cruciale non è la generalizzazione, cui ogni filosofia può affidare qualche summa; ciò che conta è che si parta sempre da un’osservazione continua e minuziosa del fisico, e – solo poi – si congetturi sulle possibili teorie pensabili grazie a uno sforzo immaginativo. L’inversione dello studio, dall’a priori all’osservazione, è in pieno stampo baconiano[29]. Solo questo spiega le teorizzazioni, esposte da Diderot altrove, sulla materia e le sue attitudini. Solo partendo da una vasta gamma di fenomeni, diligentemente catturati e sezionati, si può tentare, poi, di spingersi alle situazioni precedenti (o successive) a quelle osservabili. La critica qui è tutta destinata al procedere deduttivo e razionalista, e non, dunque, alla concezione metafisica in sé, potendo considerarsi essa anche semplicemente il tentativo sistematico di unione dei principi primi di una determinata scienza, concezione quest’ultima che sottende tutto il lavoro enciclopedico, con i suoi fitti alberi conoscitivi.

L’importanza del contributo conoscitivo dei metafisici tradizionali può essere dunque, in qualche caso, maggiore rispetto ai limiti intrinseci del loro operare. Scervellandosi sui problemi più difficili o, perché no, assurdi, si può sempre incappare in una progressione di conoscenza: il vero nemico non è, quindi, l’incedere metafisico (se inteso bene), bensì l’idea di sistema.

Già nel Discorso preliminare[30] di d’Alembert si leggeva che

Quando in una scienza viene ridotto il numero dei princìpi, essi acquistano maggiore estensione, dal momento che, essendo l’oggetto di una scienza necessariamente determinato, i princìpi ad essa applicati saranno tanto più fecondi quanto più piccolo sarà il suo numero. In questa riduzione, che d’altronde permette ai princìpi di venire colti più facilmente, consiste il vero spirito sistematico che non deve assolutamente essere confuso con lo spirito di sistema con il quale non sempre si accorda[31].

 

Oltre a ciò che poteva condividere con il suo milieu, in Diderot assistiamo all’impossibilità del sistema[32].

Il sistema blocca le diversità, le alterità, la molteplicità del reale. Sostiene Cassirer che in Diderot

si rivela la convinzione che nessun punto di vista, donde noi consideriamo l’universo, che nessun aspetto particolare, sotto il quale lo contempliamo, è adeguato alla sua pienezza, alla sua intima diversità, al suo costante avvicendarsi. […] Questo universo infinitamente mutevole non può essere dunque concepito se non mediante un pensiero mobile, mediante un pensiero che non si lascia portare e sospingere da un appiglio all’altro e non si riposa nella contemplazione di ciò che è dato, ma tripudia nella pienezza delle possibilità e vuole percorrerle e assaggiarle tutte[33].

 

Percorrendo e assaggiando tutto. Una possibilità, verbale, fisica, immaginativa, possibilità da abitare, scrutare. I gioielli indiscreti e la ricerca scientifica hanno lo stesso sottofondo musicale: se posso pensarlo, posso dirlo; se posso pensarlo, posso provarlo. La verità la dice la natura, sia quella corporea e voluttuosa, sia quella del cosmo da interrogare.

Considerando le infinite possibilità, però, Diderot non corre mai il pericolo di diventare scientista, se con questo termine intendiamo l’atteggiamento che fissa un’identità assoluta tra conoscenza scientifica e conoscenza tout court, tesi (molto più che ipotesi) che crede di poter inquadrare l’intero universo in un solo fotogramma e per la quale la scienza arriverà a conquistare i segreti più profondi del cosmo in maniera ineludibile e certa. A tale concezione del sapere scientifico, il philosophe oppone alcuni rimedi. Il primo è un’umiltà ricorrente – certo, sentita, ma vagamente stilizzata – volta a ricordare l’infinità delle cose, la minutezza umana rispetto a esse, le difficoltà metodiche, la transitorietà della ricerca stessa:

Quando si paragona l’infinita moltitudine dei fenomeni naturali con i limiti del nostro intelletto e la debolezza dei nostri organi, che cosa mai ci si può aspettare dalla lentezza dei nostri lavori, dalle loro lunghe e frequenti interruzioni[34].

 

E, ovunque e ricorsivamente nel testo:

L’intelletto ha i suoi pregiudizi, il senso ha la sua incertezza, la memoria i suoi limiti, l’immaginazione la sua oscurità, gli strumenti la loro imperfezione. I fenomeni sono infiniti; le cause, nascoste; le forme, forse, transitorie[35].

 

Diffidare di ogni filosofo che non dice spesso la parola forse, ecco una lezione da imparare. Diderot canta le possibilità di una ricerca che non abbia meno senso perché mancante di un traguardo ben definito. La teleologia non è poi così importante; la meta è un’incognita, eppure ci si continua a muovere.

Infatti:

Quale x è dunque il nostro scopo? L’esecuzione di un’opera che non può mai essere compiuta e che, se fosse compiuta, sarebbe molto al di sopra dell’intelligenza umana. Non siamo ancor più insensati dei primi abitanti della pianura di Senaar? [Il luogo biblico dove fu innalzata la torre di Babele] Conosciamo la distanza infinita che intercorre dalla terra ai cieli, ma non desistiamo dall’innalzare la torre[36].

 

La scienza come asintoto, come tendenza mai chiusa:

Forse esiste un fenomeno centrale capace di illuminare non solo i fenomeni già noti, ma anche tutti quelli che verranno scoperti col tempo, un fenomeno capace di riunirli e formare un sistema. Ma in mancanza di questo centro di comune corrispondenza, essi resteranno isolati; tutte le scoperte della fisica sperimentale non faranno altro che ravvicinarli interponendosi fra loro senza mai riunirli, e anche se riuscissero a riunirli, riuscirebbero solo a dar luogo a circolo continuo di fenomeni, ove non sarebbe possibile distinguere il primo fenomeno dall’ultimo[37].

 

La fine della ricerca potrà arrivare da sé, e non sarà certo né ultraterrena né dovuta alla comprensione totale:

D’altra parte, l’utile circoscrive tutto. Sarà l’utile che, fra qualche secolo, porrà dei limiti alla fisica sperimentale, come si accinge ora a porli alla geometria. Concedo diversi secoli a questo studio, perché la sfera della sua utilità è infinitamente più estesa di quella di qualsiasi scienza astratta, e perché è, incontestabilmente, la base delle nostre conoscenze vere[38].

 

L’unico limite sarà quindi o uno sviluppo così progredito - e non necessariamente eticamente “migliore” – da divenire capace di dare tutte le risposte “utili” cercate o una saturazione del sapere sperimentale che impedirà di andare avanti[39].

Diderot è sempre un’entusiasta. Egli sa che il procedere lirico, poi, dovrà lasciare spazio, nella ricerca scientifica, a una ricerca metodica seria e programmatica, ma si prodiga affinché non sia dimenticato il sottofondo di entusiasmo da cui si è partiti:

La meraviglia è il primo effetto che produce un grande fenomeno: tocca alla filosofia dissiparla. Il compito di un corso di filosofia sperimentale è di rimandare lo scolaro più istruito e non più meravigliato. […] Una grande lezione che si ha spesso occasione di impartire è l’ammissione della propria incapacità. Non è meglio conciliarsi la confidenza degli altri con un sincero io non so nulla, piuttosto che balbettare qualche parola e far pena a se stessi sforzandosi di spiegare tutto? Colui che confessa liberamente di non sapere ciò che ignora mi induce a credere quello che intraprende a spiegarmi[40].

 

E ancora:

 

La meraviglia deriva spesso dal fatto che si immaginano molti prodigi là dove ve n’è uno solo; dal fatto che si immaginano nella natura tanti atti particolari corrispondenti ai fenomeni enumerati mentre essa, forse, ha compiuto un unico atto. Sembra anche che, se essa si fosse trovata nella necessità di compierne parecchi, i differenti risultati di questi atti sarebbero isolati; che vi sarebbero collezioni di fenomeni indipendenti le une sulle altre; e che quella catena generale, della quale la filosofia suppone la continuità, si romperebbe in diversi punti. L’assoluta indipendenza anche di un solo fatto è incompatibile con l’idea di un tutto, e senza l’idea di un tutto non vi sarebbe più filosofia[41].

 

Costante e ineludibile sottinteso della ricerca filosofica e scientifica è la considerazione che non esista indipendenza di fatti, neanche di uno: senza l’idea di un Tutto, non ci sarebbe filosofia. Nella mancanza di una teoria del tutto, bisogna però accontentarsi di ipotizzare il tutto.

Allo stesso modo che in matematica, esaminando tutte le proprietà di una curva, si trova che si tratta di una medesima proprietà presentata sotto aspetti differenti; così, in natura, quando la fisica sperimentale sarà più progredita, si riconoscerà che tutti i fenomeni, della gravitazione o dell’elasticità, dell’attrazione o del magnetismo o dell’elettricità, non sono altro che aspetti differenti della stessa affezione. Ma tra tutti i fenomeni conosciuti, che vengono riportati a una di quelle cause, quanti fenomeni intermedi restano da trovare per stabilire tutti i legami, colmare i vuoti e dimostrare l’identità? Non lo si può determinare[42].

 

Ovviamente, questa grande catena dell’essere non va presa come un principio metafisico, bensì come un’ipotesi metodica e una risultanza pratica non smentita, finora, dalla ricerca empirica.

È questo principio che permetterà poi di ricercare affinità tra piccoli e grandi scale di fenomeni, è questo che aprirà le porte al Diderot filosofo della biologia, ossia al Diderot che inizierà a pensare allo studio comparato degli esseri e al diverso grado di sviluppo da un’unica matrice. Si constata che c’è un ordine, senza chiedersi in che modo e perché esso ci sia. Il come, non il perché.

Questo perché il come

si ricava dagli esseri, il perché dal nostro intelletto, si riferisce ai nostri sistemi; dipende dal progresso delle nostre conoscenze[43].

 

Divulgazione, comunità scientifica, metodo come punti fermi. Ma come sono stati superati alcuni limiti intrinseci al metodo stesso? Esistono eccezioni, schegge impazzite? Sì. Essi sono frammenti staccati dalla grande catena che lega tutte le cose[44].

I geni creatori.

 

  1. Il genio compreso

Il loro compito non è più quello di perfezionare il sapere, con un labor limae continuo e coeso. A loro spetta invece la scoperta subitanea di nessi prima di loro inafferrabili, di verità prima impensabili. Essi afferrano la verità non dal lato calvo, bensì da quello dei capelli[45]. Con fervore la rendono poi comprensibile a tutti, ovviamente se non battono la strada dello stile arido e dogmatico o se, come detto, non scelgono la solitudine e la mancata divulgazione. Ci sono

tre mezzi principali: l’osservazione della natura, la riflessione e l’esperienza. L’osservazione raccoglie i fatti, la riflessione li combina insieme, l’esperienza verifica il risultato della combinazione… è necessario che l’osservazione della natura sia assidua, la riflessione profonda e l’esperienza esatta. Raramente questi mezzi si vedono tutti insieme. Ma anche i geni creatori non sono comuni[46].

 

A questa abitudine al metodo, però, si può aggiungere una scintilla indefinibile, un quid di intuizione, di prontezza, di – parola diderotiana – subodorazione[47].

Il genio è come un demone familiare; accettando la metafora, s’intende che il genio è demoniaco nel suo essere incontrollabile, inesplicabile; familiare essendo contenuto in quell’involucro di ordine e caos che è la mente umana, vivacchiando quando non stimolato. Esso è essenzialmente un presentimento, che non si può richiamare con volontà, ma solo corteggiare con l’esperienza assidua.

La grande abitudine di compiere esperienza fornisce […] un presentimento che ha il carattere dell’ispirazione. Dipende solo da loro sbagliare, come Socrate, e chiamarlo un demone familiare. Socrate aveva una così prodigiosa abitudine di considerare gli uomini e di valutare le circostanze che, nelle occasioni, più delicate, si verificava segretamente in lui una combinazione pronta e giusta, seguita da un pronostico che non mancava mai di realizzarsi. Egli giudicava gli uomini come le persone di gusto giudicano le opere d’ingegno: con il sentimento. La stessa cosa accade, nella fisica sperimentale, per quanto concerne l’istinto dei nostri grandi manovali.[…] In tal modo il più importante servizio che possono rendere a coloro che essi iniziano alla filosofia sperimentale non è tanto quello di istruirli sul procedimento e sul risultato, quanto quello di trasmettere loro quello spirito di divinazione mediante il quale, per così dire, si subodorano procedimenti sconosciuti, esperienze nuove, risultati ignorati[48].

 

Una

disposizione a supporre o percepire opposizioni o analogie, che ha la propria origine in una conoscenza pratica delle qualità fisiche degli esseri considerati singolarmente, o dei loro effetti reciproci, quando li si considera in relazione fra loro[49].

 

Quindi, nel cuore del progresso, c’è una formidabile unione: metodo sistematico-baconiano, con in più un coupe de théâtre, un rischio ingovernabile, un delirio filosofico[50].

Con tale concezione del genio, in alcuni punti squisitamente pre-romantica, si crea così un’oscillazione decisiva ed esemplificativa di tutto il procedimento filosofico di Diderot.

Se infatti fondamentale è l’immediata intuizione dei geni scopritori, che con coraggio comprendono un nesso prima indicibile, ci si trova poi a doversi rapportare con la grande e indolente natura:

La natura è ostinata e lenta nelle sue operazioni. Se si tratta di allontanare, di avvicinare, di unire, di dividere, di ammorbidire, di condensare, di indurire, di liquefare, di dissolvere, di assimilare, essa avanza verso il suo scopo per gradi insensibili. […] La natura impiega dei secoli per preparare in modo grossolano i metalli; l’arte si propone di perfezionarli in un giorno. […] Solo un’applicazione graduale, lenta e continua è in grado di trasformare.[…] Ma che servono queste ipotesi senza il coraggio, la pazienza, il lavoro, le spese, il tempo e soprattutto quel gusto antico per le grandi imprese del quale sussistono ancora tanti monumenti che ottengono da noi solo un’ammirazione fredda e sterile[51].

 

Qui Diderot assapora un epos. Grandi imprese che fissino monumenti vivi della conoscenza e proiettino l’umanità oltre i tempi sterminati e imbattibili della natura. Ma come fa una suggestione del genere a convivere con la lentezza della natura e con la metodica della lenta osservazione?

Diderot prova a essere, insieme, un teorico della lentezza “come metodo” e un ammiratore del genio che scuote il metodo stesso; a tal fine, bisogna comprendere la dinamica materiale e intimamente dialettico-relazionale che sussiste tra uomini, metodo e natura[52].

Cassirer dice:

È certamente pericoloso, discorrendo del Diderot, definire la visione filosofica che egli rappresenta di volta in volta con un determinato nome e volerla quasi racchiudere in esso. Il pensiero del Diderot lo si può infatti afferrare, diremo così, a volo, nel suo continuo e incessante movimento. Questo movimento non si ferma ad alcun risultato e non si dà a conoscere in nessun singolo momento della sua traiettoria per ciò che è e per ciò che vuole. […] Grazie a questa particolarità fondamentale del suo spirito il Diderot fu uno dei primi a superare la visione statica che il secolo XVIII ebbe del mondo e a tramutarla in una visione puramente dinamica. Tutti gli schemi concettuali, tutti i tentativi di semplice classificazione gli sembrano ristretti e insufficienti, gli paiono atti soltanto a fissare lo stato del sapere in un singolo momento. Non è lecito porre dei limiti alla conoscenza con siffatti schemi, né derivarne delle determinazioni per l’avvenire. Noi dobbiamo tenere la porta aperta a tutte le novità: non dobbiamo lasciarci restringere l’esperienza con precetti preordinati[53].

 

Non poteva non essere la biologia, in cotanto dinamismo, la disciplina più idonea agli slanci diderotiani[54]. Eterogenea; mutevole e dinamica; avente a che fare con la vita; ancora da sviluppare; intrinsecamente instabile: essa, è il caso di dire, si tramutò nell’habitat perfetto per il philosophe. E allora il phiosophe dedica alla biologia, ai suoi concetti, ad alcune ipotesi, parti fondamentali del testo.

Cambiamento delle specie, ad esempio:

Nei regni animale e vegetale, un individuo comincia, per cosi dire, si accresce, dura, deperisce e trapassa: non potrebbe avvenire la stessa cosa per le specie intere?[55]

 

Parentele comuni:

Non si è forse portati a credere che vi sia stato un primo animale, prototipo di tutti gli animali, al quale la natura avrebbe solo allungato, accorciato, trasformato, moltiplicato e distrutto certi organi?[56]

 

Inaspettati cambiamenti:

Se la questione della priorità dell’uovo sulla gallina o della gallina sull’uovo vi mette in difficoltà, ciò dipende dal fatto che voi supponete gli animali siano stati originariamente quelli che sono attualmente. Quale follia. Non si sa quel che sono stati più di quanto non si sappia ciò che diventeranno. L’impercettibile vermicello che si agita nel fango si avvia forse verso lo stato di grande animale: l’animale enorme che ci spaventa per la sua grandezza s’avvia forse verso lo stato di vermiciattolo, ed è forse un prodotto particolare, momentaneo, di questo pianeta[57].

 

Ora, il punto non è quanto Diderot avesse intravisto in maniera geniale teorie largamente successive; che uomini come il philosophe siano in anticipo su qualsiasi tempo è cosa di per sé evidente. Ciò che preme invece è evidenziare quanto debba poco stupire che fosse proprio la biologia la scienza da lui meglio compresa. Egli trovò in essa una proiezione del suo stesso fermento e del suo sguardo fisso verso il concetto di diversità, fosse essa diversità cosmica, biologica, politica: non bastava più una classificazione à la Linneo per spiegare la mutevolezza che egli vide nel mondo.

Iniziando a maneggiare concetti come processo, parentela, sviluppo, adattamento, Diderot scrutò campi possibili e inesplorati, in quanto, all’interno di modalità fisse di comprensione del cosmo, dal quale forse in pochi prima di lui si erano distaccati, i fenomeni della natura da lui osservati e rimirati non sarebbero mai più potuti essere compresi[58].

La svolta è radicale, e ha a che fare con l’intero approccio al sapere della sua e delle future epoche; partendo dalla fissità del cosmo aristotelico, ci si mosse a tappe forzate verso un cosmo in movimento, e, per alcuni, si scivolò su di un piano inclinato verso una x.

 

  1. Interprete della natura

Ma Diderot non ambiva alla pura teoria, bensì all’interpretazione della natura. Allo stesso philosophe la spiegazione, finalmente, del titolo dell’opera:

Una delle differenze fra l’osservatore della natura e l’interprete della natura è che questo parte del punto in cui i sensi e i gli strumenti vengono meno a quello; muovendo da ciò che è, egli cerca di avanzare ipotesi su ciò che ancora deve essere; […] vede che la coesistenza pura e semplice di un essere sensibile e pensante e di concatenamento qualunque di cause e di effetti, non gli è sufficiente per pronunciare un giudizio assoluto; qui gli si arresta; se facesse un solo passo in più uscirebbe dalla natura[59].

 

Dunque, né “solo” un metafisico né un fisico, né un filosofo razionale né uno speculativo: Diderot cerca l’interprete. Esso è colui che in primis osserva, riflette e immagina, in puro spirito scientifico. Lavora alacremente per accumulare dati e fatti. Poi, però, si sgancia dal mero dato, e – lì dove non può arrivare con l’osservazione del presente e del sensibile – subodora l’impensato. Non è questo un ritorno alla tanto aberrata filosofia razionale? No, e la differenza è sostanziale. Lì la base era esattamente il punto di arrivo di questa interpretazione, ossia la teoria intorno al non sensibile. Qui, invece, è solo quando non è possibile più osservare che si tenta l’ipotesi. L’atteggiamento è anche fondamentalmente opposto: si deve riconoscere il carattere puramente speculativo dell’interpretazione, e non ammantarlo di necessità. Il giudizio assoluto è comunque estirpato.

Il vaneggiamento preconcetto sul non teorizzabile è invece il vero, e unico procedimento fuori natura.

Il limite ha un aspetto ben preciso:

La domanda: perché esiste qualche cosa è la più imbarazzante fra quelle che la filosofia può proporsi; solo la rivelazione può rispondere ad essa[60].

 

Ma definito chi è l’interprete, bisogna definire cosa egli faccia.

In primis, egli ha l’obbligo di congetturare su svariate questioni ancora irrisolte, tentando di ampliare le famose zone di luce. Questo, ripeto, non deve essere il lavoro primo di un ricercatore, bensì il tentativo finale una volta esaurite le risorse dei sensi. L’interpretazione è una previsione che inizia quando finiscono le risorse. Quando si sono superate le opinioni; si son legate le idee ai fatti esterni in una catena ininterrotta di ragionamenti; si è tornati dai sensi alla riflessione e viceversa; si son superate le difficoltà strutturali che rendono molto più semplice e conciliante consultare se stessi invece che la natura; allora, quando tutto ciò non ha dato i risultati sperati, si può tentare la congettura[61].

E Diderot stesso, dando l’esempio, si lancia in sette previsioni, su diversi rami scientifici: ostetricia, magnetismo, elettricità, elasticità, produzione dell’acciaio. Quello che conta, però, da un punto di vista storico, non è la previsione in sé, ma come il philosophe considerasse le possibilità di controllo delle teorie non univocamente verificabili, ossia: come verificare le congetture degli interpreti? In che modo tenere a bada l’entusiasmo di una scoperta, la vaghezza e l’arbitrarietà degli esperimenti?

Entriamo in una vera e propria visione fallibilista (e auto-fallibilista) con la prova dell’inversione:

Poiché i sistemi di cui qui si tratta [le congetture di cui sopra] sono fondati soltanto su idee vaghe, leggeri sospetti e ingannevoli analogie, e anche, bisogna dirlo, su chimere che lo spirito entusiasta scambia facilmente per punti di vista, non bisogna abbandonare nessuno senza averlo prima sottoposto alla prova dell’inversione. […] Bisogna soprattutto prendere in considerazione i due punti diametralmente opposti. […] Le esperienze devono essere ripetute per mettere in luce tutti i dettagli della circostanze, e per conoscerne i limiti. […] Ogni esperienza che non estende la legge a qualche nuovo caso, o che non ne restringe l’applicazione con qualche accezione, non ha alcun significato[62].

 

Dunque, tentativo costante di allargamento della zona di validità della teoria: essa deve essere lavorata, ribaltata, interrogata e messa alla prova, costantemente. Spingerla, senza aver paura di distruggerla, alle sue estreme conseguenze[63].

Generalizzando, e vedendo se resiste all’espansione.

L’atto della generalizzazione è per le ipotesi del metafisico ciò che le osservazioni e le ripetute esperienze sono per le congetture del fisico. Le congetture cono giuste? Più esperienze si compiono, più le congetture vengono verificate. Le ipotesi sono vere? Più conseguenze se ne traggono, più verità esse abbracciano, e più guadagnano in forza e in evidenza. Al contrario, se le congetture e le ipotesi sono deboli o infondate, o si scopre un fatto o si giunge a una verità di fronte alla quale esse falliscono[64].

 

In pillole: congetture e confutazioni[65]. D’altronde già nei Pensieri filosofici si sosteneva che:

Ciò che non è mai stato messo in dubbio non è ancora dimostrato. Ciò che non è mai stato esaminato senza prevenzioni non è stato mai ben esaminato[66].

 

È proprio nell’idea della confutazione e del perfezionamento che si trova uno dei cuori della filosofia della scienza diderotiana. Un ideale della divulgazione pubblica per acquisire nuovi manovali che contribuiscano a loro volta al sapere. Un metodo basato sui fatti e su un rapporto indissolubile tra teoria e pratica, che escluda ogni possibilità di concetti immaginativi non provabili. Un lavoro di gruppo, e non una personale incursione sistemica che ambisca esclusivamente alla gloria o al camuffamento scientifico di un dogma. E infine – anche per lottare contro la già accennata “lentezza” cui la natura costringe gli interpreti – un’apertura alla posterità che si fa lascito di congetture da verificare e di domande a cui rispondere: il Novecento avrà i problemi di Hilbert, il Settecento quelli di Diderot[67].

L’opera si chiude, infatti, con quindici questioni indirizzate all’avvenire, a dimostrazione che il sapere necessità soprattutto di domande ben poste:

Quando volgo il mio sguardo ai lavori degli uomini e vedo da ogni lato città edificate, tutti gli elementi utilizzati, le lingue ben stabilite, popoli civilizzati, porti costruiti, i mari attraversati, la terra e i cieli misurati, il mondo mi sembra vecchio. Quando invece mi accorgo che gli uomini sono incerti sui primi princìpi della medicina e dell’agricoltura, sulla proprietà delle sostanze più comuni, sulla conoscenza delle malattie delle quali sono afflitti, sulla potatura degli alberi, sulla forma dell’aratro, la terra mi sembra abitata solo da ieri. E se gli uomini fossero saggi, si dedicherebbero finalmente a ricerche relative al loro benessere, e risponderebbero alle mie futili questioni soltanto fra mille anni al più presto; o forse, considerando senza posa il breve tratto che essi occupano nello spazio e nel tempo non si degnerebbero mai di rispondermi[68]


[1] Il termine enciclopedia deriva infatti dal latino rinascimentale encyclopaedia, a sua volta nato dal greco come “istruzione circolare” cioè “insieme di dottrine che formano una educazione compiuta”. Diderot opta per tradurre con “concatenazione di conoscenze”. La grande avventura dell’Encyclopédie, che Diderot guidò nonostante le problematiche quasi insormontabili per un uomo comune, è un omaggio all’ampiezza della conoscenza, della scienza, delle arti, e forse della vita stessa; il sapere si snoda in una labirintica varietà di cammini e di approcci mai definitivamente chiusi, che svelano infiniti punti di osservazione del reale. Tra le varie traduzioni italiane, si veda D. Diderot, Enciclopedia, in Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (1751), a cura di Paolo Casini, tr. it. Laterza, Roma-Bari 2003, p. 585.

[2] Non mancheranno però altri spunti, si vedano per esempio le chiare ascendenze scientifiche del lirismo del Sogno di d’Alembert, ma non avranno tale sistematicità.

[3] Sicuramente la questione del genio sarà affrontata e riconosciuta, lo vedremo, ma mai per riconoscere alle singolarità estrose la possibilità esclusiva di un percorso autonomo.

[4] D. Diderot, Interpretazione della natura (1753), in Opere filosofiche, a cura di P. Rossi, tr. it. Feltrinelli, Milano 1963, pp. 119-120. Rossi nell’introduzione all’Interpretazione ricostruisce anche la storia dell’opera.

[5] D. Diderot, op. cit., p. 147.

[6] Ibid., p. 148, corsivo mio.

[7] Ibid.

[8] Ibid., p. 129.

[9] Ibid., p. 160.

[10] Ibid., p. 123, corsivo mio.

[11] Il tema del privilegio – e la frustrazione derivante – era qualcosa che il philosophe ben conosceva, anche grazie al contatto frequente con il mondo proto-industriale a cui fu costretto dalle sue ricerche enciclopediche, per non parlare dei suoi personali problemi con la censura.

[12] F. Venturi, Le origini dell’enciclopedia (1946), Einaudi, Torino 1963, pp. 117-118.

[13] D.Diderot, op. cit., p. 120.

[14] Ibid., pp. 120-121.

[15] È chiaro che sul punto Diderot e d’Alembert poterono rompere completamente; il distacco tra i due, come ricorda anche Vernière, è ideologico prima ancora che strategico. Si veda, anche, per una presentazione dell’opera P. Vernière, Introduction, in D. Diderot, Oeuvres philosophiques, Garnier, Paris 1990, pp. 167-173.

[16] D. Diderot, op. cit., pp. 121-122.

[17] E. Cassirer, La filosofia dell’illuminismo (1932), tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 112.

[18] Al contrario, ne era appassionato, se non cultore: egli nel 1748 aveva anche scritto Mémoires sur différents sujets de mathématiques; oltre a rendere il matematico Saunderson il protagonista della straordinaria Lettre sur les aveugles del 1749.

[19] A.M. Wilson, Diderot: gli anni decisivi (1957), tr. it. Feltrinelli, Milano 1971, p. 199.

[20] E. Cassirer, op. cit., p. 114.

[21] D. Diderot, op. cit., p. 130.

[22] R. Carnap, Superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio (1931), in Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, UTET, Torino 1969, pp. 530-531.

[23] E. Cassirer, op. cit., p. 114.

[24] D. Diderot, op. cit., pp. 130-131.

[25] Ibid., p. 131.

[26] Ibid., p. 132.

[27] Ibid., p. 133.

[28] Ibid., p. 148.

[29] «Voi consigliate di occuparsi innanzi tutto della ricerca di un principio generale salvo specificare le eccezioni. Non capisco per niente questo tipo di logica. Che bisogna crearsi in testa un principio generale, ma mi sembra che ci sia nelle scienze, nei mestieri, un metodo che è esattamente l’opposto del vostro. Si comincia con casi particolari; a forza di casi particolari, esaminati in sé stessi e paragonati ad altri, si notano rassomiglianze e differenze, e ci si formano nozioni più o meno generali, teorie più o meno estese. Sono i fatti, i fenomeni sussistenti che servono da gradi per innalzarsi, e non le speculazioni astratte da gradini per discendere. Prima di avere dei fenomeni in testa, non abbiamo nulla», D. Diderot, Apologia dell’abate Galiani (1770), in Scritti Politici (1967), a cura di F. Diaz, tr. it. Mondadori, Milano 2008, p. 161. Questo ritorno alla distinzione tra cause finali e efficienti pone Diderot sulla scia del suo grande maestro scientifico Bacon. Il parallelo con Bacon, che Diderot studiò pare per 10 anni, è in ogni caso centrale per l’Interpretazione. Wilson, op. cit., p. 193, non a caso, parla dell’Interpretazione come nel Novum Organum del XVIII secolo. Per Jean Luc lo scritto è invece il «Discorso sul metodo del XVIII secolo», cfr. J. Luc, Diderot, Paris 1938, p. 107. Possiamo dire, seguendo Paolo Rossi, che ci siano tre punti principali di connessione tra Diderot e Bacon: ritorno alle cose; tentativo di convergenza di teoria e pratica; individuazione del problema sul sapere scientifico tecnologico come centrale per l’epoca. Inoltre, sia il nome dell’opera, derivante dai Cogitata et Visa vive de Interpretatione natura, sia molti spunti e immagini, sia la presa di posizione antimatematica, sono certamente ispirati da Bacon. Diderot si distacca nettamente però sul valore delle ipotesi, sulla considerazione per il genio e sulla precisa preferenza biologica. Si veda nella già citata introduzione di P. Rossi all’Interpretazione, in D. Diderot, Opere filosofiche, cit., p. 117. Rossi rimanda inoltre a H. Dieckmann, The influence of F. Bacon on Diderot’s Interpretation de la nature, in «Romanic Review», 1943, pp. 303-330.

[30] Cfr. J.-B. d’Alembert, Discorso preliminare all’Enciclopedia (1751), tr. it. Fabbri, Milano 1978. L’intero Discorso preliminare è intessuto di riferimenti del genere, in cui si indicano in Condillac e nel suo Traité des systèmes il colpo decisivo ai rigidi sistemi del passato. Metafisica razionale quindi da superare, con l’unico distinguo delle toccate di verità che, del tutto casualmente, possono scaturirne. Come si legge nell’Encyclopédie: «Lo spirito sistematico non è meno dannoso al progresso della verità. Per spirito sistematico non intendo quello che collega una verità ad un’altra, al fine di formare delle dimostrazioni, poiché questo non è altro che il vero spirito filosofico, ma intendo quello spirito che costruisce piani, e forma sistemi dell’universo entro cui vuole poi inserire per amore o per forza i fenomeni», voce Philosophie dell’Encyclopédie. Questa versione è contenuta in A.M. Wilson, op. cit., p. 197. Consultabile anche sul portale ENCCRE, http://enccre.academie-sciences.fr/encyclopedie/article/v12-1255-0/.

[31] J.-B. d’Alembert, op. cit., p. 16.

[32] L’impossibilità di un sistema sarà poi il terribile cruccio nell’etica diderotiana; il bonheur è assolutamente non passibile di generalizzazione.

[33] E. Cassirer, op. cit., pp. 133-134.

[34] D.Diderot, Interpretazione della natura, cit., p. 122.

[35] Ibid., p. 130, corsivo mio.

[36] Ibid., p. 123.

[37] Ibid., p. 150.

[38] Ibid., p. 123.

[39] Diderot è consapevole di come la ricerca scientifica possa anche sfuggire di mano, e sottolinea che la base del viaggio scientifico non fu la curiosità intellettuale bensì la paura della natura; ma il philosophe si sforza comunque di valutare in che misura la scienza abbia almeno cercato di contribuire alla felicità umana. «Se l’uomo nascendo trova un nemico, e un nemico terribile, se questo nemico è infaticabile, se ne viene perseguitato senza posa, se non può ripromettersi una qualche superiorità se non con forze riunite, egli dovette essere portato molto presto a questa riunione di forze. Questo nemico è la natura, e la lotta dell’uomo contro la natura è il primo principio della società. La natura l’assale con i bisogni che gli ha dati e con i pericoli ai quali l’ha esposto; egli deve combattere l’inclemenza nelle stagioni, le carestie, le malattie e gli animali. Forse egli ha spinto la sua vittoria molto più lontano di quanto non abbisognasse alla sua felicità; perché c’è una bella distanza dalla punta della freccia all’idolo cinese. Ma tutto è venuto a catena, dopo il primo slancio dello spirito umano; ed è impossibile indovinare dove si fermerà», Colloqui con Caterina II (1773), in Scritti Politici, cit., pp. 279-280.

[40] Id., Interpretazione della natura, cit., p. 125.

[41] Ibid.

[42] Ibid., p. 151, corsivo mio.

[43] Ibid., p. 163.

[44] Ibid., p. 122.

[45] Ibid., p. 128.

[46] Ibid.

[47] Ibid., p. 134.

[48] Ibid. L’esempio di Socrate non è casuale. Diderot fu spesso paragonato all’ateniese. Vedi F. Venturi, Giovinezza di Diderot (1939), Sellerio, Palermo 1988, p. 166.

[49] D. Diderot, Interpretazione della natura, cit., p. 134, in corsivo nell’originale.

[50] Ibid., p. 146.

[51] Ibid., pp. 144-145.

[52] Rimando qui a C. Duflo, Diderot philosophe, Honoré Champion, Paris 2013.

[53] E. Cassirer, op. cit., pp. 133- 134.

[54] «La storiografia più recente ha chiaramente messo in luce l’importanza delle tesi evoluzionistiche sostenute da Diderot; al quadro statico e classificatorio tradizionale Diderot sostituisce un quadro dinamico della realtà naturale introducendo nel pensiero moderno il concetto – poi così ricco di impreveduti sviluppi – di trasformismo», P. Rossi, Introduzione all’Interpretazione della natura, cit., p. 117.

[55] D. Diderot, Interpretazione della natura, cit., p. 166.

[56] Ibid., p. 126.

[57] Id., Il Sogno di d’Alembert, in Opere Filosofiche, cit., p. 180.

[58] Henry Lefebvre afferma che «l’importanza dei Pensées sur l’interprétation de la nature nella storia della filosofia della scienza, della scienza stessa e del pensiero umano non può esser mai troppo esaltata», citato da A.M. Wilson, op. cit., p. 200.

[59] D. Diderot, Interpretazione della natura, cit., p. 162.

[60] Ibid., p. 167.

[61] Ibid., p. 124.

[62] Ibid., pp. 150-151.

[63] Ibid., p. 154.

[64] Ibid., p. 157.

[65] Congetture e confutazioni, come un’importante raccolta di scritti di Karl Popper.

[66] D. Diderot, Pensieri filosofici, in Opere Filosofiche, cit., p. 32.

[67] I Problemi di Hilbert costituiscono una lista di 23 problemi matematici stilata da David Hilbert e presentata l’8 agosto 1900 nella sua conferenza del Congresso internazionale dei matematici svoltasi a Parigi; essi hanno avuto una notevole portata nella matematica del XX secolo.

[68] D. Diderot, Interpretazione della natura, cit., p. 168, corsivo mio.

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