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Indice
- Per un infinito intrattenimento sulla catastrofe
- Linguaggio e distruzione: soggettività senza soggetto
- Il neutro e l’impossibilità
S&F_n. 08_2012
Abstract
The Writing of disaster is composed of fragments, that are the only possible form to describe it; but what is really meant by “disaster”? There are several possible interpretations: it can be an unfavourable event, such as destruction or consumption, but it can also mean “separation from the star”, a distance from any kind of measure and especially from what we consider our order. How can we name it? Can we think it? This critical work concerns literature, poetry but also philosophy and analyses the experience of the Neuter, the Outside and the Disaster: it is the disaster of thought, of the first-person narrative and of language itself.
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Per un infinito intrattenimento sulla catastrofe
Nello sguardo gettato sul tempo, nel tentativo di separare il tempo attuale dal tempo mitico e quindi di rischiarare il nesso storia-redenzione, Walter Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia, con una bella immagine, ci fa contemplare l’Angelus Novus di Paul Klee. L’Angelus ha «gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe […] Egli vorrebbe ben trattenersi […] ma una tempesta spira dal paradiso […] questa tempesta lo spinge irrimediabilmente nel futuro»[1]. Passato e futuro, catastrofe e redenzione.
La scrittura del disastro di Maurice Blanchot è un infinito intrattenimento sulla catastrofe cui non segue però alcuna redenzione. Non c’è possibilità di tempo per il disastro, né di un passato, né di un futuro, esso è piuttosto un contretemps[2]. Si ritiene che questo libro, scritto a partire dai solchi lasciati da alcuni lutti che hanno segnato la vita dello scrittore, quasi come se fosse quindi un’elaborazione del lutto, sia stato l’ultimo, dopo di esso solo raccolte di saggi e riedizioni di romanzi e racconti.
- Hill e E. Hoppenot si domandano, partendo da due posizioni diverse, quale sia il ruolo delle parole evocate dal titolo La scrittura del disastro: «Genitivo oggettivo o soggettivo? Il disastro è un tema o un soggetto per la scrittura?»[3], sottolineandone la duplice interpretazione: da un lato, un senso funesto, come qualcosa che giunge, inaspettato e sconosciuto, dal cielo. La morte, la passività sono temi che riempiono le pagine di questo libro accompagnandoci nel viaggio attorno a una parola che pare ormai giunta al suo esito. Ma, dall’altro lato, il disastro si presenta sotto forma di metonimia: i rimandi diventano molteplici così come le sue diverse declinazioni: dissolution, désorientation, déception, distance, disparition, désarrengement, désentente, déseppointement, désolation, désarroi. Il mondo del disastro è così un mondo inteso non solo come il luogo delle nostre esperienze ma anche come l’insieme dei significati veicolati attraverso il linguaggio. Tuttavia, questo mondo del senso e della scrittura non è abbacinante, sontuoso e fecondo ma ci appare innanzitutto come desolato, frammentato non solo al livello del contenuto ma anche della forma. Le parole appaiono qui come miriadi di scogli – si contano circa quattrocento frammenti – che vanno a formare un arcipelago, per richiamare un’immagine di René Char, o come sciami di stelle cadenti o come erranti enigmi di nietzschiana memoria.
La scrittura privilegiata in questo libro non è la cifra di un calcolato vaglio ma è l’unica, forse, modalità in cui si può dire, narrare il disastro. È soltanto quando abbandoniamo ogni statuto nella e delle scrittura che si profila la scrittura del disastro: «Quando tutto è detto, ciò che resta da dire è il disastro»[4]. La scrittura frammentaria non soggiace al fascino del sistema, nemmeno se tale fascinazione si tramutasse in intervallo (che richiede, cerca una continuazione), essa è piuttosto una sospensione temporanea, un’esigenza quale possibilità altra di scrittura: lo spazio bianco tra le parole – questa rottura e questo vuoto – non è una distanza né una separazione ma uno strumento che spinge i frammenti al limite. La parola di frammento è una parola di interruzione che conduce al di là di ogni discorso, di ogni spazio ma essa è, al tempo stesso, ciò che è stato rotto, infranto: un «frammento di meteora distaccatosi da un cielo ignoto e che è impossibile riattaccare a nulla che si possa conoscere»[5]. In Blanchot il frammentario non si riferisce a un insieme, a una totalità: il frammento sembrerebbe la condizione originaria di ogni realtà senza avere tuttavia rapporto con l’origine, con un centro originario. Il frammentario è un affidarsi al mormorio incessante e all’effacement, nel duplice senso di cancellazione e dileguamento ma che non diviene tuttavia esperienza, anzi esso è posto al di fuori di ogni possibilità ma anche di ogni occasione di esperienza possibile: esso è la «“potenza” del disastro di cui non c’è esperienza»[6]. Si potrebbe considerare la frammentazione come l’intermittenza fugace di una lampada che non funziona - alternanza di bagliore e di oscurità – come una luce che appare, a tratti, come chiarore tremolante: non siamo nel dominio della fosforescenza e dell’abbacinamento ma nel campo del chiaro-scuro. Invece di risiedere nella verità, nella sua luminosa evidenza, invece di abitare l’essere, di soggiornarvi edificando delle costruzioni sicure, al riparo da ogni disastro, da ogni movimento tellurico, la scrittura frammentaria è errante.
Scriveva Blanchot ne La bestia di Lascaux «Come la parola sacra, la scrittura proviene dall’ignoto, è senza autore, senza origine, e quindi rinvia a qualcosa di più originale. Dietro alla parola dello scritto nessuno è presente ma quella parola dà voce all’assenza»[7]. Il linguaggio corrente si riferisce alla non esistenza di una cosa, questa non esistenza diviene parola, significa in modo concreto, la cosa cioè diviene realmente presente: «la parola le restituisce, sul piano dell’essere (l’idea), tutta la certezza che aveva sul piano dell’esistenza»[8] Ciò garantisce la tranquillità del nostro quotidiano, l’acquietamento di fronte a ciò che ci circonda, a ciò che possiamo fare nostro perché dandogli un nome ce ne appropriamo e questa conquista ci mette al sicuro da ogni minaccia di instabilità. La letteratura, al contrario, ha a che fare con l’inquietudine, ne è intrisa, essa è l’ossessione della notte: «[…] non si confonde con la coscienza che illumina e decide; essa è la mia coscienza senza moi, passività radiante di sostanze minerali […]»[9]. La letteratura dialoga con la morte, constata il diritto alla morte.
- Linguaggio e distruzione: soggettività senza soggetto
Quando parliamo è la morte, per Blanchot, che parla nelle parole, ma cosa significa questo? Quando parlo di una cosa, anche se sto dicendo che in quel momento è lì, affermo nello stesso tempo che può essere sottratta a se stessa e rimandata a «un niente di esistenza e di presenza; il mio linguaggio significa essenzialmente la possibilità di questa distruzione»[10]. La distruzione, la morte, è ciò che consente paradossalmente di accedere al senso specifico delle parole, se essa non ci fosse cadremmo in un non senso incommensurabile. Quando si nomina qualcosa è come se si facesse riferimento non alla presenza ma alla sua assenza. E la morte non riguarda solo le cose ma anche colui che le nomina: anche io che parlo, nominandomi, sono una presenza impersonale: quando infatti nomino le cose nego, al contempo, l’esistenza delle cose ma anche la mia stessa esistenza. Blanchot diffida della parola soggettività, ambigua, infida, poiché nasconderebbe in realtà soltanto il travestimento adoperato da chi vuole conservare ancora il privilegio della presenza. L’avventura della scrittura così si trasforma in “tragedia” nel corso della quale l’io – soggetto, autore, scrittore, ma anche personaggio – perde le proprie caratteristiche, perde soprattutto il potere di dire io: siamo di fronte a una «soggettività senza soggetto, la parte ferita, il livido del corpo morente già morto di cui nessuno potrebbe essere il proprietario o dire: io, il mio corpo»[11]. Seguendo le esperienze di Kafka, di Mallarmé, di Rilke, ma portandole fino alle estreme conseguenze, Blanchot mostra come colui che scrive sia consegnato al rischio di perdere se stesso: la scrittura si rivela spossessamento del sé. «Scrivere, certo, è rinunciare a tenersi per mano o chiamarsi per nome proprio, e nello stesso tempo non è rinunciare, è annunciare, accogliendo senza riconoscerlo l’assente – o, attraverso le parole nella loro assenza, essere in rapporto con ciò di cui non si può avere ricordo […], rispondendo non solo al vuoto nel soggetto, ma al soggetto come vuoto, la sua sparizione nell’imminenza di una morte che ha già avuto luogo fuori da ogni luogo»[12]. Una sparizione che, attraverso l’esperienza tutta ed esclusivamente letteraria, diventa sempre più radicale perché lo scrittore subisce, da parte dell’opera, uno svuotamento: egli deve divenire «il luogo vuoto dove si formula l’affermazione impersonale»[13], dove avviene il passaggio dalla prima persona a un impersonale senza nome né identità, passaggio dal je all’il. Questo il non indica un altro da me o un altro in me, non è una distanza presa da un soggetto, un allontanamento che nel momento creativo diviene fecondo stimolo o conseguente necessità, niente di tutto ciò: «Il è me stesso diventato nessuno […] là dove sono, io non posso più rivolgermi a me stesso […]»[14]. Tra lo scrittore e l’opera (letteraria, in questo caso) c’è uno scarto, una distanza poiché l’opera sembra acquisire ai suoi occhi una “anima” propria, una vita separata da colui che la scrive: «Lo scrittore scrive un libro, ma il libro non è ancora l’opera; l’opera non è tale se non quando in essa, nella violenza di un cominciamento che le è proprio, si pronuncia la parola “essere”»[15]. Lo scrittore, così, è costantemente posto di fronte a ciò che l’opera è e a ciò che egli manca poiché ogni sua volontà o iniziativa risulta vana dal momento che si scontra con l’affermazione impersonale e anonima dell’opera: l’opera in questo senso è infinita, né compiuta, né incompiuta. La composizione prende forma man mano, rispondendo a un’esigenza che gli stessi romanzi, gli scritti politici, le lettere, i saggi di critica letteraria di Blanchot in qualche modo mostrano: l’opera ha una vita propria e il dominio, l’autorità dello scrittore è fittizia. Paradossalmente, l’unico potere nelle mani dello scrittore è quello di smettere di scrivere, forse non iniziare neppure. Così, se «scrivere è consegnarsi al fascino dell’assenza di tempo»[16], quest’azione significa anche avere a che fare con un’assenza di sistematicità, un’insufficienza di punti di riferimento precisi, senza inizio né fine: la scrittura è così un luogo senza luogo dove regna sovrana una mancanza di tempo. Scrittura come spazio vuoto in cui si avvicendano l’attesa (e) l’oblio, temporalità senza tempo e senza qualcuno in grado di reggerle sulle spalle. L’opera affascina, attrae e trascina nel suo movimento di seduzione: scrivere non è entrare a far parte di un dispositivo concatenato, in cui si ha già la trama definita da seguire scrupolosamente, un percorso o un’idea da sviluppare, un progetto da realizzare ma è affidarsi al caso, al frammento, come abbiamo visto, al rischio, anche, di un’assenza di libro, al rischio di affacciarsi sul neutro.
Ne L’Infinito intrattenimento, a proposito della filosofia Blanchot scriveva:
Con una semplificazione evidentemente abusiva, si potrebbe interpretare tutta la storia della filosofia come uno sforzo per acclimatare e addomesticare il “neutro” sostituendovi la legge dell’impersonale e il regno dell’universale […] Il neutro è costantemente escluso dai nostri linguaggi e dalle nostre verità. […] Queste proposizioni rischiano di non aver alcun senso, a meno che non raggiungano il loro scopo che è quello di mettere in questione il postulato su cui si fonda implicitamente tutto il pensiero occidentale […] la conoscenza del visibile-invisibile è la conoscenza stessa; la luce e l’assenza di luce debbono fornire tutte le metafore in rapporto alle quali il pensiero va incontro a ciò che si propone di pensare […][17].
- Il neutro e l’impossibilità
Ma, cos’è il neutro? Neutro è ciò che non appartiene a nessun genere, è ciò che non rinvia né alla sfera di un soggetto, né tanto meno a quella di un oggetto. Non è ciò che sulla scia del negativo hegeliano indichi un ritorno a una positività della Ragione, movimento interno a se stesso. Il neutro non è il negativo perché in esso non c’è alcun lavoro: è il «Terzo Escluso»[18], «né questo, né quello»[19]. Né affermazione, né negazione. Il neutro, nelle sue metafore della notte, del fuori e del disastro, come ciò che non dona niente, non può essere la cifra di una Sinngebung, non richiede nemmeno un ego che accolga la sua (mancanza di) donazione ma al contrario «trascina con sé allo stesso tempo l’ego ed ogni possibilità di costituzione, a vantaggio […] di una perdita nuda nella notte»[20].
La prima apparizione del neutro, se si tralasciano i romanzi e i racconti, è in un articolo pubblicato nel 1958 ne La Nouvelle Revue Française: qui Blanchot, parafrasando Lévinas, descrive l’étrangeté come un campo di forze anonimo, inteso come l’essere «che si afferma sottraendosi […], dell’essere che non è mai un essere, né una pura assenza d’essere, e neppure dell’essere che non sarebbe né questo né quello, cioè neutro, ma la neutralità dell’essere o la neutralità come essere […]»[21]. Nella radicale differenza dall’essere, il neutro si presenta nei suoi caratteri di impossibilità e di inafferrabilità. Il neutro è ciò che non si lascia rappresentare, comprendere, annullare o assorbire da una definizione o da un concetto: esso è ciò che Blanchot nomina nei termini dell’altro, l’assolutamente diverso, precisando che l’uso della maiuscola condurrebbe solo a sostantivizzarlo. Esso è ciò che il pensiero non può ricondurre a un’unità, a un’identità; è il radicalmente altro, è una trascendenza, senza che la parola trascendenza ci rimandi a un al di là teologico, etico o filosofico, tanto è vero che Blanchot afferma che del neutro non si può parlare né in termini di immanenza né in quelli di trascendenza.
Il neutro così non è l’approdo a una definizione, ma è l’essere in balìa del mareggiare, l’oscillazione sempre continua. Ma, se esso rappresenta per la filosofia un impasse e per il pensiero uno scandalo, qual è il modo per avvicinarsi al neutro se esso sfugge anche – mettendola in discussione con il suo stesso apparire – alla metafora della luce? Da sempre, osserva Blanchot, la luce ha avuto il ruolo privilegiato di essere la portatrice di senso nella misura in cui in essa e attraverso essa le cose diventano visibili a noi che possiamo così accedervi:
la luce e l’assenza di luce debbono fornire tutte le metafore in rapporto alle quali il pensiero va incontro a ciò che si propone di pensare; è impossibile “prendere di mira” (altra metafora ricavata dall’esperienza ottica) ciò che non ci si presenti nella presenza dell’illuminazione. […] non è la luce ad aprire il rapporto con esso [il neutro], né l’assenza di luce a chiuderlo. […] pensare o parlare al neutro equivale a pensare o a parlare a prescindere da ogni cosa visibile o invisibile[22].
Dunque, il neutro non apre alla luce, la luce come verità, la luce come misura greca, né è aperto – illuminato – da essa, ma si prospetta come una diversa «dimensione in cui occorre rapportarsi al di là di ogni orizzonte»[23].
Non basta più soltanto pensare il neutro, tentare di accoglierlo, occorre realizzare questa impresa: Marlène Zarader individua nel disastro l’incarico cui è sottoposto il pensiero senza che ciò tuttavia si traduca in un dispositivo, in un meccanismo attivo. La scrittura del disastro sarebbe, così, un possibile risvolto del neutro, una sua effettiva concretizzazione, che continua a mantenere la sua distanza dall’essere come dal non essere e piuttosto che parlare di un passaggio dalla notte del neutro a quella del disastro, occorrerebbe ritenere quest’ultimo come la tinteggiatura più accesa del neutro, la sua ultima sponda.
Come il dehors e la notte, anche il disastro – ulteriore declinazione del neutro – è un nome posto al di fuori del sistema di riferimento del senso senza che questa esteriorità diventi essa stesa senso: nessuna etimologia può venire in nostro soccorso, nessun sapere può congedare questo rischio per il pensiero che ha il compito di vegliare sul neutro[24]. Il disastro è un resto: non è assenza né presenza, ma lascia inalterato – sospeso – ogni rapporto di presenza/assenza.
Sul disastro, nel libro da cui siamo partiti, vi sono diverse questioni: la solitudine (dell’opera e dello scrittore), la passività, l’olocausto, l’effacement del soggetto, la veglia e sono possibili naturalmente vari piani di interpretazione che si intersecano. Tutti questi temi possono essere considerati come residui di un dialogo a più voci in cui nessuna di essa prevale sulle altre e allo stesso tempo come radicalizzazioni di tesi sostenute nelle opere precedenti. Ma, forse, attraverso un cenno che implicitamente Blanchot rivolge a Bataille (ma anche a Heidegger e Holderlin) possiamo avvicinarci al senso del disastro – rischio concreto anche se il disastro tiene a distanza ogni maîtrise[25] – a cui abbiamo accennato all’inizio del nostro percorso. Lasciamo parlare il frammento: «“L’azzurro del cielo” racconta superbamente il vuoto del cielo: il disastro come ritrarsi dal riparo siderale e rifiuto di una natura sacra»[26]. Il disastro che si verifica come esperienza-limite narra la solitudine ma anche un’inquietudine: se, come affermava Lévinas, il disastro va letto come «senza alcuna preoccupazione teologica […] dis-astro: non essere nel mondo sotto gli astri»[27] comprendiamo che esso dice pure l’abbandono di un luogo e di un sistema di riferimento. Il dis-astro – la lontananza dall’astro – è così l’uscita dall’ordine cosmico e dalla misura, la separazione dalla totalità: esso significa pure la separazione dalla verità intesa come dis-velamento (aletheia), dis-velamento reso possibile dal primato della luce e quindi della visione. Ma lo sguardo qui si opacizza, si cristallizza e tramuta in muta pietra ogni cosa, non illumina il senso ma fa precipitare tutto in un nero inferno, nella notte oscura[28]. La lontananza dall’astro racconta uno spazio siderale ormai deserto, desolato: il firmamento tutto, come luogo del sacro, reca la traccia della sparizione degli dèi e la notte sembra avviluppare nelle sue fitte tenebre il mondo intero. Ma se la divinità è «“la misura” con cui l’uomo fissa le misure del suo abitare, del suo soggiorno sulla terra sotto cielo»[29], nel tempo dell’assenza degli dèi chi occuperà il luogo da loro lasciato vacante?
La misura […] ha la stessa essenza del cielo. Ma il cielo non è pura luce. Lo splendore delle sue altezze è in sé l’oscurità della sua ampiezza che tutto alberga. Il blu della dolce azzurrità del cielo è il colore della profondità […] Questo cielo è la misura. Perciò il poeta deve necessariamente domandare: “C’è sulla terra una misura?” E non può che rispondere: “Non ce n’è alcuna”[30]:
il senza misura, il vuoto riecheggiante, il dis-astro.
[1] W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it. Einaudi, Torino 1962, p. 80.
[2] M. Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980, p. 27. Cito da p. 7: «Il disastro è la sua imminenza […] non esiste futuro per il disastro, così come non esiste né tempo né spazio in cui si realizzi». Cfr. anche p. 125.
[3] L. Hill, Entretien: sur un désastre obscur, disponibile su www.blanchot.fr. Cfr. Anche E. Hoppenot, Maurice Blanchot et l’écriture fragmentaire: «le temps de l’absence de temps», su http://remue.net; C. Bident, Maurice Blanchot. Partnenaire invisible, Éditions Champ Vallon, Seyssel 1998.
[4] M. Blanchot, L’écriture du désastre, cit., p. 58.
[5] Id., L’Infinito intrattenimento, tr. it. Einaudi, Torino 1977, p. 410. Il riferimento, sottaciuto, è al «calmo blocco caduto quaggiù da un disastro oscuro» di Le tombeau d’Edgar Poe di Mallarmé.
[6] Id., L’écriture du désastre, cit., p. 72. Cfr. pure, Id., Le pas au-delà, Gallimard, Paris 1973, in particolare pp. 61-64, 71-74; Id., La part du feu, Gallimard, Paris 1949.
[7] Id., La bestia di Lascaux, tr. it. Il Cavaliere Azzurro, Bologna 1983, p. 14.
[8] Id., De Kafka à Kafka, Gallimard, Paris 1981, p. 39.
[9] Ibid., p. 42.
[10] Ibid., p. 37.
[11] Id., L’écriture du désastre, cit., p. 53.
[12] Ibid., p. 186. Cfr. le analisi di F. Collin in Maurice Blanchot et la question de l’écriture, Gallimard, Paris 1971, pp. 55-85. Cfr. pure, A.L. Schulte Nordholt, Maurice Blanchot, l’écriture comme expérience du dehors, Droz, Genève 1995.
[13] M. Blanchot, Lo spazio letterario, tr. it. Einaudi, Torino 1967, p. 41.
[14] Ibid., p. 14, corsivo mio.
[15] Ibid., p. 8.
[16] M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p. 15.
[17] Id., L’Infinito intrattenimento, cit., pp. 399 e 401.
[18] E. Lévinas, Su Maurice Blanchot, tr. it. Palomar, Bari 1994, p. 77 da cui cito: «Questo Neutro, o questo Terzo Escluso, non è né affermazione, né pura negazione dell’essere. Perché affermazione e negazione sono nell’Ordine, ne fanno parte».
[19] J. Derrida, Demeure. Maurice Blanchot, Galilée, Paris 1998, p. 121. Si confronti pure R. Barthes, le Neutre. Cours au Collège de France (1977-1978), Seuil, Tours 2002.
[20] M. Zarader, L’être et le neutre. À partir de Maurice Blanchot, Verdier, Lagrasse 2001, p. 254.
[21] M. Blanchot, L’Étrange et l’Étranger in «La Nouvelle Revue Française», 70, 1, 1958, p. 678.
[22] Id., L’infinito intrattenimento, cit., pp. 401-402. Cfr. anche p. 222.
[23] Id., Être juif in «La Nouvelle Revue Française», 116, 1962, p. 285.
[24] Id., L’écriture du désastre, cit., p. 7: «Pensare il disastro (se è possibile, e ciò non è possibile nella misura in cui presagiamo che il disastro è il pensiero) è non avere più avvenire per pensarlo» e da p. 12 «Pensare sarebbe chiamare (nominare) il disastro come retro-pensiero». Cfr. anche le pp. 10-27.
[25] Id., L’écriture du désastre, cit., p. 20. Cfr. anche, B. Moroncini, Il discorso e la cenere, Guida, Napoli 1988.
[26] Id., L’écriture du désastre, cit., p. 202. Il cielo assente risuona ancora nell’ultimo frammento che chiude il libro: «Solitudine che risplende, vuoto del cielo, morte differita: disastro», p. 220.
[27] E. Lévinas, Dio, la morte e il tempo, tr. it. Jaca Book, Milano 1997 p. 199.
[28] Cfr. le splendide pagine dedicate a Orfeo e alla violenza del suo sguardo in M. Blanchot, Lo spazio letterario, cit., pp. 147-151; Id., L’infinito intrattenimento, cit., pp. 254-262. Cfr. anche W. Tommasi, Per un’esperienza non dialettica della parola. La presenza di Hegel nel primo Blanchot in «La Nuova Corrente», 1985, pp. 72-73.
[29] M. Heidegger, Saggi e discorsi, tr. it. Mursia, Milano 1976, p. 131. Cfr. pure Id., Sentieri interrotti, tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 247-249 e G. Lissa, Spiritualmente l’uomo abita sulla terra, Giannini Editore, Napoli 2010.
[30] M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 135.