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Indice
- A mo’ di premessa
- La fine dell’illusione
- Mosca cieca
- Facciamo come se…?
S&F_n. 08_2012
Abstract
“Catastrophe” happens and grows not only when “natural” disasters and hurricanes turn our lives upside down, but also when we live life as a fake play. Nowadays, human beings are cheating: they deny and remove the catastrophe, trying to survive. This is the reason why, the risk of human extinction is progressively increasing. Will “the pedagogy of catastrophes” save us?
-
A mo’ di premessa
È inutile negarlo: quel che si respira nelle nostre società è un’aria da fine del gioco.
Si ha la netta sensazione che qualcosa di importante sia giunto al termine e che, al di là dell’agitarsi convulso delle metropoli e dei mercati (ma forse proprio dentro e per questo stesso agitarsi), una lunga fase storica stia tramontando.
Sembra di avere davanti un paziente che, pur tenuto in vita dalle macchine, sappiamo già clinicamente morto. Il problema è che i pazienti siamo noi stessi.
Come alla fine dell’Impero Romano o per la finis Austriae, seppure diversi e ammodernati, i segnali ci sono tutti, e da tempo.
E mai come oggi tornano di moda nuovi millenarismi, con le consuete parole e premonizioni, suggestive e potenti: apocalisse, catastrofe, fine del mondo.
E, come è sempre accaduto nella storia umana, si diffonde il timore che non ci possano essere altri modi di vivere e di stare nel mondo, altri futuri, futuri altri.
Proverò a leggere questa fase a partire da un taglio inconsueto, quello del gioco, proseguendo così sul filo rosso avviato in un mio più corposo testo del 2007[1].
Descriverò, cioè, la catastrofe in corso a partire da categorie e parametri tipici di quella che ho definito ludetica (un’etica-estetica che trae dal giocare ed esprime nel giocare le sue visioni e i suoi ideali teorico-pratici).
- La fine dell’illusione
Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice.
Ma soltanto chi è felice può uscirne.
M. Ende
Quel che un filosofo ludetico riscontra oggi è in primo luogo un forte calo della motivazione a giocare, una demotivazione preliminare a mettersi in gioco, una perdita di fiducia preventiva nel senso e nel valore del giocare, una fine dell’il-lusione appunto.
Moltissimi esseri umani sono oggi esclusi dal gioco: milioni di persone nel mondo non possono neppure entrare allo stadio, altri hanno il pass ma possono solo fare da spettatori; altri ancora stanno sul terreno di gioco ma sono relegati (e forse per sempre) in panchina, ad attendere il loro turno.
È difficile chiedere motivazione e vitalità a chi non può neppure provare a giocare.
Se la trovano, sarà per dedicarsi ad altri giochi (ad es. drogarsi, studiare da fanatici religiosi, affiliarsi alla mafia, allenarsi per diventare kamikaze o quantomeno per distruggere vetrine, incendiare cassonetti o cabine telefoniche).
Se invece viene loro consentito l’accesso al campo le persone iniziano a giocare, ma come senza crederci: il gioco viene giocato sì, ma automaticamente, senza voglia né interesse, senza prospettive, depressivamente direi.
È facile vederlo oggi negli occhi degli studenti, quando seguono una lezione o chiedono la tesi: magari sono stati efficienti e rapidi nel laurearsi, sono interessati a vari argomenti e testi, appaiono intelligenti e preparati sull’esame specifico, ma i loro occhi – se sai vederlo, se hai la forza di vederlo – ci dicono, disperatamente: che senso ha tutto questo, cosa c’entra con la mia esistenza più profonda, verso dove mi sto muovendo, che ne è delle mie vocazioni e della mia libertà?
Perché le loro espressioni e le loro domande sono, in tempo di catastrofe, e seppur tacitate, anche le nostre (che, per merito, per sorte, o anche solo per età, siamo, almeno per ora, dall’altra parte).
Il peggior nemico del gioco, come si sa, è proprio colui che gioca senza coinvolgimento.
Chi lo fa uccide il gusto di giocare di chi gioca accanto a lui molto più di uno che si rifiuta di giocare e sta fuori e anche più di uno che gioca barando (e che, almeno, è davvero, seppur perversamente, coinvolto).
Ma un filosofo ludetico a questo punto non può non chiedersi il perché.
Da dove deriva questa apocalisse del senso che ci attanaglia e ci toglie la vita, facendoci perdere il desiderio e lo slancio e impedendoci di coltivare l’il-lusione?
Proviamo a rispondere: perché in questo gioco si bara. E non barano soltanto e soprattutto i giocatori (il che potrebbe far parte del gioco), ma barano proprio quelli che hanno fatto le regole, le propongono e le impongono, ergendosi a loro garanti.
Il banco, insomma.
Non mancano esempi di stringente attualità e non vale la pena di enumerarli tutti: ma fatti come la trattativa Stato-Mafia, la corruzione e il peculato nei partiti politici, la nauseabonda e vuota retorica della meritocrazia e della giustizia uguale per tutti, ci stanno davanti agli occhi ogni giorno e non rappresentano più episodi, ma veri e propri assetti strutturali, regole coperte ma essenziali del gioco sociale in corso.
Ma come si può essere motivati a giocare un gioco in cui le regole sono contraffatte e infrante da chi dovrebbe garantirle (direttori, mediatori, arbitri)?
E come si può credere che possa esserci fiducia collettiva e condivisa in un sistema che premia i bari e umilia gli onesti, e in cui si sa già dall’inizio chi vincerà?
Come si può pensare che i bari non crescano, per numero e perfezionamento dei loro metodi?
Essi crescono guadagnando in potere e denaro, e proprio per questo vanno a gestire il banco e il doppio sistema delle regole (sia quello formale che quello coperto).
Ma la catastrofe in corso, valutata da un esperto di ludetica, presenta dei livelli di degrado ancora più profondi, allarmanti e demotivanti. Non ci troviamo soltanto di fronte a un gioco in cui si bara di volta in volta, nei singoli giochi. È il giocare stesso a essere truccato.
Nel senso che i giocatori non seguono neppure le regole delle regole, le premesse costitutive e dichiarate del loro giocare, la loro epistemologia profonda.
Diciamo di seguirle (e continuiamo a parlarne diffusamente, a scriverne, a far convegni e lezioni), ma facciamo altro, anzi esattamente l’opposto.
Parliamo di democrazia mentre la trasformiamo in oligarchia; parliamo di pace ma facciamo la guerra permanente; parliamo di ecologia ma inquiniamo il pianeta come non mai; continuiamo a insistere su lavoro e denaro, ma senza elargirli (una sorta di tossicodipendenza ad astinenza garantita!); blateriamo di cittadinanza e costruiamo assistenzialismo e utenza; invitiamo all’autonomia e alla libertà, ma condizioniamo e omologhiamo gli immaginari e puniamo le persone che, nonostante tutto, riescono a essere critiche e assertive. Le cose vanno avanti così, il gioco procede.
Ma per quanto ancora, con quali giocatori e con quale livello di motivazione ?
Perché quando si mangia la foglia e si scopre che il gioco è truccato, i giocatori onesti, proprio quelli che amano il gioco e il giocare, si sentono traditi, ed escono dal gioco.
E restano sul campo, a giocare, solo i bari e i barbatrucchi.
Quando questo accade, quando un sistema non è più credibile in sé e non è più possibile credere che sia possibile riformarlo o rifondarlo dall’interno, allora siamo entrati nella fase della sua catastrofe.
E ci siamo, direi, oggi.
La catastrofe non è qualcosa che deve avvenire in futuro, è già qui tra noi, si muove nelle nostre vite e ci attraversa. Basta solo vederla.
- Mosca cieca
Può essere, molto semplicemente, che non si voglia credere alla catastrofe, già ampiamente provata, perché è più comodo ingannarsi, illudersi. Oggi sembrano tutti sopraffatti dal fascino dell’autoinganno. E finiscono per voler lucrare anche sul proprio funerale.
A. Zanzotto
Ci sarebbe, a questo punto, da aspettarsi un’aperta ammissione di fallimento che ci permettesse di giungere a un condiviso fermo gioco! Ci sarebbe da sperare in una fase di transizione che preveda confronti e conflitti aperti su come cambiare gioco; si potrebbero ipotizzare scenari alternativi e iniziare a sperimentarli, magari su scale piccole, ma significative.
Un filosofo ludetico (e anche un uomo di scienza tradizionale, coerente con i suoi dettami sperimentali) proverebbe a fare così.
Ma non farebbero i conti con il gioco dei giochi, con la grande “col-lusione” che ci avvolge, e che rende decisamente improbabile una via d’uscita non catastrofica dalla catastrofe.
Da un punto di vista ludetico, infatti, ci si viene invece a trovare davanti a una evidente e condivisa mistificazione: sarebbe come immaginarsi un gioco di nascondino in cui chi cerca finge di non vedere le persone nascoste e fa come se niente fosse. O un gioco di acchiappare in cui chi scappa mette le bende agli occhi di chi rincorre. Tutto pare trasformarsi in un grande mosca cieca di massa (ma forse, anche qui, fingendo di non riconoscere chi hai beccato).
La collusione si situa, in primo luogo, nei potentissimi interessi e meccanismi materiali e simbolici che ci inducono a restare dentro questo gioco continuando a giocarlo, pur sapendolo truccato, corrotto, demotivante e ludeticamente inaccettabile.
Essa trova le sue radici, infatti, in una tossicodipendenza cognitiva capillare e di massa, in una mitologia, una neo-religione che recita i suoi mantra, sempre attraenti seppure ossidati: più denaro, più crescita, più lavoro, più consumi, più energia. Le persone che partecipavano ai riots di Londra (e che svaligiavano i negozi di alta tecnologia) condividono gli stessi immaginari di quelle che vediamo fare file oceaniche, rinunciando al sonno, per comprare uno smart-phone e che hanno trasformato la morte di Saint Steve Jobs in una iper-reale cerimonia religiosa su scala globale: l’acquisizione di un Ipad si trasforma in una neo-cerimonia eucaristica. Quando si vive dentro mitologie di questo tipo, è inevitabile restare accecati davanti alla catastrofe e potenziare la tendenza alla sua rimozione e negazione: non voler vedere/non essere capaci di vedere (scotomizzazione), oppure: essere capaci di vedere, ma rimuovere/negare (rifiuto/negazione/diniego)[2]. Attraverso incessanti e costosi tentativi di razionalizzazione (che assumono di volta in volta la forma del giustificare, minimizzare, an-estetizzare, ridicolizzare, deviare su altro, procrastinare), si va a costituire quella che possiamo iniziare a chiamare ignoranza 2. Le persone comunemente percepiscono e pensano secondo modalità non popperiane: in genere, se una nuova esperienza falsifica una nostra premessa preferiamo falsificare (manipolare, mistificare, negare) l’esperienza percettiva piuttosto che cambiare idea.
Poi risi e dissi: gli uomini sono in generale come i mariti. I mariti, se voglion vivere tranquilli, è necessario che credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chi vuole e dee vivere in un paese, conviene che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale.
Gli uomini, universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi la pensa altrimenti ... E gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene perché sempre dediti a variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che è loro negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo[3].
L’ignoranza 2 rappresenta la strategia di sopravvivenza primaria per adattarsi alla catastrofe che è già in corso. Per la maggioranza degli esseri umani che la attuano (intellettuali e scienziati compresi) non indica quindi il problema, ma la soluzione. Ci sono molte persone colte e intellettualmente capaci a un livello 1, ma questo non gli impedisce di essere consapevolmente ignoranti a un livello 2. Potremmo dire anzi, per paradosso ulteriore, che gran parte della loro impotenza ad agire viene addirittura giustificata e motivata proprio da quel che sanno (del tipo: stiamo cercando di verificare se è ancora troppo presto per avere la certezza che abbiamo già fatto troppo tardi). Dal sapere di non sapere socratico, tipico dell’homo sapiens sapiens, si è giunti alla sua totale inversione: il non so di sapere (un’ignoranza quindi di secondo livello), è divenuto lo slogan vincente dell’homo insapiens sapiens (che appare come una neo-specie, frutto di una mutazione antropologica). L’inazione e l’occultamento del conflitto cognitivo derivano quindi da un parad-ossimoro, da un’ignoranza consapevole. A differenza dei dinosauri, ci estingueremo ben informati e per nulla ignoranti del perché e del come sia potuto accadere. Noi tutti sappiamo, siamo informati della catastrofe in corso, la vediamo, la sentiamo nel corpo e nella mente, stiamo male anche. Ma la neghiamo, la rimuoviamo, fingiamo di ignorarla e, in tal modo, sopravviviamo. È un’ignoranza, quindi, che non sta al livello scolastico-intellettivo del so/non so o del penso/non penso, ma si muove nelle dimensioni del soffro/non soffro, temo/non temo (godo), cioè del mi conviene/non mi conviene. Siamo nel campo dell’est-etica, non della teor-etica. Così ci troviamo immersi e invischiati nel gioco dei giochi, nella grande col-lusione. Un gioco senza fine e senza uscita, che ci fa credere alla possibilità di evitare la catastrofe attraverso il gioco di prestigio del suo magico occultamento: anziché far apparire il coniglio dal cappello, lo facciamo semplicemente scomparire. E tutti, intorno, applaudono e sorridono, felici e contenti.
- Facciamo come se…?
Sul bordo di un’alta scogliera del Canada, per avvisare gli automobilisti del pericolo è stato messo un cartello: Proseguire oltre questo punto può condurre alla morte e causare il ritiro della patente di guida.
da La Settimana Enigmistica
Cosa pensava l’abitante dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero?[4] E noi cosa pensiamo oggi?
Oggi, e da tempo, parti del nostro sistema di vita vanno più rapidamente di altre e procedono verso direzioni tra loro divergenti/incompatibili, con un altissimo rischio di strappo e disintegrazione/polarizzazione o di adattamento coatto/eliminazione di un polo rispetto all’altro.
POLARITÀ 1 (+) versus POLARITÀ 2 (-)
tecnica est/etica
produzione/consumo ecologia
informazione apprendimento
finanza politica (oikos-nomia)
competizione cooperazione
sicurezza fiducia
individuo/gruppo specie/pianeta
responsabilità sul presente responsabilità sul futuro
decisionismo/guerra consenso/conflitto
I valori del polo 1 sono avanzati rapidissimi (seguendo la logica monotòna dell’homo oeconomicus, per la quale più denaro è sempre meglio di meno denaro; mentre quelli del polo 2 diventano marginali, appaiono obsoleti e si adattano, lasciandosi annullare o incorniciare dai primi.
La ludetica ci insegna che non si può proseguire ad aver voglia di giocare quando uno dei due giocatori sa di non poter che perdere sempre (il giocare è un’attività che prevede reciprocità, equivalenza, cooperazione nella competizione e alternanza di poteri, altrimenti scompare).
Ma sino a quale limite/soglia i valori del secondo polo possono involvere senza crollare o senza giungere al punto entro cui anche il polo 1 collassi catastroficamente e noi tutti con esso?
Siamo dentro dilemmi, non semplici problemi: la distruzione del pianeta è necessaria per la sopravvivenza del sistema e la distruzione del sistema è necessaria per la sopravvivenza del pianeta: cosa facciamo?
Gran parte dei processi cosiddetti naturali (la riduzione dell’ozono, il surriscaldamento dell’atmosfera, l’intensificarsi dei fenomeni cataclismatici, la desertificazione...) non possono più essere considerati come eventi indipendenti dalle attività umane, fatalità o atti trascendenti, ma sono invece sistemicamente correlati a premesse, scelte, decisioni che si situano nelle sfere della cultura, dell’educazione, della formazione e della politica. Ed a questi livelli andrebbero studiati, affrontati e possibilmente risolti[5].
Qui troviamo la definizione in nuce dell’ecologia della mente: una trans-formazione profondissima del nostro modo di pensare, di vivere, di agire nel mondo. Un lavoro che è in corso, una pratica delle conoscenze e degli apprendimenti che ha fatto alcuni passi negli ultimi decenni. Ma che sembrerebbe insufficiente, troppo lenta e troppo limitata negli effetti per rappresentare una risposta adeguata alle nostre urgenze.
Sembra proprio che non potremo evitare l’effetto-sorpresa della catastrofe. Pare quasi che la stiamo attendendo apparire da dietro la porta, come nei giochi infantili di scomparsa e ricomparsa (e forse, come bambini, speriamo anche che ci faccia cucù?). L’inutilità delle informazioni di primo livello appare evidente. I cambiamenti che da esse derivano sono troppo lenti e inadeguati, sia nei comportamenti personali, sia nelle scelte economico-politiche. La catastrofe non è più evitabile; possiamo solo iniziare a percepirla e prepararci a essa, provare a conviverci e a ridurne i danni. E a viverla come opportunità di cambiamenti ed evoluzioni, verso nuovi apprendimenti e nuove premesse e modelli. Ecco perché si è giunti a teorizzare, per paradosso, una pedagogia delle catastrofi[6]: gli uomini potrebbero cambiare se e solo se colpiti direttamente da eventi altamente stressanti (ma non irreversibilmente e globalmente letali), tali da costringerli a generare trans-formazioni e nuovi apprendimenti, vere e proprie conversioni e riconversioni dei nostri stili di vita e di pensiero sul pianeta.
Forse solo così potrà avvenire un salto, una potente e sorprendente ristrutturazione cognitiva:
I salti sono preceduti o accompagnati da una “dissonanza cognitiva”, o da quel che potremmo forse chiamare un aumento dello stato di incertezza, provocato dalla consapevolezza dell’esistenza di anomalie; sia la dissonanza che i salti hanno un carattere globale; la ristrutturazione, quando avviene, è improvvisa; la nuova struttura garantisce un’organizzazione delle informazioni disponibili più generale e concettualmente più semplice delle precedenti[7].
La pedagogia delle catastrofi nasce proprio da questo assunto: un forte shock e un alto livello di instabilità cognitiva appaiono quali passaggi obbligati per un salto gestaltico: quel che Bion chiama cambiamento catastrofico[8].
Ci si introduce alla possibilità di un’alternativa, a una distopia che si apre a un’utopia, attraverso una cesura/separazione stressante, scioccante: la catastrofe stessa come opportunità pedagogica e sociale di cambiamento che fa emergere la domanda che poneva Coetzee: siamo vivi e rischiamo di morire ? O siamo morti e rischiamo di vivere?
Per ulteriore paradosso, alcuni autori propongono suggestivamente, di giocare il gioco del fare come se...: di vivere come se la catastrofe fosse già avvenuta e come se vivessimo in un futuro anteriore[9].
Siamo sopraffatti da ciò che i francesi chiamano l’esprit d’escalier: lo stato d’animo retrospettivo sperimentato a serata finita, per le scale appunto, quando ormai è troppo tardi. Ebbene, il futuro anteriore è lo strumento grammaticale per esprimere fin da subito, prima ancora che la serata abbia inizio, l’esprit d’escalier di cui saremo preda dopo, a cose fatte: “sarò stato inadeguato” o “avrò colto l’occasione di una vita”. Poiché si addossa per un istante il rammarico o il compiacimento che forse proveremo molto più tardi, il futuro anteriore consente di discernere in anticipi quante possibilità alternative coesistano, ancora impregiudicate, mentre ci si reca a casa degli amici. Collocandosi nell’attimo in cui dilagherà l’esprit d’escalier, il sarò stato censisce i decorsi divergenti che ora ci stanno dinanzi, traduce l’acidulo “si sarebbe potuto” in un più decente si potrebbe, riabilita per tempo quelli che, in seguito, rischiano di figurare come futuri perduti. Ciò che vale per la festa conviviale, vale a maggior ragione per ogni gesto politico radicale, per ogni condotta pubblica che strida con l’ordinamento statale. L’esprit d’escalier, e il futuro anteriore che se ne fa carico preventivamente, impediscono la compilazione di una storia in cui ogni tappa successiva sia spacciata per necessaria e inquestionabile[10].
La catastrofe è già avvenuta, dunque, e non possiamo più evitarla. Che fare?
Possiamo abbatterci del tutto e restare catatonici, paralizzarci, oppure possiamo agitarci, urlare, aggredire, distruggere.
Tuttavia possiamo anche attraversarla creativamente e provare a farci nuove domande, vivendo la catastrofe come opportunità.
Potremmo seguire la logica scientifica della controdeduzione fattuale (del tipo: e se l’acqua bollisse a 80 gradi? – che non è altro che la versione seria del ludetico facciamo come se...?), e tentare così di immaginarci altri mondi possibili.
Provo, per gioco, a farmi le domande che, come società umana, potremmo permetterci finalmente di fare, approfittando della catastrofe:
E se il reddito fosse svincolato dal lavoro?
E se i beni non fossero solo e sempre merci?
E se il lavoro non fosse più un valore ma un’attività come altre?
E se la disoccupazione crescente si rivelasse un successo?
E se andassimo volontariamente verso un’economia senza crescita, decrescente?
E se la formazione fosse sganciata da produzione e occupazione?
E se la democrazia rappresentativa e statale non fosse l’unico e l’ultimo regime politico possibile?
E se pubblico non fosse più sinonimo di statale?
E se la protesta semplicemente pacifica non fosse un metodo efficace per prendere potere?
E se la guerra non fosse più una soluzione ai conflitti?
Questioni da far tremare i polsi, indubitabilmente, in una situazione complessa e disperata, e che farà ancor più disperare. Ma intravedo qui l’unica alternativa possibile alla collusione o alla resa totale: proseguire a giocare con la catastrofe e a imparare da essa[11].
[1] E. Euli, Casca il mondo! Giocare con la catastrofe, La meridiana, Molfetta 2007.
[2] S. Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, tr. it. Carocci, Roma 2002.
[3] G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico (1824), in Operette morali, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 227-228.
[4] J. Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, tr. it. Einaudi, Torino 2005, pp. 85-136.
[5] G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, tr. it. Adelphi, Milano 2000, pp.227-228.
[6] S. Latouche, Decolonizzare l’immaginario, tr. it. Emi, Bologna 2004.
[7] B.A. Turner, N.F. Pidgeon, Disastri. Dinamiche organizzative e responsabilità umane, tr. it. Comunità, Torino 2001, pp. 189-190.
[8] W. R. Bion, Il cambiamento catastrofico, tr. it. Loescher, Torino 1981.
[9] J. P. Dupuy, Per un catastrofismo illuminato, tr. it. Medusa, Milano 2011.
[10] P. Virno, Esercizi di esodo. Linguaggio e azione politica, Ombre corte, Verona 2002, pp. 141-142.
[11] E. Euli, S. Caserini, Imparare dalle catastrofi, Terre di mezzo/Altreconomia, Milano (in corso di stampa dicembre 2012).