Autore
Indice
- Dalle parole alla teoria
- Tensegrità
- Una nuova immagine per l’uomo
- Dalla postura eretta alla tensegrità
S&F_n. 19_2018
Abstract
Inventive image
Can a term generate new perspectives on phenomena that have already been studied in depth by science? This is the case of tensegrity. The image of the skeleton of a cell helps to understand its meaning: a structure that sustains itself in the cooperation of rigid and elastic parts. Data is interpreted in a different way, which art and architecture use to build light and removable constructions. The anthropology of Castaneda finds the possibility for a different relationship between body and mind for mankind. An eccentric that stays marginal in cultural anthropology. With bigger attention, anthropology of tensegrity can offer modern mankind a way out from the old model of homo faber and technological man.
- Dalle parole alla teoria
In un passaggio di Verso un’ecologia della mente Gregory Bateson spiega la costruzione delle sue pratiche argomentative dinanzi alla difficoltà di una sintesi tra il noto e quanto ha ancora contorni nebulosi. Nel momento in cui nella sua ricerca vecchie certezze si sono scontrate con nuove intuizioni, si è reso necessario per lui osare un passo in avanti, in qualche modo temerario, per combinare pensiero vago e pensiero rigoroso. Fino alla sintesi tra un’idea nebulosa e conoscenze consolidate è stato impossibile per lui affidarsi solo al certo, lasciandosi alle spalle l’incerto, la complessità di dati non ancora organizzati: è stato sempre necessario mantenere in piedi i due fattori della “combinazione” attraverso la valutazione attenta dei termini utilizzati per evitare fuorvianti astrazioni[1]. In un caso, una parola, da lui definita l’incidente linguistico di Radcliffe-Brown – “ethos” – inaspettatamente si è rivelata un utile strumento per il suo laboratorio: magicamente ha favorito la combinazione tra pensiero vago e pensiero rigoroso in vista della determinazione di quello che aveva provvisoriamente focalizzato come il «sapore della cultura». In realtà la parola ethos appare a Bateson inizialmente astratta, forse troppo “corta” per includere il complesso dei dati caratterizzanti di una cultura. Interrogandosi sui significati del termine attraverso un’analisi meno subordinata al senso comune, nel saggiarne le potenzialità, egli riscontra una serie di sfumature grazie alle quali quella parola può diventare il nucleo di diramazione di linee lungo le quali si intrecciano culture e processi d’individuazione, aiutandolo a visualizzare uno schema concettuale in grado di combinare conoscenze e dati. Se si pensa che “ethos” nelle sue articolazioni è diventata per Bateson l’inziale chiave d’accesso per la lettura dei dati anche in direzione di un superamento dell’etologia, si comprende il significato che egli attribuisce alla sperimentazione dei termini in direzione del loro stesso abbandono[2].
Un esempio come tanti per dare ragione della forza creativa delle parole quando, estrapolate dall’uso convenzionale, possono creare un corto circuito tra pensiero vago e pensiero rigoroso, tra legge e innovazione, solo che si riconosca il peso operativo di neologismi e di trasposizioni innovative di termini antichi o arcaici all’interno di contesti di discorso mutati.
L’uso di un termine, la creazione di un composto linguistico non esprime semplicemente l’acquisizione della conoscenza di un ambito di realtà prima oscuro, ma offre una nuova prospettiva per la combinazione di dati e leggi, di vago e rigoroso in cui si dischiudono nuovi approcci alla complessa realtà in cui viviamo. La cosa importante è che alle spalle vi sia un’immagine nella quale si generi una combinazione tra dati e pensiero. Wittgenstein va in questa direzione quando afferma che «il nostro linguaggio descrive un’immagine. Che cosa si debba fare di questa immagine, in qual modo la si debba impiegare, rimane oscuro. Ma è chiaro che, se vogliamo comprendere il senso di quello che diciamo, dobbiamo esplorare l’immagine. Ma l’immagine sembra risparmiarci questa fatica, allude già a un impiego determinato»[3].
- Tensegrità
Forse è possibile richiamare questa interdipendenza tra linguaggio e immagine, tra termini e loro impiego determinato, per l’occorrenza relativamente recente del termine “tensegrità”, non ancora del tutto familiare e di immediata comprensione senza l’uso di un’immagine corrispondente, nell’ambito dell’architettura, della biologia, della fisiologia e addirittura dell’antropologia. Le immagini offerte dall’arte, dalla biologia, dall’architettura e dall’osservazione di corpi in movimento restituiscono in figure la combinazione di tensione e integrità, rendono visibile l’assemblaggio di continuo e discreto, di rigido ed elastico. La parola “tensegrità” prende forma attraverso osservazioni e ideazioni, rappresenta qualcosa di ancora invisibile – come nel caso della struttura del citoscheletro della cellula – o solo ideato – come nel caso di una struttura architettonica. L’impiego determinato di tensegrità è reso possibile da un’immagine che apre a nuove forme di sperimentazione, costruzioni o meglio ancora a nuove visioni del mondo in tutti gli ambiti del fare umano.
Il termine viene usato dall’architetto Richard Buckminster Fuller i cui progetti si caratterizzano per la scelta combinata di materiali rigidi e elastici in costruzioni a basso impatto ambientale e facilmente rimovibili. La conoscenza degli elementi e lo sfruttamento delle forze, in gioco nelle edificazioni architettoniche, alla base di una struttura che si autosostiene – tensegrità – ha progressivamente aperto nuove possibilità all’architettura, svelando, forse persino all’ideatore del termine, il vantaggio di costruzioni non invasive, mobili, a basso costo. Buckminster Fuller è diventato successivamente sostenitore di una nuova pratica umana del mondo[4]. È entrato in uso così un termine originale linguisticamente e insieme capace di attivare capacità creative e nuovi modi di utilizzo della tecnica stessa. Un possibile orientamento capace di sfruttare le conoscenze ponendosi responsabilmente nei confronti del futuro dell’ambiente, della vita: tecnica, etica ed estetica possono collaborare nel comune interesse per l’uomo, per il mondo.
Apparentemente non si tratta di una scoperta o di una creazione in senso proprio, ma della messa a fuoco da un’altra prospettiva su un dato: il gioco tra tensione e integrità si trova già nella struttura delle cellule, negli organismi solo che lo si metta a fuoco nel fenomeno. Qualcosa non ancora “interessante” fino a quel momento o altrimenti ancora invisibile per la scienza viene portato alla luce e entra nella pratica scientifica. Come ha messo in evidenza Bateson, anche in questo caso si è determinata la combinazione tra pensiero vago (l’ipotesi di strutture autosostenentesi) e pensiero rigoroso (conoscenza dei materiali, delle leggi delle forze) in uno schema che ha permesso di inserire e collegare dati fino a quel momento slegati, incrociando proprietà dell’elasticità e dell’integrità, elementi a tirante e forza di coesione di un corpo unico. Dietro quel termine lavora un’immagine che permette di guardare altrimenti qualcosa che esiste forse dalla notte dei tempi; tuttavia solo il suo impiego determinato, la sua traduzione linguistica la legittima nel discorso scientifico.
Alla fine un termine che rinvia a un’immagine che non è solo di supporto o di esplicazione del pensiero, ma che permette di tenere insieme fattori contraddittori o anche ossimorici emancipando il linguaggio dalle rigidità della logica, dal sapere consolidato, dai paradigmi ordinari, offrendo materia al pensiero, o meglio creando nuove mediazioni tra materia e forma. Tensegrità nella sua radice evoca e lascia immaginare la reciprocità tra tensione e integrità, tra forza e totalità quando si assume il possibile spostamento del punto di equilibrio tra componenti rigide e componenti elastiche.
La cosa “interessante” è che il corpo umano stesso è tale agglomerato di ossa, muscoli, tendini e nervi che interagiscono nella stasi e nel movimento: tutti dipendenti filogeneticamente e ontogeneticamente dalle pratiche del corpo umano, dalle sue prestazioni fisiche condizionate culturalmente e fatte oggetto di scienze differenti a loro volta soggette a trasformazione. Quando tensegrità ha avuto un impiego determinato anche lo scheletro, la distribuzione delle forze nel corpo umano sono apparsi in una luce diversa nello studio del benessere o delle patologie della postura, del movimento. In ultima analisi quello che sembra un astruso neologismo assume significato ed entra nel discorso nel momento in cui rinvia a un processo di conoscenze e di pratiche che lo prefigurano, lo preparano per poi acquisire in esso il profilo di un’immagine e la pregnanza di un significato. Questo spiega il tempo che è stato necessario perché in tensegrità immagine e parola si richiamassero nella pratica del pensiero.
- Una nuova immagine per l’uomo
Che si scelga per il nostro tempo l’aggettivazione di postmoderno, o surmoderno o neomoderno, è fuori dubbio che siamo eredi del Moderno, costretti al confronto con il nostro passato. In questo orizzonte anche tensegrità, in questo tocca da vicino l’immagine del “nostro” corpo, nel suo impiego determinato deve essere messo alla prova nel confronto con il carico di rappresentazioni e abitudini che appartengono a un passato che continua ad agire nella pratiche e nello studio dei corpi. La pratica del corpo è stata ispirata nella nostra tradizione occidentale moderna dall’antropocentrismo, segnata dalla mitologia dell’homo faber o più tardi dell’homo tecnologicus, della prestazione fisica e dell’accumulazione/consumo energetici in direzione di un individualismo isolazionista o di un isolazionismo antropocentrico. La cura del corpo ha condiviso la cifra dell’uso dei corpi portando alla sottovalutazione degli stress da fatica, dei condizionamenti ambientali e dell’impatto degli stili di vita: l’integrità e la stabilizzazione ha lasciato in secondo piano il peso dei fattori tensivi nell’equilibrio psicofisico, distogliendo lo sguardo dalla combinazione tra tensione e integrità che ha consentito e consente a ciascun corpo di avere una postura corretta, di interagire con l’ambiente esterno, di rimanere aperto e sensibile agli stimoli e alle energie in campo nel mondo. Questa immagine dell’uomo ha avuto a sua condizione il primato della coscienza, della ragione strumentale e progettante, ha trascurato invece la plasticità e la potenza del corpo facendo dell’armonia e dell’unità coesa il modello del benessere. Nel corpo come nel soggetto moderno tutto quanto si è mostrato confuso, scomposto, vago è stato oggetto di attenzione solo come terreno di diagnosi e di terapia. Il corpo è rimasto prigione dell’anima solo in quanto e fino a quando la sua integrità si è opposta alla sua forza energetica, o meglio fino a quando l’antropologia ha lavorato sulla base del pregiudizio logocentrico. Relativamente da poco tempo si è presa in considerazione la connessione tra stress fisico e stress psichico o la possibilità di intervenire sulla sofferenza ossea agendo sui punti di tensione di muscoli e nervi. Nell’apertura ad altre forme di pratiche terapeutiche, a visioni dei corpi provenienti da altre culture e da altri tempi – vittime della stessa discriminazione subita da visioni del mondo differenti nell’Occidente sedicente civilizzato – si è attivato un senso innovativo e creativo, e quanto sembrava ancora vago e mitico ha recuperato spazio nel pensiero rigoroso.
Leggendo Il teatro di marionette di Kleist si può constatare come la rappresentazione moderna dell’uomo ha dato da tempo i primi segni di un disagio verso questa ossessione per l’addestramento dei corpi. Il racconto parte dall’incontro tra il narratore e un grande ballerino dinanzi a un teatro di marionette. Al narratore, incuriosito dal suo interesse per questi artefatti e convinto che la danza sia la massima espressione della grazia del corpo, il grande ballerino confida il motivo della sua fascinazione per le marionette: il vantaggio della marionetta sul danzatore vero e proprio è «un vantaggio negativo: essa non farebbe mai movimenti affettati. L’affettazione appare [...] quando l’anima (vis motrix) si trovi in qualche altro punto che nel centro di gravità del movimento»[5]. Infatti diversamente che nella danza umana, nella marionetta «ogni movimento ha un centro di gravità, basta regolare quel centro, nell’interno della figura; le membra non sono altro che pendoli, seguono, senz’alcun aiuto, in maniera meccanica da sé»[6]. Il vantaggio è nel venir meno di una pretesa di miglioramento espressivo del corpo, nell’impossibilità di intervenire artificiosamente sulle concrete potenzialità del corpo[7]. Questo è uno dei “gravi danni” che la coscienza ha provocato agli uomini, spiega il ballerino, la cui origine è da ricercare nel libro di Mosé, il primo libro della Genesi. Il punto da cui si sono snodate nel tempo plurali narrazioni dell’origine nella cifra della difettività originaria, della in-determinazione della natura umana, sanata dalla coscienza come governo e disciplina, correzione di un corpo segnato dal peccato e scacciato dall’Eden[8].
Molte narrazioni nel corso del tempo hanno rievocato nell’antropogenesi il primo libro della Genesi all’interno del discorso scientifico, rielaborando l’antico mito: salvezza, benessere, abbondanza nella versione vittimistica e in quella eroica risultano dall’intelligenza del sacrificio, della disciplina, della domesticazione. È uno studioso di anatomia, Luis Bolk a proporre una lettura dell’ominazione come evoluzione di un vivente specifico che ha il suo focus nella postura eretta, nella determinazione fisiologica a partire dalla capacità di creare distanza dalla tensione degli istinti che avrà grande seguito nell’antropologia del Novecento. La cifra è quella dell’inversione del movimento espansivo della vita: l’uomo è un feto nato prematuramente o segnato da uno sviluppo ritardato della maturazione. Il suo adattamento o la strategia di sopravvivenza si sono configurati come sottrazione o giusta amministrazione dell’energia che ha ritardato la satura del cranio, lo sviluppo della dentatura, lo sviluppo sessuale e procreativo: il corpo si è difeso chiudendosi su se stesso, quasi regredendo fisiologicamente avvantaggiandosi delle strutture di accudimento, interagendo mimeticamente e conservandosi nell’esercizio del rallentamento. Al vertice una mente intelligente capace di consolidarsi negando, sospendendo ed esonerando il corpo dalla fatica fino ad accettare il disagio della disciplina in nome del progresso della cultura, pharmacon della natura. Una scoperta fatta da un’anatomista che si spinge fino ad abbracciare la teoria nietzschiana della possibile implosione dell’umano per eccesso di salute, quella che potremmo definire un’immunizzazione dalla vita[9].
- Dalla postura eretta alla tensegrità
Una chiave antropologica messa in uso attraverso un termine – neotenia – generatore di ulteriori articolazioni, correzioni, mutuato dallo studio degli anfibi, a segnalare la permanenza di caratteri infantili nello sviluppo, ha aperto nuove prospettive all’antropologia interessata a spogliare la natura dell’uomo da ogni fattore creaturale preservandone la specificità. Un vivente il cui scarto evolutivo è determinato dalla capacità di adattamento, dalla sua progressiva scoperta dei vantaggi della stanzialità, della stabilizzazione, dei legami, delle leggi, in qualche modo votato alla sovranità e al potere della coscienza e della disciplina. Quando Bolk pensa all’evoluzione tratteggia anatomicamente lo scheletro e il cranio in funzione di un corpo in grado di sopravvivere in quanto capace di svilupparsi ritardando la reazione, inibendo l’istinto, giocando negativamente sulla spinta vitale secondo un’idea di risparmio che avrebbe salvato l’uomo nella lotta per la sopravvivenza. Secondo un’economia del risparmio il vivente della specie umana si è distanziato da spinte e reazioni, distaccandosi da sé e dal mondo: disciplinato, centrato e coerente, alla fine privo di grazia. Il risultato nonostante tutto è un uomo antiquato, in ritardo questa volta non nella maturazione fisiologica, ma rispetto alle sue stesse creazioni ispirate all’esonero dalla fatica e dal coinvolgimento, ma proprio per questo ormai riprodotto e sostituibile[10].
Tensegrità cambia registro: è il nome di un’antropologia creativa, una nuova forma di lettura del corpo vivente che sostituisce alla priorità della postura eretta il plastico movimento nello spazio, all’utilizzazione lo scambio di energia, all’impermeabilità l’attivazione dei sensi. Scontata è la domanda: come può un termine ideato per costruzioni, per artefatti essere utilizzato per una proposta antropologica che non ha e non vuole avere niente di scientifico, che parla di magia, di iniziazioni, di sciamani nel XX secolo?
Castaneda la introduce e il suo non è un incidente linguistico, ma l’operazione attraverso la quale, dopo una serie di scritti, trova nella tensegrità di Buckminster Fuller il corrispondente linguistico del nucleo ispiratore della saggezza dello sciamano Don Juan. L’associazione della tensegrità all’antropologia e ancor più alla magia appare subito temeraria e Castaneda viene subito ridimensionato e criticato da antropologi e scienziati. Non è questo il luogo per discutere la questione, vorremmo solo suggerire quanto Roger Caillois afferma di Lévi-Strauss dopo una lunga polemica su relativismo e universalismo: «[vi sono intuizioni che paiono] derivare dalla nostra appartenenza al mondo e definire un gruppo di spiriti divisi tra il sogno e il sapere, costantemente alla caccia degli echi, dei riflessi, delle armoniche che sentono costituire la trama dell’universo»[11].
L’antropologo Carlos Castaneda potrebbe essere annoverato tra questi «spiriti divisi tra il sogno e il sapere»[12]. Egli trasforma il suo studio sulla cultura degli sciamani dell’antico Messico nella sperimentazione attiva di un nuovo approccio al mondo, di una relazione magica e iniziatica grazie all’incontro con don Juan. Il riconoscimento di punti vitali, l’esecuzione di passi “magici” libera i sensi dall’automatismo ripetitivo, slatentizza energie bloccate giocando sulla diversificazione e mobilità dei punti di equilibrio, sull’abbandono del rapporto subordinato al controllo e alla disciplina in nome di un’esperienza diretta di un “me” plurale e dinamico.
L’esperienza personale di Castaneda con lo sciamano don Juan ha creato le condizioni per una nuova antropologia, eccentrica ed eterodossa, che rifiuta ogni forma di teorizzazione astratta e univoca. La saggezza viene trasmessa da don Juan prima a Castaneda e poi a pochi adepti attraverso una lunga convivenza e un prolungato contatto, non si presta perciò a diventare precettistica, non è ascrivibile all’abreazione conseguente a un transfert[13]: guardare e guardarsi e sentire e sentirsi altrimenti non deriva dal gioco di fascinazione e dipendenza creati da uno scompenso emotivo. Nel rapporto tra l’adepto e lo sciamano si mette in gioco una complessa dialettica tra seduzione, imbroglio, proiezione nell’intreccio tra tensione reciproca e invulnerabile integrità dei corpi. L’esercizio non è finalizzato a una qualche guarigione o garantito nei suoi risultati, non è risoluzione di una reattività dolente, ma contatto con l’energia vitale attraverso l’interazione tra il corpo proprio e il corpo energetico, in qualche modo fluidificazione del corpo nell’universo: esige una pratica in prima persona, un esercizio continuato.
Castaneda deve iniziare un nuovo cammino verso la saggezza, muove dalla cultura occidentale, dal suo percorso matura lentamente una sorta di resistenza critica verso l’estraneazione che condivide con l’universo di valori in cui si è formato: uomo estraneo a se stesso, all’altro uomo, all’ambiente, al mondo, “ottuso” e impotente. Non a caso Castaneda nella vita dopo questa scelta esistenziale e teorica si è sottratto a ogni forma di culto, di mitografia o di divulgazione manualistica delle sue pratiche[14]. Il termine “tensegrità” da lui scelto per la combinazione di tensione e integrità, d’altra parte, non è comprensibile e immaginabile senza la pratica del contatto e l’attivazione dei sensi; tutto quanto ha poco a che fare con l’analisi, il sapere di scuola e la riproducibilità tecnica.
Nella acquisita e codificata opposizione tra natura e cultura parlare di natura umana risponde a una precisa ideologia che naturalizza quanto in realtà è prodotto di pratiche individuali o collettive di stabilizzazione e di sottrazione all’interconnessione con l’ambiente, la natura, il mondo e l’energia[15]: la relazione normale e normata che l’uomo ha con la propria natura legittimata dall’oggettivazione scientifica e dall’ispirazione tecnologica. La saggezza della tensegrità invece “fa vedere”, si volge all’indietro, all’arcaico per aiutare a sollevare i piedi da una terra e da una natura profondamente intaccata dalla mano dell’uomo[16]. Un modo per recuperare la concretezza contro l’astrazione, per fluidificare la tensione e per aprire a un ritmo della vita diverso[17]. Forse Castaneda non è veramente un etnologo e nemmeno un testimone, non legge la cultura arcaica come un testo e si lascia tentare da una follia, che, sia pure controllata, mette in movimento il modello della normalità. Il termine tensegrità, più di ogni passaggio dei suoi testi, dà ragione di questo eccentrico percorso che rinunzia all’interpretazione dell’arcaico, che non nasconde la fascinazione dell’uomo del XX secolo per l’estasi, che riconosce che al di là di tempi, spazi e culture, il problema rimane il potere, non quello del controllo, ma quello magico del poter essere, dell’energia creativa come risorsa e non come minaccia dell’integrità. Tra l’uomo guerriero di Castaneda e l’uomo scandito dall’antropologia culturale o l’uomo lavoratore naturalizzato dall’antropologia filosofica la distinzione è nella scelta di campo, nel rifiuto o nella ricerca di un cambiamento tanto radicale quanto visionario. La distanza tra tensegrità e neotenia perciò è la stessa che intercorre tra un corpo in movimento e un corpo addestrato, tra la marionetta e il ballerino di Kleist, tra la grazia e la tecnica. Castaneda non propone un’utopia, nemmeno una distopia, al limite un’immagine rovesciata che aiuta l’uomo moderno a guardare e a guardarsi in altro modo abbandonando l’isolazionismo antropocentrico per una solitudine creativa[18].
Non bisogna dimenticare, però, che immagini, parole, teorie passate e in fieri non sono ininfluenti sui processi in cui si articola la forma umana della vita, dipendono dall’esperienza e orientano l’esperienza, plasmano comportamenti e posture decidendo dell’uso dei corpi e della relazione dei corpi tra loro e con l’ambiente: la tensegrità può aprire a nuove forme di vita umana, ma non cancella abitudini e memorie di corpi e menti. Che sia un passo avanti o un passo falso non è decisivo, significativo è il fatto che se non altro ha aperto uno sguardo diverso sul mondo, ha dimostrato come la combinazione anche nelle parole – tensione/integrità – aiuta a non distogliere lo sguardo dalla complessità e a diffidare dell’univocità e della stabilità. E forse l’antropologia della tensegrità spinge a evitare l’immunizzazione dal contatto, l’estraneazione dal mondo in vista di un recupero della relazione perduta «io-tu»[19] che non investe solo il rapporto con l’Altro, ma in primo luogo l’interno dialogo tensivo di un Io plurale.
Allora, riprendendo ancora una volta Bateson, non si tratta di esaltare l’innovazione su quanto è consolidato, il cosiddetto naturale contro il civilizzato, l’antropologia della tensegrità contro l’antropologia della neotenia e dell’esonero: ogni parcellizzazione è sempre una parzializzazione dell’io o della storia umana, un’artificiosa separazione tra universi simbolici consolidati e discorsi veritativi, tra universi culturali e differenziazioni. Tutto è in gioco, rimane solo da salvaguardare la possibilità di sintesi e di aggregazioni o meglio lo spazio e il tempo per nuove esperienze e per nuove immagini e parole.
[1] G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, tr. it. Adelphi, Milano 2013, p. 118.
[2] Ibid., pp. 144-149. A ethos Bateson preferirà schismogenesi, più adeguata a esprimere i processi simmetrici e complementari di differenziazione sociale.
[3] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), ed. it. Einaudi, Torino 2009, p. 244.
[4] Ci limitiamo a citare dell’autore Utopia or Oblivion. The Prospects for Humanity, Viking Press, New York 1972, dove confluiscono la vena visionaria e l’interesse per un’architettura ecologica.
[5] Cfr. H. von Kleist, Sul teatro di marionette, in R.M. Rilke, C. Baudelaire, H. von Kleist, Bambole, tr. it. Passigli Editore, Firenze 1992, pp. 67-93, qui p. 79.
[6] Ibid., p. 71.
[7] Nel racconto di Kleist il dialogo sulla grazia prosegue con la descrizione dell’inutile tentativo di un ragazzo di imitare l’armonia della postura del cosiddetto “spinario” e dello scontro di scherma con un orso legato a un palo.
[8] Sul tema si veda B. Accarino, Uomo/Animale: fisiologia della grazia? A partire da Heinrich von Kleist, in «Studi Filosofici», XXXVIII, 2015, pp. 205- 223.
[9] Cfr. L. Bolk, Il problema dell’ominazione, tr. it. DeriveApprodi, Roma 2006. Sul tema dell’immunitas ci limitiamo a citare R. Esposito, Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.
[10] Sugli effetti dell’evoluzione dell’uomo tecnologico caratterizzato da un “corpo ottuso”, cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2003, in part. pp. 57-120.
[11] R. Caillois, Risposta a C. Lévi-Strauss, Discorso d’ingresso all’Académie Française (apparsi su “Le Monde” 28 giugno 1974) ora in R. Caillois, C.Lévi-Strauss, Diogene coricato. Una polemica su civiltà e barbarie, Medusa, Milano 2004, qui p. 161.
[12] Sarà sufficiente citare qui solo alcuni titoli dei testi di Carlos Castaneda per rintracciare il preciso riferimento al mondo del profondo, del sogno, Cfr. Il fuoco del profondo, Rizzoli, Milano 1987; Una realtà separata, Rizzoli Milano 2000; L’arte di sognare, Rizzoli, Milano 2000.
[13] Cfr. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, tr. it. Mondadori, Milano 1992, in particolare “Magia e religione”, pp. 189-272, in cui l’autore afferma l’analogia tra la psicanalisi in cui il medico «compie le operazioni e il malato produce il mito» e lo sciamanesimo in cui lo sciamano «fornisce il mito e il malato compie le operazioni» (p. 226). Nel caso di Castaneda evidentemente non si tratta di una qualche forma di divisione di compiti e ruoli, ma di una vera e propria iniziazione.
[14] Su questo si veda F. Jesi, Introduzione a Carlos Castaneda, L’isola del Tonal, tr. it. Rizzoli, Milano 1975.
[15] Redistribuire l’energia è la parola chiave del testo Tensegrità. I passi magici degli sciamani dell’antico Messico, tr. it. Rizzoli, Milano 1997. In questo testo Castaneda pone in rilievo come l’insegnamento di don Juan nel momento in cui si estende ad altri adepti semplifica alcuni fattori rituali. Si fa tecnica o terapia per l’acquisizione del giusto equilibrio energetico, lo stesso che Castaneda cerca di trasmettere con i suoi ultimi scritti, da cui scompaiono quei fattori di complessità quali l’inganno, lo scherzo, l’imbroglio che accompagnano la “magia” reciproca istituatasi tra lui e don Juan. Il limite non è certamente nel metodo dell’etnologo, piuttosto nella diluizione della forza dell’“illuminazione profana” dell’originario apprendista nella nebulosità della comunicazione, che nulla toglie alla provocazione della “magia controllata” di Castaneda.
[16] Per quanto i testi di Castaneda si fermino alla narrazione dell’insegnamento ricevuto da don Juan, insistano sulla narrazione personale di un incontro che ha cambiato il suo “sistema cognitivo”, si percepisce in essi la percezione di un altrimenti aperto dal “guerriero” rispetto all’uomo comune, quello ormai dominante nel mondo occidentale. Lo stesso che aveva ridimensionato con il “guerriero”, la capacità di vedere. Tuttavia per Castaneda una rottura degli schemi della normalità è ancora possibile e non solo confinata in un universo arcaico. Cfr. C. Castaneda, La ruota del tempo. Pensieri sull’universo degli sciamani dell’antico Messico, tr. it. Rizzoli, Milano 1999: «Un guerriero non ha onore né dignità, non ha famiglia né nome né patria, ma solo vita da vivere, e per questo il suo solo legame con gli altri uomini è la sua follia controllata», p. 47.
[17] Sempre nella citata introduzione a L’isola del Tonal, Jesi sottolinea come l’incontro tra la saggezza primitiva dell’Indio e l’uomo occidentale, l’etnologo, combini elementi di “illuminazione profana” e fattori di immersione in una cultura altra che richiede l’abbandono dei condizionamenti della ragione e la liberazione dei sensi. Il risultato è analogo a quello prodotto dall’uso degli allucinogeni che va in direzione della solitudine piuttosto che in quello della ricerca di un “nuovo modo di vivere in comune”. Si potrebbe ipotizzare che l’incontro “magico” è quello tra la solitudine dell’indio piegato e isolato nello spazio privato dalla colonizzazione e quello dell’uomo del XX secolo ridotto a “una dimensione” dal sistema del potere.
[18] Si potrebbe associare la proposta di Castaneda alla proposta di P. Sloterdijk in Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2010) come indicazione di un recupero delle capacità atletiche e acrobatiche sacrificate dalla civiltà della tecnica. Un accostamento forse rischioso, di cui lo studioso tedesco forse sorriderà.
[19] Quanto afferma G. Bateson, op.cit., p. 487.