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Abstract
The early Rousseau and his controversial Approach to Science
Already in his first well-known Discourse on the Arts and the Sciences, J.-J. Rousseau marks clearly the points of friction with his contemporaries. In fact, in his works, 'science' is seen, almost entirely, as an effect of nefarious vices of human nature. But, despite his incessant criticism, Rousseau followed the scientific studies of his historical period, and he did not dislike some branches, probably more congenial to him. Having said the above, sometimes in Rousseau’s works some scientific methodology's glimmers can be glimpsed: but always "of opposite sign", calibrated in a spiritual sense and bent to his moral and political aims.
1.Lo smarrimento
Folgorato sulla via di Vincennes. Già nel modo tutto drammatico con cui Rousseau si convertì alla critica immanente del suo tempo storico – condannandosi ad andare “all’opposizione” per tutta la sua tormentata esistenza – possiamo cogliere alcuni aspetti della sua lacerante guerra personale alle fondamenta della sua epoca. Il fatto è noto: 1749, durante una promenade solitaria in direzione Vincennes, dove il suo (allora) amico Diderot scontava, incarcerato, la propria irriverenza, il giovane Rousseau fu colto da un’improvvisa folgorazione: galeotta l’Accademia di Digione, il bando e chi lo scrisse. La domanda cui rispondere per partecipare al concorso indetto dall’Accademia era netta, abbastanza ampia e non originalissima: “Il rinascimento delle scienze e delle arti ha contribuito alla purificazione dei costumi?”. Tutto il resto della vita del ginevrino, a sentire lui stesso, fu l’effetto preciso di quel «momento di smarrimento», «agitazione prossima al delirio», «viva effervescenza»[1] che portò alla scrittura del suo celebre Discorso sulle scienze e le arti, “il primo Discours”, che non solo concorse al bando, ma ne risultò anche vincitore, premiato come il migliore dai giurati di Digione.
Mettiamoci al di là della scena; oltre il tormento e la voglia di sorprendere sempre – che chi legge Rousseau deve sempre tenere fermi – cosa lo spinse a rispondere che no, le arti e le scienze non hanno affatto contribuito a purificare spiriti, ma anzi – il diavolo è nei dettagli – hanno veicolato decadenza? Infatti, nella piega, tra le righe, l’incipit del discorso consta di un’aggiunta decisiva che già tradisce l’intenzione di Rousseau. La domanda del bando diventa: il rinascimento delle scienze e delle arti ha contribuito alla purificazione o alla corruzione dei costumi[2]? A ciel sereno, è già introdotto l’elemento risolutivo della questione. Le scienze e le arti non sono “neutre”, non si limitano a poter cercare di “purificare”, bensì, ancor più gravemente, corrompono.
Ma quali scienze? Cos’è la scienza, per Rousseau, almeno in questo contesto? E cosa c’entrano le arti? Qui, non contano tanto le ragioni storiche per le quali scienze e arti sono “citate” insieme nel bando, ma piuttosto importa vedere all’opera il dispositivo retorico e concettuale per il quale Rousseau non sente l’esigenza di operare una vera distinzione tra i due ambiti – e di fatto sia il ginevrino sia l’Accademia concepiscono come interscambiabili i due termini.
Du temps de Rousseau, le mot désigne couramment l’ensemble des sujets d’érudition, dont on tend de plus en plus, depuis la fin du dix–septième siècle, à distinguer la philosophie et la philosophie naturelle. Il est douteux, cependant, que Rousseau fasse cette distinction lexicale dans sa célèbre critique de la civilisation du Discours sur les sciences et les arts[3].
La scienza, qui, è un concetto proteiforme: non tentativo di comprensione della modalità con cui avviene la conoscenza umana, né decifrazione quantitativa della realtà meccanico–materiale, ancor meno sapere sempre più specialistico e differenziato da catalogare con tutto l’ordine possibile – linee guida di altri philosophes. In Rousseau, la scienza è uno dei possibili nomi con cui chiamare il processo di civilizzazione, e non è quindi un caso che le scienze e la scienza siano, nel suo Discorso, di fatto equivalenti. D’altronde, che arti e scienze siano da intendersi in questo senso “culturale” è già implicito nella questione proposta dell’Accademia, e Rousseau lo sa benissimo, e in un certo senso si limita a dare una risposta estrema a una domanda di per sé già molto polarizzata. Non si tratta, dunque, di un approccio specialistico:
En autodidacte, il dit dans Les Confessions avoir lui–même trouvé la bonne méthode pour l’étude de toutes le sciences: comprendre leur liaison à partir d’une bonne connaissance de chaque science[4].
Se l’approccio del ginevrino è dunque più quello di un curioso che quello di un vero conoscitore, nel primo Discours il sapere scientifico è affrontato semplicemente (e semplicisticamente, almeno secondo gli altri philosophes) con criteri “altri”, non scientifici, bensì moraleggianti: e la morale di Rousseau non può non condannare la scienza.
Sia chiaro che ciò che è qui in questione non è se Rousseau “capisse” o meno la scienza del suo tempo – la risposta è ovvia, ed è palesemente sì – né se ne fosse edotto e aggiornato (per questo basta riferirsi al Discorso sull’origine della diseguaglianza, in cui lo si può vedere svolgere pregiate analisi antropo–evolutive sulla base anche degli studi di Buffon), né, al limite, se fosse appassionato delle stesse: abbiamo testimonianza della sua passione per la botanica, il suo impegno per una nuova scienza della musica, la sua attenzione ai primordi di un’ipotetica conoscenza antropologico–culturale[5]. Il punto è invece comprendere la ratio del suo rifiuto, le ragioni chiare e distinte e, se possibile, quelle a esse sottese, anche al netto di tutto ciò che si può dire su un filosofo che scrive romanzi e opere teatrali dopo essersi scagliato contro le arti. Il rifiuto di Rousseau è così aspro e violento che porta in seno già lucidamente la futura clamorosa (letteralmente) rottura con i philosophes. Come dice Russell: «non sorprende che Rousseau e Voltaire abbiano finito per litigare; sorprende piuttosto il fatto che non abbiano litigato prima»[6].
Poco importa che Rousseau quasi immediatamente ricuserà il suo j’accuse, o meglio, lo integrerà in un sistema maggiormente complesso, rendendolo un corollario[7] di un’analisi ben più radicale, auto stroncando il suo scritto, o integrandolo in più parti[8]; si può comunque cercare di delineare se la posizione del ginevrino, in quel momento, avesse o meno una sua coerenza interna.
La critica di Rousseau ha un carattere sentimentale, ma in che modo, al di là dei meriti letterari, non resta esclusivamente un breve inciso nella lunga storia del manicheo duello cuore/numeri?
Rousseau mostra già lo scheletro del suo pensiero, anche se tra le linee: la scienza, in generale, in astratto, nel suo senso civilizzatore, non è compatibile con la virtù civile, quindi non è compatibile, nella sua interezza, con un pensiero di possibilità del politico.
Noi abbiamo tanti fisici, geometri, chimici, astronomi, poeti, musici, pittori: ma non abbiamo più cittadini [...]
Come sarebbe dolce viver tra noi, se il contegno esteriore fosse sempre l’immagine delle disposizioni del cuore, se la decenza fosse la virtù, se le nostre massime ci servissero di regola, se la vera filosofia fosse inseparabile dal titolo di filosofo[9].
Perché vi è incompatibilità tra virtù e società civile così pensata? Perché scienze e arti, come noto, «stendono ghirlande»[10] sulle catene, edulcorano la schiavitù sociale, e mettono radici su quelli che per il giovane Rousseau sono i vizi più pericolosi della società: il lusso e l’ozio.
Il primo, permette il fiorire delle arti, del superfluo, della società dello spettacolo; l’ozio, più pernicioso, stimola e rende possibile la ricerca chimerica di domande improponibili, e allontana l’uomo dalle sacre virtù patriottiche, contribuendo a rendere l’uomo che medita un animale depravato[11], rammollito ed effeminato[12].
Qui, e in momenti successivi, è evidente quindi cosa Rousseau intenda per scienza (e perché si possa parlare di scienze o scienza in maniera alternativa): il vero e proprio vizio intellettuale e morale – d’altronde, depravato è aggettivo fortemente connotato dal punto di vista etico. Il problema è anche, immediatamente, civile: chi è che può lasciarsi andare alle fantasticherie artistico–scientifiche che pure Rousseau tanto frequenterà? Ovviamente, chi non ha da guadagnarsi il pane. Su chi cade il mantenimento di questa vera e propria casta? Sul popolo, ça va sans dire. L’equazione però al momento resta incompleta. Se è vero che lusso e ozio, in un circolo ininterrotto, sono sia causa sia conseguenza di corruttela e decadenza, esse non possono però creare ricchezze – e dunque nella futura ottica di Rousseau, neanche creare disuguaglianze, ma al massimo acuirle o distribuire malamente le risorse esistenti[13]. Il problema è tutto morale e non economico in senso stretto:
Onde nascono tutti questi abusi, se non dalla disuguaglianza funesta, introdotta fra gli uomini per via della distinzione degli ingegni e dell’avvilimento della virtù?[…] Il saggio non corre dietro la fortuna ma non è punto insensibile alla gloria: e, quando la vede mal distribuita, la sua virtù, che un po’ d’emulazione avrebbe animata e resa utile alla società, cade in languore e si spegne nella miseria e nell’oblio[14].
Di lì a poco il ginevrino aggiungerà dei nuovi termini – decisivi – alla questione, tracciando, come dice Casini, un parallelo con concetti dal punto di vista storico leggermente successivi:
attribuire alla cultura intellettuale e al gusto tutti i guasti della civiltà era infatti combattere contro un falso obbiettivo. Erano veramente quelle le «cause» della degenerazione, o si trattava di elementi concomitanti di un processo assai più intricato, dovuto a cause più complesse? Rousseau, retorica a parte, dovette avere subito coscienza del problema. Trascrivendo in una terminologia appena più moderna il senso della sua polemica, si può dire che si rese ben conto di attaccare nelle «scienze» e nelle «arti» soltanto l’ideologia della classe dominante. Le forze reali del dominio erano d’altra natura[15].
- Scienziato a suo modo
Ma anche se egli arrivò poi a integrare la sua visione – superandola, ma non del tutto – ha comunque senso chiedersi se la posizione di Rousseau abbia già ora una coerenza interna, ad esempio quando individua una possibile soluzione nel lasciare la ricerca teorica a pochi spiriti “aurei”, quasi corteggiando idee libertine che sempre più la storia della cultura andava superando[16]. Qui il ginevrino tocca alcuni dei suoi picchi anti illuministici, recitando un vero e proprio credo anti–filosofico che non sconvolgerà gli altri philosophes – o almeno, non ancora – solo perché inteso, per necessità di assoldare Rousseau nelle proprie file, come un eccessivo espediente retorico da fanatico, ma tutto sommato inoffensivo: «o Dio onnipotente, tu che tieni nelle tue mani gli spiriti, liberaci dai Lumi»[17].
Come si vede, quasi non bisognerebbe aggiungere altro per tracciare una linea di demarcazione netta tra gli schieramenti in campo nello pseudo partito dei filosofi – una linea neanche tanto sottile. A mo’ di esempio, basti citare anche solamente il Diderot dell’Interpretation de la nature, che tre anni dopo circa, scriverà:
Affrettiamoci a rendere popolare la filosofia! Se noi vogliamo che i filosofi progrediscano avviciniamo il popolo muovendo dal punto al quale sono pervenuti i filosofi. Si dirà che vi sono opere che non potranno mai essere alla portata degli spiriti comuni? Chi afferma questo mostra solo di ignorare ciò che possono realizzare il buon metodo e la lunga abitudine[18].
La divulgazione, invece, nell’ottica di Rousseau, non fa che altro che permettere a scribacchini e squallidi copisti di infestare Parigi con pretese assurde.
Che penseremo mai di quella turba di autori elementari, che han rimosso dal tempio delle muse le difficoltà che ne vietavan l’accesso, e che la natura vi aveva sparso, come prova delle forze di colore che fossero tentati di sapere? Che penseremo mai di quei compilatori di opere, che hanno indiscriminatamente infranta la porta delle scienze e introdotto nel loro santuario una plebaglia indegna d’accostarvisi, mentre sarebbe a desiderare che tutti colore che non potevano proceder lontano nella carriera letteraria, fossero stati respinti fin dall’ingresso, e si fossero volti ad arti utili alla società? Un uomo che sarà per tutta la vita un cattivo versificatore, un geometra di qualità inferiore, sarebbe forse divenuto un gran fabbricante di stoffe. Non c’è stato bisogno di maestri per coloro che la natura destinava a crear discepoli[19].
Per chi legge, però, ancora non è ben chiaro come si possano conciliare le pretese anti-élitarie – che il giovane forestiero porta avanti a livello personale, così riottoso e disgustato dalla vita parigina – e una concezione quasi sacrale della scienza, che dev’essere di pochi: a Rousseau non sembra interessare come questi pochi debbano spuntare fuori, né come evitare che la qualifica di grande scienziato, cosi impostato il problema, divenga semplicemente ereditaria. Il ginevrino si rimprovererà poi di aver perso lucidità nell’esposizione, spingendosi fino a una proposta politica che sia la storia sia le sue opere successive renderanno semplicemente irricevibile: un’alleanza tra toni e altari[20] che tra i grandi pensatori dell’epoca continuerà ad affascinare forse solo Voltaire. Dunque, Rousseau e i philosophes[21] erano fatti per dividersi, e di lì a poco lo fecero: per quanto esasperata da dissapori personali, la separazione era solo questione di tempo, a causa di differenze teoriche che rendevano impossibile ogni tipo di dialogo.
Che per quanto radicale la critica di Rousseau fosse di fatto inoffensiva lo dimostra la vittoria al bando istituito dall’Accademia: proprio quella che potrebbe essere definita – stanti i termini di Rousseau – l’Accademia dell’ozio premiò infatti l’indubbio genio autoriale del ginevrino. Non deve essere tralasciato che l’Accademia di Digione, città di provincia, poteva realmente condividere l’impostazione di Rousseau, andandosi in quegli anni acuendosi la distanza tra la borghesia di provincia e quella della Capitale francese. Ad ogni modo, il filosofo criticava il suo tempo storico, la società che lo accolse e, per osmosi, anche tutti i volti che di quella società erano alfieri e si consideravano l’unico “gruppo dirigente” possibile, convinti del compito storico e forse metafisico di guidare il cambiamento. Alla rivoluzione morale del ginevrino si opponevano i nessi oggettivi del suo tempo, e la sua proposta fu – nella sua forma integrale, altra cosa è lo spirito – giudicata irricevibile e al massimo cucita sul corpo della sua amata Ginevra. La critica di Rousseau però colpiva (feriva?) in maniera troppo feroce tutte le sezioni della società (il termine classe è ancora di difficile utilizzo) che sulla scienza e sulla nascente tecnologia iniziavano a basare i propri proventi. Criticare la teoria scientifica, significava, anche se non del tutto chiaramente, criticare tutte le tecnologie pratiche che da tali conoscenze potevano essere “dedotte”, e comunque non capirne la portata. Un Diderot non poteva correre un pericolo del genere, proprio lui che grazie alle Arti e ai Mestieri della “sua” Encyclopédie riuscì a fornire al suo materialismo una base assai solida, e non trovò mai lo spazio per una vera utopia, rimanendo (forse troppo, come qualche volta si “rimproverò” lui stesso, lacerato dal maledettamente ideale obbiettivo di una pacificazione sociale) sempre ancorato al suo tempo. Qui si annida un nodo teorico ancora più importante: va compreso che a risultare realmente divisorio nelle diverse idee di scienza non fosse che Rousseau pensasse alla ricerca scientifica semplicemente come a una parte di quella potremmo chiamare civilizzazione e, invece, gli enciclopedisti la intendessero come un ambito particolarissimo e iper–specifico, a cui dedicare ricerche speciali; la vera differenza era che a Rousseau non sembravano interessare le ricadute pratiche della costola più propriamente tecnologica delle scienze, che invece erano il senso stesso dell’impresa enciclopedica. Nonostante Rousseau parta da una domanda molto storicamente precisa – il termine Rinascimento (delle arti e delle scienze) aveva evidentemente un riferimento temporale storicamente prossimo e non sempiterno – e nonostante egli voglia criticare il suo tempo, il ginevrino finisce per compiere un’analisi (e una condanna) a-temporale; per molti altri filosofi, invece, la scienza contemporanea presentava delle problematiche ben specifiche e radicate, e non aveva senso parlare della ricerca scientifica come di un eterno della ragione al di là della storia. Ambienti diversi, sicuramente, quelli di Rousseau e dei committenti dell’Encyclopédie. Ma anche un sentire opposto e inconciliabile. Il primo Rousseau sembra legato a un altro ideale, oltre ad aver patito personalmente gli scherni di una società in cui era (e ancor più si sentiva) straniero: un ideale più agricolo[22] in cui la virtù deve contribuire all’afflato identitario, e le scienze e le arti di fatto sono tagliate fuori perché ognuno è occupato in lavori civicamente ben più utili. Rousseau, come altri, non poté oggettivamente pensare una società dell’abbondanza, totalmente estraneo all’ambiente più economicamente dinamico della società, e il suo ideale rimase (ma non tutti concordano) quello della piccola crescita felice[23]. Un esempio su tutti: «le arti liberali e meccaniche, il commercio, le lettere, e tutte quelle inutilità che fanno fiorire l’industria, arricchiscono e perdono gli stati»[24].
A causa di uno sviluppo ancora incompleto delle sue teoria, nel Discorso, quindi, Rousseau sembra quasi finire in un vicolo cieco. Disprezzare intimamente il sopruso, ma pensare a un’élite che abbia accesso al sapere in maniera univoca. Una “rivoluzione” virtuosa ma troppo vicina al pauperismo. L’economicismo non era interesse di Rousseau (perché sarebbe dovuto esserlo poi?), e alla sua prima critica sociale si lega in maniera ancora non chiara e troppo pressante quella morale.
Ma Rousseau era un genio, e il genio ha altre intuizioni, e si ha l’obbligo di trovare il filo del suo discorso, e scorgere se magari egli riesca a far fruttare un paradosso o magari un disagio psichico (che arriverà). De Nardis, citando Giovanni Macchia, ci dice che quest’ultimo ricorda come: «a Rousseau sia possibile applicare la famosa battuta di Polonio a proposito della follia di Amleto: “Benché questa sia follia, pure c’è un metodo in essa”»[25].
Rousseau sa troppo bene che, già nel 1749, non c’è più alcuno spazio per una scarsa considerazione della scienza coeva. Pur mantenendo sempre in spregio il materialismo veicolato da gran parte della scienza sperimentale, anch’egli cercherà di delineare, all’interno di un’impostazione largamente spiritualista, nuovi paradigmi di interpretazione unitaria del cosmo, e dei rapporti tra spirito, credenza, e possibilità etica – e non si può qui non rimandare alla Professione di fede dell’Emilio. Il tema della religiosità rimane uno scoglio insuperabile con i suoi “colleghi”[26].
Questo ardore morale gli deriva certamente da un lato dalle condizioni sociali di cui era figlio (ma neanche Diderot navigava nell’oro) e da tutto ciò a cui aveva assistito, ma dall’altro da un’educazione e una traiettoria tutta religiosa, una religione certo, la sua, eterodossa, ma che invadeva la sua riflessione da ogni lato.
La scienza si estende e la fede svanisce. Tutti vogliono insegnarci ad agire bene e nessuno lo vuole imparare. Siamo diventati tutti dottori e abbiamo cessato di essere cristiani[27].
Anzi, il dramma di Rousseau è forse concepire fin troppo bene il suo tempo, il tempo dell’impossibilità della religiosità strictu sensu, e non riuscire in qualche modo a convincersene. Ha forse ragione Auerbach quando sostiene che il ginevrino sarebbe stato religioso in qualsiasi epoca precedente, e invece ora non gli è più possibile:
Fra le personalità più note della storia dello spirito europeo, Rousseau è il primo che, nonostante la sua costituzione prettamente cristiana, non sia più riuscito ad essere cristiano.
In questa tesi sono contenute tre asserzioni: primo, che Rousseau fu costituzionalmente cristiano, quindi per così dire cristiano in potentia; secondo, che non poté attualizzare questo cristianesimo potenziale; terzo, che, per quanto ne sappiamo, fu il primo a subire questa sorte[28].
Che un uomo del loro [dei cristiani] stampo, nato in Europa, imbevuto di umiltà, di bisogno di fuggire il mondo, di desiderio di pentimento e di redenzione, non abbia trovato più spazio in nessuna Chiesa cristiana, che non abbia nemmeno fondato una nuova Chiesa, che nei suoi slanci di disperazione e di speranza non abbia mai fatto parola della sofferenza di Cristo, del peccato e del giorno del giudizio, sono cose che mi sembrano determinanti per capire la svolta dell'Europa nella seconda metà del XVIII secolo[29].
Non si può evitare di pensare che tra i grandi motivi della “rinuncia” a una piena religiosità ci sia anche proprio la scienza a lui contemporanea. Mentre i suoi amici parigini davano prova di un’irreligiosità che turbava e irritava Rousseau, egli invece coglieva solo l’aspetto destruens della deflagrazione delle scienze naturali e biologiche che di fatto vanificavano ogni tentativo conciliatorio tra religione e ricerca teorica. Pur non cedendo mai di un millimetro sulla questione dell’ateismo integrale, il ginevrino sarà spinto verso un deismo non pienamente soddisfacente per una ricerca spirituale completa - e acquistano ancora più significato, in quest’ottica, le giovanili oscillazioni tra cattolicesimo e protestantesimo: Rousseau manifestamente utilizza la religione per fattori legati anche alla propria integrazione sociale.
I valori semplici, la terra, l’Io che cerca e scava, in un rapporto irrisolto e irrisolvibile con il mondo e con Dio. Rousseau sente, pensa per immagini, eppure gli manca qualcosa. La mancata religiosità convive con il disprezzo per la scienza nei suoi rapporti con il costume. Ma se la sua ricerca ha una base indubbiamente etica, e se solo dopo troverà ben altri nessi strutturali (la proprietà privata) e rapporti di forza alla base della fondazione della società civile e dunque – nella sua ottica – della perdizione morale, già adesso egli è tanto lucido da utilizzare a suo vantaggio alcuni concetti della scienza del suo tempo. Rousseau fa suoi alcuni procedimenti squisitamente scientifici e li conserva, integrandoli a suo piacimento in un impianto teorico personalissimo[30].
Ad esempio, è certamente in linea con un’impostazione fortemente analitica ciò che egli dice sulla nascita delle singole scienze. Se è chiaro che la ricostruzione di Rousseau è fin troppo lapidaria, non per questo è meno interessante vedere come il ginevrino si accordi con un principio cardine della conoscenza teorica del suo tempo, l’analisi genetica dei saperi.
L’astronomia è nata dalla superstizione; l’eloquenza dall’ambizione, dall’odio, dall’adulazione, dalla menzogna; la geometria dall’avarizia; la fisica da una vana curiosità; […] il loro vizio d’origine è ancor troppo riprodotto nei loro oggetti[31].
Quindi anche se la ricostruzione storica di Rousseau lascia un po’ interdetti – si veda la continua oscillazione un po’ manichea tra esempi di grandezza ed esempi di corruzione, sulla scia del confronto Atene e Sparta, l’acritica esaltazione dei Germani e in generale dei popoli “semplici” – non per questo il ginevrino cessa di essere un grande alfiere di alcune istanze del suo tempo: la chiarificazione dei nessi storici e morali che hanno creato il mondo sociale, la luce da portare sulle genesi culturali di concetti che si pensano eterni ed eterni non sono – e quest’ambizione genetica lega chiaramente Rousseau al suo milieu.
E non è un esperimento (mentale) su larga scala l’intero tentativo di teorizzare un’altra epoca, un altro stato che «non esiste più, che forse non è mi esistito e probabilmente non esisterà mai»[32], stato che nel primo Discorso si inizia a intravedere? Un esperimento che preveda un’ipotesi di lavoro, una messa in atto in laboratorio e dei corollari pratici da dedurre?
Non è un grandioso esempio di una nuova sociologia e di una nuova scienza politica – per quanto ideologicamente schierata – quello di pensare a un nuovo modo di pacificare la società?
Il procedimento di Rousseau è quello di corteggiare alcune modalità che sono proprie della scienza del suo tempo, lanciandosi anche in ipotesi rischiose, ma estraendone sempre dei nuclei che possano riempire vuoti etici, e dare risposte che siano proprio il contrario delle catalogazioni scientifiche.
In questo senso, il ruolo della botanica nella riflessione (o, in questo caso, forse è meglio dire nella meditazione[33]) di Rousseau è chiarificatore:
Il ne sépare pas distinctement les procédées proprement scientifiques (dans un sens moderne) des procédés de la philosophie morale. Le rôle de la botanique est à cet égard révélateur. Il herborise, il collectionne, il classifie, mais ce n’est pas pour repérer les plantes utiles à la médecine ou à d’autres fins, comme on pourrait superficiellement s’y attendre d’après l’éducation d’Émile : c’est principalement pour admirer, même adorer. Non seulement, sur le plan autobiographique, l’herborisation lui fournit l’occasion de jouir de la solitude e de se nourrir «de sa propre substance», mais la véritable soif d’une connaissance détaillée en botanique exprime chez lui un besoin religieux, un culte du Créateur[34].
D’altronde, che solo il nocciolo operativo della ragione scientifica potesse interessargli, Rousseau non lo nega. La scienza è per lui pura vanità, se non vera cupidigia. I fatti non contano affatto, e il nucleo essenziale estraibile dal contesto procedurale delle scienze è solo – e al limite – quello che ipotizza la genesi delle istituzioni agonizzanti.
Cominciamo dunque dall’escludere tutti i dati di fatto, perché essi non concernono punto la questione[35].
- Conciliazione impossibile
L’idea stessa di un sistema delle scienze non è intellegibile nell’ottica di Rousseau, essendo Io e cosmo due sistemi di riferimento completamente discontinui – e il tentativo continuo di una “fusione” tra i due sistemi sarà il suo continuo orizzonte. Così già diceva il giovane Rousseau:
Non ho mai potuto concepire come un filosofo potesse seriamente immaginare un sistema di fisica. I cartesiani mi sembrano ridicoli perché vogliono rendere ragione di tutti gli effetti naturali mediante le loro supposizione e i newtoniani ancora più ridicoli perché offrono le loro supposizioni come fatti. Contentiamoci di sapere ciò che è, senza ricercare le cose come sono, perché una tale conoscenza non è alla nostra portata[36].
Il ginevrino quindi, anche quando utilizza talvolta dei procedimenti scientifici o si “informa” sulla scienza coeva, lo fa sempre più per prenderne le distanze che per far farla sua intimamente. Egli è interessato, in maniera più velata e moraleggiante, al concetto scientifico per eccellenza, quello della misura, ma lo inverte completamente di senso. Non il numero, né la meccanica, bensì una diversa misura, quella tra uomo e cosmo, regioni dello spirito e silenzio, che può essere talvolta afferrata, per puro caso, solo attraverso un impeto sentimentale. Nessuna porta aperta alla scienza istituzionale, che non è tout court compatibile con la virtù spartana a cui il ginevrino pensa.
E cos’è allora la virtù? Ecco un esempio di maestria dialettica senza pari, in cui la scienza diviene ciò che Rousseau vuole.
Oh virtù! Scienza sublime delle anime semplici, occorre dunque tanta pena e tanto apparato per conoscerti? E non basta, per apprendere le tue leggi, di rientrare in se stessi ed ascoltare la voce della propria coscienza nel silenzio delle passioni? Ecco la vera filosofia: sappiamocene contentare[37].
Eccola qui, la scienza sublime di Rousseau come virtù dei semplici – ossia in un solo concetto, la distruzione di ogni possibile pacificazione con l’ideale illuministico. Il problema è di fondo, e ogni conciliazione parrebbe sul punto operazione ai limiti del masochismo: se l’Io è l’unica misura, d’altronde, come accettare le misure della scienza?
Ancor di più se l’Io è quello del Rousseau degli ultimi anni, ripiegato su di sé, paranoico e psichicamente collassato: «le tendenze narcisistiche così appariscenti in Rousseau, si collegano al delirio di persecuzione: l’Io è al centro del mondo e il mondo, tutto il mondo, acquista ora realtà solo in funzione dell’Io, in quanto tutto impegnato a rendere l’Io infelice[38]». Senza legami cronologicamente e formalmente forzati – la posizione del primo Rousseau è contestabile ma non patologica – può essere di qualche utilità scorgere insieme questi due diversi momenti della vita e del pensiero del ginevrino: oltre che nella teoria, anche nell’uomo che egli diventò si scorge, in filigrana, una differenza teorica fondamentale tra la (pretesa) oggettività della scienza e un Io che reclama costantemente le proprie ragioni contro ogni restrizione limitante.
Per concludere, si noti come nell’Emilio, che rimane un tentativo di rendere scientifico un campo come la pedagogia, il sapere delle scienze è moderatamente presente; ma lungi da un dover rendere il giovane Emilio un futuro teorico, tale ridotta educazione sperimentale ha i crismi di una formazione “pratica”, e viene “utilizzata” soprattutto per costruire un parallelo tra conoscenza sensibile e conoscenza scientifica (attraverso uno sguardo sulle singole scienze sperimentali, come ad esempio l’ottica, “risvegliare” i sensi di Emilio, con un approccio sensista molto vicino a Condillac). Il presupposto fondamentale, però, è che questo avvicinamento alla scienza sia incessantemente vigilato, e soprattutto compatibile con la virtù: in pratica, c’è un limite oltre al quale la curiositas non è più compatibile con il bonheur[39] che dovrebbe essere il fine dell’educazione.
Come stabilire questo limite, non sembra, neanche qui, molto chiaro, e forse non poteva esserlo. Costantemente, con Rousseau, ci si mostrano davanti crepe, conciliazioni impossibili: egli è la cattiva coscienza di un’epoca intera. Senza il “gran rifiuto” del ginevrino di accodarsi alla battaglia più impegnata, à la Voltaire, probabilmente ci mancherebbe un pezzo fondamentale del secolo – oltre che la sua migliore penna. Già nel suo primo tentativo, il Discours che tanto doveva segnarlo, e poi sempre, egli ci offre i segnali di un tempo storico e di un movimento culturale molto meno monolitico di ciò che si è per troppo tempo pensato, un secolo che ha inventato la libertà e ne ha anche conosciuto sogni e incubi[40]. Diverse linee d’ombra, quelle di Rousseau, di cui già si avevano le prime avvisaglie nel 1749: fratture nella sua concezione della scienza, nei diversi richiami della sua politica – teoricamente radicale e praticamente a tratti assai conservatrice – e, in definitiva, nella sua visione del mondo non pacificata.
[1] Numerose sono le testimonianze lasciateci da Rousseau sull’episodio che a suo dire modificò per sempre la traiettoria della sua vita. Si veda J.-J. Rousseau, Opere, a cura di Paolo Rossi, Sansoni, Firenze 1972, pp. 945–946, 1222, 1332; si veda inoltre P. Coleman, Dictionnaire de Jean–Jacques Rousseau, a cura di R. Trousson e F.S. Eigeldinger, Honoré Champion, Paris 2006, pp. 229–232.
[2] J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti (1749–1750), in Opere, cit., p. 3.
[3] P. Robinson, Sciences, in Dictionnaire de Jean–Jacques Rousseau, cit., p. 851.
[4] P. Robinson, op. cit., p. 851.
[5] «In Rousseau Lévi–Strauss riconobbe un precursore di se medesimo. Ogni epoca crea il proprio Rousseau: lo abbiamo visto come seguace di Robespierre, come romantico, progressista, totalitario e nevrotico. Ora vorrei proporre Rousseau come antropologo: egli inventò l’antropologia allo stesso modo in cui Freud inventò la psicanalisi, sperimentandola su se stessa», in R. Darnton, La vita sociale di Rousseau. L’antropologia e la perdita dell’innocenza, in E. Cassirer, R. Darnton, J. Starobinski, Tre letture di Rousseau, tr. it. Laterza, Roma–Bari 1994, p. 192. Si veda anche G. Namer, Rousseau: de la «science de l'homme» à la sociologie, in «L'Homme et la société», 45-46, 1977, pp. 231–240.
[6] B. Russell, Storia della filosofia occidentale (1946), tr. it. Tea, Milano 2011, p. 661.
[7] P. Casini, Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma–Bari 1974, p.22 sgg.
[8] Più in generale, per quel che riguarda le questioni di virtù, arte e politica in Rousseau, si rimanda alla celebre Lettera a D’Alembert sugli spettacoli (1758), in Opere, cit., pp. 199-275.
[9] J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e le arti, cit., p. 14 e p. 5.
[10] Ibid., p. 4.
[11] Id., Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza (1754), tr. it. in Opere, cit., p. 46.
[12] Id., Discorso sulle scienze e le arti, cit., p. 13.
[13] Ibid., p. 14.
[14] Ibid.
[15] P. Casini, op. cit., p. 22.
[16] Paradossalmente, qui, nella sua furia anti–divulgazione Rousseau sembra molto vicino alle teorie di un filosofo come La Mettrie, che pure più avanti viene inserito tra i ciarlatani, colpevoli di riprovevoli sofismi, se non, peggio, di materialismo; si veda più avanti in J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e le arti, cit., p. 15.
[17] Ibid., p. 16.
[18]D. Diderot, Interpretazione della natura (1753), in Opere filosofiche, tr. it. Feltrinelli, Milano 1963, p. 148, corsivo mio.
[19] J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e le arti, cit., p. 16.
[20] Ibid., p. 16. Si veda anche L. Sozzi, Cultura e potere. L’impegno dei letterati da Voltaire a Sartre ai dibattiti novecenteschi, Guida, Napoli 2012, in particolare, pp. 37–38.
[21] Chiaramente, le differenze tra i philosophes non si fermano a questa prima linea di demarcazione. Membri della côterie, enciclopedisti, lumi radicali: tutte categorie di comodo ma da maneggiare con cura.
[22] Ironia della storia è che chi più apprezzò il ginevrino, ossia i rivoluzionari del 1793, si confrontò con una realtà ben diversa dalla piccola dimensione della Ginevra tanto amata da Rousseau.
[23] Cfr. G. della Volpe, Rousseau e Marx¸ Editori Riuniti, Roma 1974; M. Dal Pra, Rousseau e Marx, intervento tenuto nel maggio 1978, Milano, https: //m4.ti.ch/fileadmin/DECS/DS/Rivista_scuola_ticinese/ST_n.81/ST_81_Dal_Pra_Rousseau_e_Marx.pdf. Può essere utile rimandare per una buona sintesi delle interpretazioni in chiave politico–economica di Rousseau e di alcuni “colleghi” anche a A. Soboul, Lumi, critica sociale e utopia in Francia nel XVIII secolo, in J. Droz (a cura di), Storia del socialismo, Editori Riuniti, Roma 1973.
[24] J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza, cit. p. 84.
[25] G. Macchia, L. De Nardis, M. Colesanti, La letteratura francese. III. Dall’Illuminismo al Romanticismo, Sansoni, Firenze 1974, p. 204.
[26] P. Rossi, Introduzione a J. J Rousseau, Opere, cit., p. XIX. Non che a un Diderot non interessasse un concetto ampio di spiritualità: ma era declinato in tutto modo con ben altri termini.
[27] J.-J. Rousseau, Oeuvres complètes, a cura di B. Gagnebin e M. Raymond, Gallimard, Paris 1959–1969, III, p. 48, tr. it. del passo citato di P. Rossi in Introduzione, cit., p. XIX.
[28] E. Auerbach, Sulla posizione storica di Rousseau, in Da Montaigne a Proust. Ricerche sulla storia della cultura francese, De Donato, Bari 1970, pp. 107–108.
[29] Ibid., p. 114.
[30] D’altronde, il sistema di Rousseau è talmente personale, dispersivo e centrifugo (ma non per forza incoerente) che è riuscito nell’intento di affascinare le correnti di pensiero più disparate: egli è diventato – ovviamente nelle interpretazioni più disparate se non filologicamente assurde – «il padre della Rivoluzione Francese, del romanticismo, dell’anarchismo, del primitivismo, del socialismo, della democrazia, della mistica totalitaria, dell’esistenzialismo» in Paolo Rossi, op. cit., p. X. Che Rousseau possa ancora oggi dividere è testimoniato anche dal mai moderato Michel Onfray, che sulla scia di un punto di vista non sempre originalissimo (la faute à Rousseau era argomento tipico già durante gli avvenimenti Rivoluzionari) attacca assai violentemente il ginevrino, “addossandogli le colpe” di una linea di pensiero che dal suo Contratto Sociale arriva a Hitler praticamente senza soluzione di continuità. Cfr. M. Onfray, Decadenza, Ponte alle Grazie, Milano 2017.
[31] J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, cit., p. 10.
[32] J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza, cit., p. 39.
[33] «Les historiens de la littérature ont longtemps entretenu l’image d’un Rousseau préromantique et contempteur des sciences de son époque», B. Bensaude, in B. Bensaude–Vincent et B. Bernardi (a cura di), Rousseau et les sciences, L’Harmattan, Paris 2003, cit. da A. Moatti, Rousseau et la science, http://www.scilogs.fr/alterscience/rousseau–et–la–science/.
[34] P. Robinson, op. cit., p. 852.
[35] Id., Discorso sull’origine della disuguaglianza, cit., p. 43.
[36] Id., Mémoire à Mr de Mably sur l’éducation de son fils (1740), in Œuvres complètes, cit., IV, p. 30.
[37] Id., Discorso sulle scienze e le arti, cit., p. 17, corsivo mio.
[38] P. Rossi, Introduzione, cit., pp. XXXVII.
[39] Cfr. P. Robinson, op. cit., pp. 851–852.
[40] Cito qui due titoli di un grande studioso di Rousseau come Jean Starobinski: L’invenzione della libertà (1964), Abscondita, Milano 2008; 1789. I sogni e gli incubi della ragione (1973), Abscondita, Milano 2010.