Autore
Indice
- Introduzione
- Tra le rovine della rappresentazione
- Éveiller le vivant du corps
- Quid Corpus possit
S&F_n. 19_2018
Abstract
Immediate power of excogitation. For a body “ecology” without representation
This essay explores the possibility of an ecological model of knowledge which stresses the immediacy of the relationship between individual and its environment on the basis of a holistic mind-body perspective. The aim is to emphasize the primacy of a non-conceptual and non-symbolic cognition in order to reclaim the spontaneous inventiveness of living body acting and perceiving in the world before the intervention of reflective consciousness. Despite their different backgrounds, the guiding principal which links the authors discussed is the rejection of representation considered as the original act of the internal/external mediation. The common aim is to release the body from its instrumental role in relation to consciousness and to recognize its “implicit” explorative power, leading to new significations of the Self. The starting point is the pragmatic turn assumed by some phenomenological positions of French xx century’s scenery which are read in line with the anti-representational approach of embodied model proposed by cognitive sciences. Particular attention is given to “corporeal ecology”, paradigm developed by the most recent reflections of body epistemology, which is intended as an integrative perspective between the externalism of a reductive materialism and the internalism of an egological pattern. The last section takes Spinoza’s psychophysical monism as a relevant contribution to restore the evenemential aspect of knowledge arising from the emphasis given to the body expressing itself beyond the capability of representational consciousness.
- Introduzione
«Cosa può un corpo?»: per Deleuze, lettore di Spinoza, si tratta ancora dell’«unica questione degna di essere posta»[1] alla contemporaneità. Identità fluttuante, campo di forze e di ibridazioni, terra di decomposizioni e ricomposizioni. Se la “cosa” è, per natura, inquieta, è alla dýnamis del corpo che spetta l’ultima parola sull’individuo. E non per sottrarlo, in termini oppositivi, alle disposizioni dello spirito. Quello del dualismo delle sostanze è un paradigma invecchiato. La svolta enattiva, imboccata dalle scienze cognitive a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, lo dice chiaramente: riabilitare la natura incarnata dell’intelligenza cognitiva è ormai emergenza inaggirabile per rompere con la sedimentata illusione di stampo internalista di una conoscenza che si pretenda autonoma dalla prova di sé nella materia. Le riflessioni più recenti sul tema[2] ribadiscono con vigore la necessità della fondazione di una filosofia materialista del corpo pensante, capace di trovare la chiave della cognizione al di là di un mondo pre-dato in senso realista o idealista. La sfida intrapresa pare muoversi in direzione di un olismo che – non senza un certo margine di rischio – rivendichi per sé una risposta non riduzionistica alla complessità del sistema vivente. Tra fenomenologia e scienze cognitive, un’attitudine epistemologica anti-rappresentazionalista[3] diviene il punto di snodo per cogliere l’immediatezza pre-riflessiva dell’azione: unica possibilità di attenuare le distanze tra interno ed esterno e di ricondurre la dicotomia a unità costitutiva del processo di auto-organizzazione dell’individuo. Dalla pro-iezione all’enaction, l’inversione di paradigma segna la proposta di un modello “ecologico” della cognizione, che contesti il ricorso alla rappresentazione quale veicolo di un’informazione oggettiva sull’ambiente[4], per assumere – come fa Alva Noë – che «the locus of consciousness is the dynamic life of the whole»[5].
Quali conseguenze? La vita eccede, la coscienza è in ritardo e l’Identità abbandonata ai margini di un nuovo “potere di escogitare”: in ciò che pareva più proprio s’insinua un certo “silenzio” del corpo. E Spinoza, prima di tutti, lo lasciava parlare…
- Tra le rovine della rappresentazione
In ambito fenomenologico, il rifiuto più o meno esplicito per il modello rappresentazionista si gioca su un terreno reso particolarmente fertile, non soltanto, dall’anti-cartesianesimo di Heidegger con la sua decostruzione del cogito me cogitare, ma, soprattutto, da una certa recezione critica di Husserl che, nella Francia della prima metà del ‘900, inaugura percorsi filosofici dalla curvatura decisamente più pragmatica. Recupero significativo per comprendere in che misura l’abbandono della conoscenza come composizione simbolica e dis-incorporata vada, di pari passo, con il progressivo depotenziamento delle pretese costitutive della coscienza: verso la rivalutazione anti-dogmatica del percepire come modo stesso dell’agire[6].
Per dirla con Merleau-Ponty – riferimento senz’altro prediletto e ormai ampiamente assimilato dai recenti sviluppi della scienza cognitiva:
L’esperienza motoria del nostro corpo non è un caso particolare di conoscenza, ma ci fornisce un modo di accedere al mondo e all’oggetto, una «praktognosia» che deve essere riconosciuta come originale e forse come originaria[7].
Ecco intravedersi, nella motilità come possibilità più intima di dialogo con la sensibilità, la chiave di un apprendimento che non necessita di fare appello a intermediazioni oggettivanti. Non rappresentabile cognitivamente come dato interno alla coscienza, il corpo proprio inventa la sua storia, agendo in contatto diretto con il mondo, acquisendo, cioè, delle abilità, destinate a essere immagazzinate come disposizioni sempre più elaborate in relazione alla specificità situazionale[8]. Ciò che ne deriva è un’immediata proporzionalità tra lo sviluppo della motricità e quello della cognizione, che modifica senza sosta la percezione soggettiva del mondo: «Quando porto la mano verso un oggetto» – leggiamo ancora in Phénoménologie de la perception – «io so implicitamente che il mio braccio si allunga. Quando muovo gli occhi, tengo conto del loro movimento» pur «senza prenderne espressamente coscienza»[9]. Il riconoscimento di questa “assimilazione” corporale e non rappresentativa del mondo conduce, dunque, Merleau-Ponty a definire la coscienza come il modo stesso di «inerire alla cosa tramite il corpo»[10] proprio.
Resta, tuttavia, da chiedersi se questa miità che pare imporsi tra le pieghe dell’implicito del corpo non ne infici la pretesa originarietà rispetto alla conscience expresse. Detto in altri termini, questa permanenza del proprio non sarebbe ancora un residuo dell’attività costituente della coscienza, altra faccia di una soggettività che guadagna il suo accesso al mondo attraverso una strumentalizzazione del corpo[11]?
Eppure, aveva ribadito Sartre ne l’être et le Néant: «non ci sono “fenomeni psichici” da unire al corpo; non c’è niente dietro il corpo … il corpo è tutto “psichico”»[12]. Una posizione, quella sartriana, che – sebbene meno rivendicata come fonte d’ispirazione dai fautori dell’enaction[13] – sembrerebbe anticiparne a pieno titolo la tesi anti-rappresentazionista. Prova ne sia il primato accordato – sin da La transcendance de l’Ego – al cogito pre-riflessivo o «coscienza non posizionale (di) sé» sulla coscienza riflessa. Con più precisione, pena una regressione all’infinito: «quando corro dietro a un tram, quando guardo l’ora, quando mi immergo nella contemplazione di un ritratto, non c’è Io»[14]. In questa aderenza al mondo, sempre accompagnata da una coscienza non tetica di sé, non ci sarebbe ancora, in altri termini, quell’Io che apparirà soltanto come oggetto esperienziale attraverso un atto riflessivo di messa a distanza. Ecco il motivo per il quale il corpo, in Sartre, sarebbe sempre il trascurato, il passato sotto silenzio, pur restando, niente di meno di «ciò che [la coscienza] è» laddove tutto «il resto è nulla e silenzio»[15]. In ragione dell’impossibilità di assumere un punto di vista globale su di esso, la conoscenza del corpo quale è per me – percipiente e agente nel mondo – non potrà mai declinarsi in maniera tematica. È in tal senso che
la coscienza (del) corpo, essendo coscienza laterale e retrospettiva di ciò che è senza doverlo essere, cioè della sua inafferrabile contingenza […] è coscienza non-tetica del modo in cui è affetta[16].
Dovremmo, dunque, identificare il piano irriflesso, in cui il corpo non si dà se non come un implicito, con il dominio dell’incosciente? Sartre pare scartare, con fermezza, questa ipotesi e il suo riferimento al caso del dolore agli occhi durante la lettura è eloquente. Il fatto che il dolore mi affetti senza nessun «misterioso “segno locale” né di conoscenza»[17] non significa che esso sia «cognitivamente assente»[18], altrimenti non potrei giungere neanche a identificarlo come «dolore degli occhi» attraverso un «atto riflessivo ulteriore»[19]. Più semplicemente – come rileva Shaun Gallagher – prima di essere pensato, il dolore costituirebbe il «modo specifico in cui il mondo viene esperito … un'atmosfera affettiva che influenza l'interazione intenzionale con esso»[20].
Sul piano della coscienza irriflessa tutto taceva. Ma l’avvento di un’esperienza limite quale la sofferenza fisica, un trauma, l’inaspettata apparizione dello sguardo d’Altri giunge a intralciare l’equilibrio con l’ambiente. Ecco che il corpo vivente «immediatamente in situazione»[21], cioè in azione, esce dall’«anonimato pre-noetico»[22] per darsi come oggetto all’attenzione coscienziale. Pima di allora «non compariamo […] davanti a noi stessi per poi gettarci nelle azioni»[23] perché «l’immediato è il mondo con la sua urgenza»[24] e il mondo reclama una coscienza che, epurata dei suoi contenuti «si abbandona al corpo, vuole essere il corpo e solo il corpo»[25]: intelligenza sensorio-motrice, pre-rappresentativa e pre-egologica. Semplificando la posizione di Sartre, si potrebbe dunque asserire che, al livello impersonale dell’irriflesso, la coscienza non potrebbe avanzare alcuna pretesa di proprietà sul corpo per sé, in quanto essa è già, nel suo insieme, questo corpo esistito e operante nel segreto dell’azione che nasce. «Le plan irréfléchi» è, immediatamente, «domaine du psycho-physique»[26].
Quell’“io penso”, che in Husserl continuerebbe ad aleggiare dietro l’“io posso” del corpo proprio, è allora davvero mediazione necessaria al mio “fare e disfare”?
Scivoliamo, lentamente, Vers le concret[27]:
La sensibilità, la prossimità, l’immediatezza e l’inquietudine che in essa significano – dirà Lévinas – non si costituiscono a partire da un’appercezione qualunque che mette la coscienza in rapporto con un corpo: […] l’esperienza sensibile del corpo è fin d’ora incarnata[…]. Il sensibile […] annoda il nodo dell’incarnazione in un intrigo più ampio dell’appercezione di sé[28].
Né costituenti, né costituiti, ma un accadere che depotenzia il sapere «per penetrare nell’intimità delle cose»[29]. Conservando dell’intenzionalità husserliana solo il carattere di transitività, Lévinas ne stravolge tuttavia gli esiti: la “franchezza” della materia è spontaneità del contatto e il sentire come «modo di nutrirsi del mondo»[30] non può che condurre alla ruine de la représentation[31]. La morale des nourritures terrestres ne annunciava già l’emendabilità: il mondo di cui si vive e in cui ci si situa corporalmente senza venirne assimilati non si dispiega «come un fondale» costituito da un’intenzione di tipo rappresentativo[32]. Piuttosto, è un «gioioso appetito per le cose»[33] a direzionare l’azione verso «ciò che mi nutre e impregna», verso una vita che, al di sopra di ogni costruzione assiologica, è, primariamente, «alimento e ambiente»[34], «ingenuità» della consumazione. Siamo nel campo di un’intenzionalità non teorica, in cui i confini tra lo psichico e il fisiologico sfumano di necessità e forse anche più di quanto Lévinas non fosse disposto ad ammettere. A metà strada tra l’attività e la passività, il corpo, possesso mai veramente posseduto e «punto di incrocio di forze-fisiche»[35], enagisce direttamente il suo mondo, si radica nell’altro da sé del bisogno, realizzando, al contempo, la sua autonomia. Non siamo forse troppo lontani – con le dovute riserve del caso – dalla proposta ecologica di Gibson, volta a riconoscere nel legame biunivoco individuo/ambiente la chiave di una via non rappresentazionale per la percezione: atto di un corpo agente, che non incontra l’ostilità di una resistenza, ma coglie in diretta «what [environment]» «offers», «provides or furnishes»[36] in termini di possibilità adattive[37].
Come una sovversione del vissuto in vivere di, giungiamo, con la jouissance levinasiana, alle porte della cognizione incarnata. Senza passare, di necessità, attraverso «the full light of consciousness»[38].
- Éveiller le vivant du corps
«Noi proponiamo un modo di intendere la cognizione non come una rappresentazione del mondo esteriore ma piuttosto come una emergenza continua di un mondo attraverso il processo della vita in se stessa»[39]. Un’avvertenza, quella sollevata da Maturana e Varela sin dalle prime pagine de L’albero della conoscenza, dalla quale pare risuonare forte – anche laddove non esplicitamente accolta – tutta l’eco anti-dogmatica che orientava la via francese alla fenomenologia. Il messaggio è chiaro: aggirare «la pericolosa navigazione» intorno al «mostro del rappresentazionismo»[40] che, al di là delle sue possibili configurazioni, resterebbe sempre un modo di frammentare il mondo per fissarne i pezzi acquisiti in una norma estranea al divenire dell’azione[41].
A essere in gioco, dietro la lacerazione di un simile paradigma conoscitivo, è, allora, la rivendicazione di un atto di libertà. Al di fuori dell’interazione diretta con l’Umwelt, nessuna apertura sul nuovo, infatti, potrà rendere giustizia alla potenza creatrice che investe – ben prima dell’azione di un medium – la spontaneità del vivente nella sua autonomia. La priorità conferita alla situatività incarnata della cognizione riattiva, al contrario, la natura evenemenziale di una conoscenza che, alla vischiosità di un passato acquisito, predilige gli inconsueti percorsi, aperti dalla praxis adattiva dell’individuo all’ambiente. In altri termini, la cognizione non può più risolversi – come accadeva per una sedimentata tradizione di stampo computazionalista – in un’intelligenza volta a esercitare la propria azione manipolatrice sul mondo sulla base di regole universali. L’adozione di un comportamento intelligente, come invitava a riconoscere Hubert Dreyfus negli anni ‘70, sarebbe legata a un’abilità di progettazione che non può essere data in avanzo, ma si modellizza in relazione alle potenzialità sensorio-motrici del corpo in contesto. È proprio qui, secondo l’autore di What computers still can’t do, che si determinerebbe la frattura incolmabile tra l’elasticità di un pensiero, che si sperimenta in quanto corpo agente nel mondo e il carattere predestinale di una ragione artificiale, limitata alla produzione di inferenze logiche. A differenza della macchina, incapace di aggiornarsi rispetto allo statuto trasformativo dell’esperienza che pretende tuttavia di decodificare, il corpo, ribadisce Dreyfus:
can constantly modify its expectations in terms of a more flexible criterion: as embodied, we need not check for specific characteristics or a specific range of characteristics, but simply for whether, on the basis of our expectations, we are coping with the object[42].
Si tratta, in altre parole, di affrancare la funzione percettiva e motrice del vivente dal suo carattere meramente strumentale, per individuarne il ruolo cognitivo, al di qua della costruzione di un contenuto informativo[43].
Di recente, il filosofo ed epistemologo Bernard Andrieu ha significativamente definito «ecologizzazione immediata»[44] questo processo di tipo immersivo tra organismo e ambiente, che scivola dalle mani della rappresentazione a favore di una conoscenza, intesa come esercizio pre-riflessivo e auto-regolativo. Una complicità originaria riaffiora, laddove l’attitudine posizionale non vedeva che distanze irrimediabili: senza dover attendere un’eventuale intercessione coscienziale, il corpo vivente incontra l’eccesso del sensibile, si trova a dover fare i conti con la sua natura invasiva. E questo non per subirne gli effetti, quanto, piuttosto, per comunicare con essa in senso interattivo e riorganizzare, così, le coordinate della cognizione.
Se vivere – come ricordava Lévinas – è «una sincerità» che esplode dall’immediatezza del godimento, la nuova “ecologia del corpo” pare voler recuperare quella «gloriosa spontaneità dell’essere vivente»[45], troppo spesso obliata in nome di costruzioni semantiche, pregiudizialmente riservate al noetico. La comunicazione diretta e pre-concettuale con il dato iletico struttura, al contrario, il mondo corporale, facendone un sistema aperto: « la porosité du corps vivant » – puntualizza Andrieu – «est celle d’un écosystème en équilibre dynamique dont le tout doit sa forme aux mouvements des parties qui le composent. […] Cette écologisation est une régulation»[46].
Sul piano neurofisiologico, le sperimentazioni condotte in vivo, attraverso gli odierni dispositivi di misurazione della funzione cerebrale, proverebbero che, nel momento stesso in cui il corpo sta per compiere un’azione, un’attivazione pre-motrice delle reti neurali si produrrebbe in maniera involontaria: dato che testimonia dello scarto tra la profondità impredicibile di ciò che accade al livello di questa ecologia corporale e ciò che il soggetto è capace di restituire in termini di descrizione cosciente. La co-abitabilità tra corpo e ambiente rivela, dunque, l’intersezione imprescindibile tra le capacità adattive della cognizione e quella che Andrieu definisce «l’arte plastica»[47] della materia vivente, mobilità auto-rigenerativa e riparatrice nonché risorsa prima di un processo di individuazione sempre a-venire.
Ma se l’implicazione mutuale, che annoda il corpo vivente al mondo, non può che declinarsi in senso ante-predicativo, ci si può chiedere in che misura questo paradigma olistico mantenga la promessa di non-riduzionismo o non celi, piuttosto, un’interpretazione meramente fisicalistica del fatto psichico. In effetti, se «le sentant de notre corps sensible n’est pas le senti»[48], che ne è di quel vissuto coscienziale, che la tradizione husserliana riconquistava con fatica dal terreno della naturalizzazione? Cosa, in altre parole, di quel Leib risorto dallo sguardo oggettivante della scienza positiva?
Questione tutt’altro che anodina, che tocca da vicino un nervo ancora scoperto nell’ambito del dibattito contemporaneo, circa l’eventuale legittimità di sintesi tra fenomenologia e scienze empiriche. Lungi dal tentare, in questa sede, una ricostruzione sistematico-critica delle molteplici posizioni metodologiche assunte dai vari fautori dell’entre-deux – progetto ormai noto sotto il nome di naturalizing phenomenology[49] – si vuole piuttosto conservare, sulla scia della nuova “écologie corporelle”, l’invito essenziale di Andrieu: imparare a «éveiller le corps vivant», abbandonare la pretesa di poterne spiegare tutte le ragioni e cominciare a sentirne le vibrazioni interne, lasciarsi attraversare dalle tracce lasciate sul fondo della sua memoria dalle perturbazioni esogene accolte. Insomma, si tratta di riattivare il vivente del corpo per mostrare come le sue deliberazioni motorie e affettive travalichino, di necessità, le capacità contenitive del concetto. L’ecologia corporale che, come “emersiologia”, ammette questa sovrabbondanza spontanea del vivente sulla trasparenza del vissuto[50], può davvero essere letta come una deriva biologizzante, dimentica dell’esperienza soggettiva? La risposta non può che essere di tipo integrativo:
L’inconscient corporel est l’ensemble des habitus, techniques du corps, gestes et postures incorporés que nous accomplissons sans nous en rendre compte et qui incarnent notre style singulier. Constitué par notre culture matérielle, l’inconscient corporel […] est fondé sur le concept d’incorporation. Cela pose le problème de la constitution du corps. Il suffirait d’avoir un corps pour incorporer des sensations, des odeurs... Tout ce qui va singulariser la chair (Leib), la constitution biosubjective du sujet[51].
L’antecedenza conferita al corpo vivente, tessuto stratificato di un dialogo originale con il mondo, non pare tradursi, dunque, nella riduzione dell’esperienza vissuta a un’evanescenza. Piuttosto, una reciprocità nella determinazione ultima del senso è interpellata in quanto costitutiva del processo di soggettivazione. In altre parole, l’«intelligenza tacita»[52] e soggiacente del corpo vivo all’incontro con l’alterazione modifica la percezione soggettiva del corpo vissuto, che si rimodula in direzione di una coscientizzazione dinamica: «Le vivant invente notre vécu en le forçant, volontairement ou non, à s’ècologiser»[53], a uscire, cioè, dal regime incorrotto dell’ego trascendentale, per lasciare spazio al costituirsi di una nuova esperienza percettiva di sé. Una via mediana è così tracciata: se da un lato la vivacità del corpo vivente lo rende inassimilabile alla fissità di un mero dato biologico, dall’altro, l’incapacità della rappresentazione di coglierne tutta l’intensità sensoriale, relativizza le pretese di autonomia della coscienza, senza tuttavia condannarla all’esilio.
Ciò che ne emerge, è una soggettività cangiante, terra d’incrocio tra natura e cultura che il divenire armonizza: ferita impressa da un mondo non più pensato ma ricevuto senza scarto dal sentire.
«Io…chi “io”?» si è chiesto Jean-Luc Nancy dopo aver ricevuto un trapianto di cuore. «La cosa» – si rispondeva – «eccede le mie possibilità di rappresentazione»[54]. Ma un’evidenza, dietro la presunta sacralità dell’identità, oltre la «nicchia inespugnabile dalla quale dico “io”»[55], s’impone per il filosofo nella sua prosa più asciutta:
Semplicemente la sensazione fisica di un vuoto già aperto nel petto, con una sorta di apnea in cui niente, assolutamente niente, neppure oggi, riuscirebbe a districare per me l'organico, il simbolico, l'immaginario, né a separare il continuo dall'interrotto: […] come un unico soffio, […] un'unica impressione: di essere caduto in mare pur restando ancora sul ponte[56].
E, per concludere:
Io sono la malattia e la medicina, io sono la cellula cancerosa e l’organo trapiantato, io sono gli agenti immunodepressori e i loro palliativi, io sono i pezzi di filo di ferro che tengono insieme il mio sterno e io sono questo sito di iniezione cucito sotto la clavicola, così com’ero già queste viti nell’anca e questa placca nell’inguine.[…] L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette mai di alterarsi, insieme acuito e fiaccato, denudato e bardato […], conatus di un’infinità escrescente[57].
Eteronomia nel seno dell’autonomia. Non è proprio qui, nel pre-logico dell’«aperto chiuso»[58], di cui parla Nancy, che andrebbe ricercata l’«emergenza della vita in se stessa», l’irriducibilità della migrazione tra dentro-fuori che salverebbe l’epistemologia autopoietica dall’abisso del solipsismo[59]? Sconfitto il mostruoso della rappresentazione, l’immenso spazio del perfomativo sovverte l’effettività in generatività di possibili, mentre lo iato tra l’innato, il vissuto e l’acquisito sfuma in una comunicazione dialettica. Dinnanzi all’instabilità materiale che tutto trasforma è ancora possibile parlare di proprio? Quale destino per l’unità del sé? Questioni che paiono quasi stridere, a questo punto. La lezione ecologica di Andrieu ci insegna che lo si potrà stabilire soltanto après-coup, quando la temporalità dinamica della pratica corporale, che resta «si singulière à chacun», avrà fatto il suo corso; quando il sovrappiù del vivant sarà pronto a essere interrogato come vécu dalla coscienza.
Del resto, se a essere in gioco – secondo il vecchio adagio – continuano a essere le cose stesse (e non nel “cosa” del loro sostantivarsi, quanto, piuttosto, nel “come” del loro manifestarsi), bisognerà forse evitare di tracciare distinzioni troppo nette laddove il divenire fenomenale non partorisce che armoniche continuità.
Una volta lasciato il campo della pura speculazione teoretica, per dirla con Gallagher,
what actually happens between the body and the mind, it is merely a case of letting it happen[60].
- Quid corpus possit
Del resto, mentre la fenomenologia cerca, nei modi più differenti, di salvare lo spirito insistendo sull’irriducibilità del Leib al Körper e le scienze empiriche vanno a caccia di nuovi orizzonti per attenuare le proprie tendenze riduzionistiche, Spinoza aveva già compreso che il corpo vivente continua ad agire e che, più che più che interrogarlo, bisogna soltanto “lasciarlo accadere”. Lo spirito come idea di un corpo che esiste in atto: ecco ciò che oggi rende la ricerca di Spinoza[61] più che mai interessante. Sulle tracce dello spinozismo, scienze della mente, biologia e filosofia possono incontrarsi per denunciare la fallacia dell’annoso mind-body problem. Nessuna antecedenza, né causalità ma complementarità di un’unica sostanza: mens sive corpus che agisce e patisce,
frutto di un rapporto specifico di movimento e riposo, complesso al punto da continuare nonostante tutto a sussistere attraverso i cambiamenti che ne affettano le parti[62].
Nonostante tutto. Nonostante l’azione esercitata dai corpi esterni sul corpo individuale, regione composita che si auto-determina sullo sfondo di incontri possibili. La presunta coerenza di un ordine costituito del reale si dinamizza sul piano degli affetti, terra di perdite e di riconquiste, esposta al rischio dell’imprevisto, all’opacità di interazioni che chiedono di essere integrate.
La grande illusione della coscienza nascerebbe allora da un malinteso sostanziale: interpellare rapporti di causazione tra l’esercizio dello spirito e il movimento del corpo, laddove, al contrario «l’ordine o la concatenazione delle cose è uno solo […] e, conseguentemente, […] l’ordine delle azioni e delle passioni del nostro corpo concorda, per natura, con l’ordine delle azioni e alle passioni della mente»[63]. Spinoza nel prisma di un materialismo eliminativista? Secondo Henri Atlan[64], si tratta di una lettura ormai abusata, che chiama in causa un tentativo, quello di naturalizzare lo spirito, del tutto estraneo a quel progetto speculativo. Spossessare lo spirito dal suo presunto diritto di antecedenza sul corpo non significa asservirlo a esso sullo sfondo di un orizzonte riduzionistico. Al contrario, se si insiste sull’idea di monismo psicofisico come ordine che interpella lo stesso oggetto, concepito da due prospettive differenti, ci si accorge – ribadisce Atlan – che le esigenze dell’idealismo sono preservate in misura uguale a quelle del materialismo. Parlare di «parallelismo delle sostanze» – secondo i dettami di una convenzione interpretativa consolidata – sarebbe allora già fazioso. Un’opzione da scartare, in altri termini, per evitare di inciampare nell’ipotesi di un’armonizzazione possibile tra sostanze eterogenee. Piuttosto, si tratta di accogliere una verità che Deleuze, in costante dialogo con Spinoza, accorre a illuminare:
[…] mostrare che il corpo va oltre la coscienza che se ne ha, e che nondimeno il pensiero oltrepassa la coscienza che se ne ha. Non vi sono meno cose nella mente che oltrepassano la nostra coscienza che cose nel corpo che sorpassano la nostra conoscenza. È dunque per un solo e medesimo movimento che arriveremo ad afferrare la potenza del corpo al di là delle condizioni date della nostra conoscenza e a cogliere la potenza della mente al di là delle condizioni date della nostra coscienza. […] In breve, il corpo, secondo Spinoza, non implica alcuna svalorizzazione del pensiero in rapporto all’estensione, ma, cosa assai più importante, una svalorizzazione della coscienza in rapporto al pensiero, una scoperta dell’inconscio, e di un inconscio del pensiero, non meno profondo che l’ignoto del corpo[65].
A percorrere l’unità psicofisica del vivente è allora un unico movimento: fluttuazione perpetua del conatus rispetto al quale è la coscienza e non il pensiero a essere sempre in ritardo. Quando un corpo è affetto, lo è ipso facto anche lo spirito e una tale coincidenza – come mostra giustamente Deleuze – non può non accadere che alle spalle della conoscenza adeguata.
Nessun sapere potrà mai anticipare, infatti, cosa può un corpo, prevedere gli scenari inediti che l’esposizione al proprio ambiente dischiude. È così che il riferimento deleuziano all’«inconscio del pensiero» non rigetta l’Ethica nell’ombra di un puro meccanicismo ma si limita a indicare alla coscienza – «necessariamente confusa e mutila»[66] – la strada per rinunciare alla sua funzione costituente. Azione necessaria per smascherare, con Spinoza, i falsi miti prodotti da quell’intellettualismo etico che avrebbe fatto di Adamo il trasgressore di un divieto divino, laddove si trattava soltanto di un cattivo incontro.
Deleuze lo ribadisce con forza:
Per Spinoza, il male che un uomo può subire è sempre del tipo indigestione, intossicazione, avvelenamento[67].
Un frutto esercita la sua azione velenosa su un corpo e determina la scomposizione del rapporto costituente a esso sotteso. Nulla di più, insomma, di una legge immanente all’ordine naturale, che la coscienza – sempre rivolta agli effetti – avrebbe convertito, ex-post, in proibizione eteronoma. Dietro alla permanenza della rappresentazione e agli orpelli della volontà, il carattere verbale del vivere è presto riscoperto da uno Spinoza “protobiologo”, per cui ogni assetto precostituito si disfa sul terreno dell’occursus, a un tempo fonte dell’incremento o dell’inibizione della vis existendi dell’individuo. Dall’etica all’etologia[68], la linea interpretativa, proposta da Deleuze, è forse meno azzardata di quanto possa sembrare. Tra bene e male, salute e malattia, vita e morte, lo scarto non sarebbe da ricercare che nell’accordo, o nel disaccordo, prodotti da interazioni di tipo coesivo o distruttivo tra corpi nonché tra idee. Per dirlo altrimenti: «ciascuno appetisce o avversa necessariamente per le leggi della sua natura ciò che giudica essere buono o cattivo»[69]. Valutazione che non ha nulla a che fare con l’apriori di una scelta d’ordine morale, ma si annoda, piuttosto, all’azione tensionale verso la cosa che la rende più o meno desiderabile, che la scopre più o meno coerente al proprio sistema abitativo. Determinismo naturalistico? È una lettura legittima, che rischia, tuttavia, di restare parziale, se non si tiene conto del fatto che il muro da infrangere, per Spinoza, non è la libertà, ma il libero arbitrio: costruzione utopistica, che ignora come «dalla natura, considerata sotto qualunque attributo, seguono infinite cose»[70]. Una su tutte: la meraviglia esplorativa di un corpo vivente e agente che non si limita alla mera locomozione da un punto all’altro dello spazio esteso ma si fa depositario, unitamente allo spirito, di valori in transizione.
[…] Diranno di sperimentare – si legge in margine alla seconda proposizione dell’Ethica – che se la mente umana non fosse atta ad escogitare qualcosa il corpo sarebbe inerte. […] Ma […] io chiedo loro se l’esperienza non insegni parimenti che se, viceversa, il corpo è inerte, la mente è nello stesso tempo incapace di pensare. […] Credo, poi, che tutti abbiano sperimentato che la mente non sempre è ugualmente atta a pensare sul medesimo oggetto, ma, a seconda che il corpo è più atto a far suscitare in sé l’immagine di questo o di quell’oggetto, anche la mente è più atta a considerare questo o quell’oggetto[71].
È in questo «potere di escogitare», allora, la risposta - mai definitiva- sul quid Corpus possit. Cifra della simultaneità dello psichico e del fisiologico, l’agentività diviene condizione di apertura su nuovi orizzonti di significazione, vis-à-vis con le esigenze concrete della situazione ambientale. In termini spinoziani, «ciascuno, infatti, regola tutto a seconda del suo affetto»[72] ed è proprio qui che andrebbe cercata la vera libertà, nella comprensione di questa dinamica per la quale, alla sollecitazione prodotta dall’affezione, può rispondere – in maniera più o meno attiva – una certa «disposizione del corpo» ovvero un certo «decreto della mente».
La mutazione tra gradi, di maggiore o minore potenza, dilata i confini dell’identità psicofisica, entità che si complessifica – ex legibus suae naturae e contro ogni teleologia – nella trama di contaminazioni che la processualità relazionale produce. Per dirla con Deleuze:
Crescita, invecchiamento, malattia: a stento possiamo riconoscere lo stesso individuo. Ma si tratta ancora dello stesso individuo? I cambiamenti, bruschi o impercettibili, che avvengono nel rapporto che caratterizza il suo corpo li avvertiamo anche nella sua capacità di essere affetto, come se la capacità e il rapporto disponessero di un margine, di un limite, all'interno del quale si formano e si deformano[73].
Una questione, sulla scia del passaggio citato, s’impone nel suo carattere tutt’altro che accidentale: «Ma si tratta ancora dello stesso individuo?». La risposta di Deleuze è, in tal senso, eloquente:
Spinoza suggerisce infatti che il rapporto che caratterizza un modo esistente nel suo complesso sia dotato di una sorta di elasticità[74].
Ci troviamo così rigettati nel vivo di quell’«arte plastica» del corpo su cui faceva perno il paradigma dell’«écologie corporelle». Dopo aver stabilito che il criterio distintivo dei corpi più semplici non andrebbe ricercato ratione substantiæ ma, piuttosto, nelle leggi del movimento e della quiete, della velocità e della lentezza, Spinoza si era infatti così pronunciato:
Quando più corpi di medesima o diversa grandezza sono premuti dagli altri in modo che aderiscano gli uni agli altri, o in modo che, se si muovono col medesimo grado o con gradi diversi di velocità, si comunichino reciprocamente i loro movimenti secondo un certo rapporto, noi diremo allora che questi corpi sono uniti tra di loro e che tutti compongono insieme un solo corpo, ossia un individuo, che si distingue dagli altri per quella unione di corpi[75].
La singolarità individuale, sgravata della sua connotazione sostanzialistica, pare essere esplicitamente rimessa alle variazioni generate dal suo essere ex pluribus corporibus componitur. Resta da chiedersi, tuttavia, in che misura la molteplicità dei corpi componenti possa variare «in infiniti modi senz’alcun cambiamento dell’individuo totale»[76]. Secondo l’interpretazione di Atlan[77] la soluzione sarebbe già in seno alla domanda: l’equilibrio non è altrove, se non in quel “certo” rapporto di motus et quietis, in cui risiede l’organizzazione delle parti come condizione stessa della permanenza della forma.
Ma se la legge del movimento conduce di necessità alla relazionalità, a un tempo attiva e passiva con l’ambiente, ritornare in sé, rimarginando le conseguenze delle affezioni, insistere su questa simmetria del recuperabile, non è già un atto di infedeltà al mistero di ciò che può un corpo?
Una probabilità è destinata, forse, a sfuggire per sempre alla biologia come alla coscienza:
L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso[78].
[1] G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza (1980-81), tr. it. ombre corte, Verona 2013, p. 56.
[2] Il riferimento è, in particolare, a B. Andrieu, Le monde corporel. De la constitution interactive du soi, L'Âge d'Homme, Lausanne 2010.
[3] Si veda l’ottimo saggio di I. Joly, Le corps sans représentation, L’Harmattan, Paris 2011.
[4] Cfr. T. Dedeurwaerdere, Action et Contexte. Du tournant cognitiviste à la phénoménologie transcendentale, OLMS, Hildesheim-Zurich-New York, 2002.
[5] Alva Noë, Out of Our Heads: Why you are not your brain and other lessons from the biology of consciousness, Hill & Wang, New York 2009, p. XIII.
[6] Id., Action in Perception, MIT Press, Cambridge 2004, p. 1.
[7] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. Bompiani, Milano 2003, p. 179.
[8] Cfr H. Dreyfus, Une phénoménologie de l’acquisition de l’habilité comme base d’un anti-représentationisme merleau-pontien en sciences cognitives, in B. Andrieu (a cura di), Philosophie du corps, Vrin, Paris 2010, pp. 136-158.
[9] M. Merleau-Ponty, op. cit., p. 221.
[10] Ibid., p. 177.
[11] Si veda sul punto R. Barbaras, La percezione. Saggio sul sensibile (1994), tr. it. Mimesis, Milano 2002, p. 13.
[12] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla (1943), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1964, p. 362.
[13] Si veda sul punto S. Miguens, G. Preyer, C. B. Morando (a cura di), Pre-reflective Consciousness: Sartre and Contemporary Philosophy of Mind, Routledge, London-NewYork 2016.
[14] J.-P. Sartre, La trascendenza dell’ego. Una descrizione fenomenologica (1936-37), tr. it. Marinotti Edizioni, Milano 2012, p. 41.
[15] Id., L’essere e il nulla, cit., p. 388.
[16] Ibid., p. 389.
[17] Ibid., p. 391.
[18] S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive (2008), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p. 181.
[19] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 391.
[20] S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica…, cit. p. 181.
[21] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 75.
[22] S. Gallagher, How the body shapes the mind, Oxford University Press, New York-Oxford 2005, p. 46.
[23] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 75.
[24] Ibid., p. 74.
[25] Ibid., p. 50.
[26] Id., La trascendance de l’Ego, Vrin, Paris 1936, p. 72. Per un approfondimento sul punto si veda I. Joly, op. cit., in particolare p. 109.
[27] Il richiamo è al titolo dell’opera di J. Wahl, Vers le concret. Études d’histoire de la philosophie contemporaine, Vrin, Paris 2004.
[28] E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), Jaca Book, Milano 1983, pp. 95-96.
[29] E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger (1949), tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 264.
[30] Ibid.
[31] Ibid., p. 141.
[32] Id., Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (1961), tr. it. Jaca Book, Milano 1980, p. 131.
[33] Id., Dall’esistenza all’esistente (1947), tr. it. Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 31.
[34] Id., Totalità e infinito, cit. p. 130.
[35] Ibid., p. 167.
[36] J.J. Gibson, The ecological approach to visual perception, Houghton Mifflin, Boston 1979, p. 127.
[37] Si veda sul punto M. Bower, Radicalizing the Phenomenology of Basic Minds with Levinas and Merleau-Ponty, in M. Gaarcia-Valdecasas, J. I. Murillo, N. F. Barrett (a cura di), Biology and Subjectivity, Springer, 2006, pp. 131-150.
[38] P. Schilder, The image and appearance of the human body, International Universities Press, New York 1950, p. 51. Si deve la referenza a S. Gallagher, Lived body and Time: A Phenomenologically Based Account of Human Nature, University Microfilms International, 1981, p. 30.
[39] H. R. Maturana, F. J. Varela, The tree of knowledge. The Biological Roots of Human Understanding (1987), tr. ingl. Shambhala Publications, Boston 1998, p. 11.
[40] Ibid., p. 134.
[41] Si veda M. Cappuccio, Intelligenza senza rappresentazione: il processo cognitivo sotto processo, in «Riflessioni sistemiche», 5, 2011, pp. 24-36.
[42] H. Dreyfus, What computers still can’t do. A critique of Artificial Reason, MIT Press, Boston 1972, p. 250.
[43] Si veda ancora M. Cappuccio, op. cit.
[44] B. Andrieu, La communication directe du corps vivant. Une émersiologie en première personne, in «Hermes», 68, 2014, pp. 46-52.
[45] E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 83.
[46] B. Andrieu, Sentir son corps vivant, Vrin, Paris 2016, p. 24.
[47] Id., Le monde corporel.., cit., p. 93.
[48] Id., La communication directe…, cit., p. 48.
[49] Si veda J. Petitot, F. Varela, B. Pachoud, J.-M. Roy, Naturalizing Phenomenology: Issues in Contemporary Phenomenology and Cognitive Science, Stanford University Press, 2000.
[50] B. Andrieu, Sentir son corps vivant, cit., p. 14.
[51] Ibid., pp. 50-51.
[52] Ibid., pp. 164-165.
[53] B. Andrieu, P. Da Nóberga (a cura di), Au travers du vivant. Dans l’esthésiologie, l’émersiologie, L’Harmattan, Paris 2017, p. 12.
[54] J.-L. Nancy, L’intruso (2000), tr. it. Cronopio, Napoli 2006, p. 18.
[55] Ibid., p. 28.
[56] Ibid., p. 13.
[57] Ibid., pp. 29-30.
[58] Ibid., p. 2.
[59] H. R. Matruana, F. J. Varela, op. cit., p. 134.
[60] S. Gallagher, Lived body and time, cit., p. 7.
[61] Si fa riferimento qui, solo a titolo di citazione, all’ormai noto lavoro di A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi, Milano 2003.
[62] G. Deleuze, Cosa può un corpo?..., cit., p. 52.
[63] B. Spinoza, Etica (1677), in Tutte le opere, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2010-2011, p. 1321.
[64] H. Atlan, Cours de philosophie biologique et cognitiviste. Spinoza et la biologie actuelle, Odile Jacob, Paris 2018, pp. 135-136.
[65] G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica (1981), tr. it. Guerini e Associati, Milano 1991, p. 29.
[66] Ibid., p. 32.
[67] Id., Spinoza e il problema dell’espressione (1968), tr. it. Quodlibet, Macerata 1999, p. 193.
[68] Si fa riferimento, in particolare, a Id., Spinoza. Filosofia pratica, cit.
[69] B. Spinoza, Etica, cit., p. 1463.
[70] Ibid., p. 1323.
[71] Ibid.
[72] Ibid., p. 1325.
[73] G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, cit., p. 173.
[74] Ibid.
[75] B. Spinoza, Etica, cit., pp. 1247 e 1249.
[76] Ibid., p. 1251.
[77] H. Atlan, op. cit., in particolare pp. 64-66.
[78] J.-L. Nancy, op. cit., p. 21.