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Indice
- La scoperta della vita
-
Potenza (epistemica e ontologica) dell’ignoranza nella teoria darwiniana
-
Dio esce di scena e pure dal teatro
- Evoluzione e “produzione di vitalità”: la vita diventa una forza “quantificabile”
- Il disincanto di Darwin e quello dei darwinisti
S&F_n. 02_2009
1. La scoperta della vita
Prima di provare a dire qualcosa su “Come Darwin ha cambiato la filosofia?”, titolo dalle pretese smisurate e quasi inaccettabili, vorrei provare a sciogliere qualche ambiguità contenuta in questa domanda. Un primo modo di affrontare la questione dei rapporti tra Darwin e la filosofia potrebbe essere quello di interrogarsi su “Le fonti filosofiche di Darwin”, titolo alternativo a quello qui proposto ma altamente problematico per almeno due ragioni: primo, perché Darwin non era un intellettuale di formazione filosofica, quantomeno standard; secondo, perché resterebbe da chiarire che cosa sia filosofico e che cosa no, spalancando un problema che, almeno in questa sede, ci porterebbe fuori strada. Dico questo perché Darwin sicuramente aveva le sue fonti filosofiche, posto però di intenderci sul termine “filosofico” e di estenderne l'attribuzione a una letteratura che di primo acchito molti di noi non definirebbero tale. Studiosi come Richard Owen o Joseph H. Green (l’inventore dell’immagine, fatta propria e usata poi da Darwin, dell’ “albero della vita”), due importanti naturalisti inglesi di primo Ottocento frequentati dal giovane Charles, così come Alexander von Humboldt, uno degli eroi della sua adolescenza, e tanti altri, erano tutte persone con una spiccata vocazione per quelle che lo stesso Darwin chiamerà, nei suoi Taccuini, le “speculazioni Metafisiche”. Questo per non dire nulla di altri nomi davvero insoliti e bizzarri che qua e là si trovano citati sempre nei Taccuini: il nome di Carl Gustav Carus per esempio (un allievo semi-sconosciuto di Schelling). Voglio dire, insomma, che all’epoca il confine tra la scienza, diciamo quella che noi chiamiamo “biologia”, e la filosofia della natura, Naturphilosophie in tedesco, non era così chiaro e netto come a posteriori quasi tutti tenderemmo a immaginare, con un’illusione prospettica retrospettiva. E del resto, a ben vedere, non è detto che neppure ai giorni nostri questo confine sia chiaro, netto e invalicabile. Questione pressoché intrattabile, questa, che lascio volutamente sullo sfondo.
Torniamo all’interrogativo di partenza: “Come Darwin ha cambiato la filosofia?”. Alla domanda si può rispondere guardando all’indietro e misurando l’innovazione di Darwin rispetto al passato, oppure guardando in avanti e misurando la sua incidenza, senza dubbio enorme, sul pensiero scientifico e filosofico che verrà dopo. In questa sede mi limiterò a fare qualche osservazione sulla prima parte della domanda, quella rivolta all’indietro, che a mio avviso è indispensabile anche per rispondere alla seconda metà della domanda. Se Darwin è una soglia fondamentale nella storia del pensiero cosiddetto occidentale è perché egli è innanzitutto uno dei primi sistematizzatori di quella disciplina che vede ufficialmente la luce nel 1802 e si chiama “biologia”, la scienza della vita (Lamarck e Treviranus, quell'anno, inventarono simultaneamente il termine, in Francia e in Germania). La “biologia”, prima di allora, non esisteva. E ciò per una ragione molto semplice, ossia perché prima di allora non esisteva l’oggetto dell'indagine biologica: la vita. Una tesi del genere, per quanto strana possa sembrare a prima vista, non è una trovata strampalata, priva di una propria plausibilità storica. Al contrario, è una tesi formulata con accuratezza da Michel Foucault, una tesi che sta al centro di uno suoi libri più famosi, Le parole e le cose:
Si vogliono scrivere storie della biologia nel XVIII secolo; ma non si avverte che la biologia non esisteva allora e che la sezione del sapere a noi familiare da più di centocinquanta anni non può valere per un periodo anteriore. E che se la biologia era sconosciuta, era per una ragione assai semplice: la vita stessa non esisteva. Esistevano soltanto esseri viventi: apparivano attraverso una griglia del sapere costituito dalla storia naturale. […] Per questo la storia naturale nel periodo classico non può costituirsi come biologia. Fino al termine del XVIII secolo, infatti, la vita non esiste. Esistono solo esseri viventi. […] Il naturalista è l’uomo del visibile strutturato e della denominazione caratteristica. Non della vita[1].
Dunque, se Darwin è tanto importante per noi è perché, con la sua “biologia”, ha imposto a tutti noi che esiste una cosa, la vita, o ha reso visibile questa cosa, la vita, scindendone la definizione e l’astrazione dalle sue singole, particolari incarnazioni: i viventi. Non è per altre ragioni. Non è, per esempio, perché ha introdotto l’idea di evoluzionismo, di trasmutazione delle specie nel corso della storia naturale. Altri prima di lui, e ben prima di Lamarck, avevano formulato a chiare lettere la tesi di una trasformazione, lenta e progressiva, delle specie. Dunque, la ragione vera per cui Darwin è una soglia fondamentale nella storia del pensiero occidentale non è questa. La ragione vera è che egli ha sancito una volta per tutte, con la sua “biologia”, l'esistenza di una cosa nuova, la vita, dandone una precisa, invalicabile definizione, ricapitolata con efficacia da uno dei più autorevoli darwinisti del Novecento: nella biologia moderna, ha scritto John Maynard Smith, «la vita è definita dal possesso di quelle proprietà che sono necessarie a garantire l’evoluzione per selezione naturale»[2]. Formulando l’ipotesi della selezione naturale, Darwin ha perciò fotografato la vita, le sue proprietà essenziali, ed è riuscito in tal modo a compattare il campo di indagine della «biologia», che è la scienza della vita. È noto infatti, come ha scritto Jean Gayon, che «la dottrina della selezione naturale» non è solo una teoria tra le tante in grado di unificare l’intera biologia, ma è senza mezzi termini «l’unica possibile teoria in grado di assolvere un simile compito»[3]. La teoria della selezione naturale è cioè, ancora oggi, la teoria della vita che perimetra su ogni lato la sfera dell'indagine biologica e, in un certo senso, rende possibile l'esistenza stessa della biologia come disciplina unica e unitaria. Detto questo, è bene sottolineare che sono in molti al giorno d’oggi, nel campo dell'indagine biologica, a contestare la bontà della teoria della selezione naturale; ed è bene precisare che, dopo Darwin, nemmeno si può parlare a rigor di termini di una sola teoria della selezione naturale, ma semmai di un’ipotesi (Darwin stesso, nel 1868, la definirà un “principio”) che subirà via via, e continua a subire, innumerevoli declinazioni. La visione originaria di Darwin, per esempio, non è certo omologabile alla “nuova sintesi” evoluzionistica degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, a meno di non introdurre parecchie precisazioni e integrazioni.
2. Potenza (epistemica e ontologica) dell’ignoranza nella teoria darwiniana
Ora, in che cosa consiste l’ipotesi originaria di Darwin, lasciando perdere le successive evoluzioni del darwinismo? Potremmo dire che consiste nell’astrarre la vita come una forza che agisce nelle forme viventi senza mai aderire a nessuna di esse. Si pensi alla forza gravitazionale di Newton (paragone prediletto dallo stesso Darwin): questa forza non appartiene a questo o a quel tipo di corpo fisico ma a tutti i corpi, di cui regola il movimento; e proprio perché appartiene a tutti i corpi in generale, questa forza non è definibile a partire dalle proprietà di nessuno di essi in particolare. La forza gravitazionale regola così il movimento dei corpi fisici in maniera diversa da come poteva farlo la teoria dei luoghi naturali di Aristotele, secondo la quale certi corpi andavano verso l’alto (aria e fuoco) e certi altri verso il basso (acqua e terra) in virtù delle loro specifiche caratteristiche fisiche. La teoria newtoniana svincola, invece, la forza gravitazionale dalle peculiari proprietà materiali dei corpi. E lo stesso fa la teoria darwiniana con la vita: ne svincola la definizione dalle peculiari proprietà organiche dei viventi, per farne una forza – a questo punto astratta dai viventi – che ne causa la lenta trasformazione (anziché, magari, provocarne la stabilizzazione).
La vita, in tal modo, viene posta a monte di ogni forma vivente e viene vista come una vis a tergo che ne sollecita l’incessante evoluzione, il perenne “miglioramento”. Questo basterebbe già a fare di Darwin un punto di non ritorno della storia del pensiero occidentale, come tra poco cercherò di mostrare. Ma prima vorrei ancora insistere un istante sui due punti capitali di quella che egli stesso chiama, alla fine dell’Origine delle specie, la sua view of life – con l’enfasi che senz'altro alcuni ricorderanno: there is grandeur in this view of life. Vorrei far notare, soprattutto, come questa “grandiosa” innovazione nella storia del nostro sapere sia giocata tutta, sin dall’Origine, attorno a una valorizzazione, strategica quanto paradossale, dell’ignoranza.
I due cardini della teoria della selezione naturale sono arcinoti. Sono: anzitutto la selezione stessa e poi la variazione, senza di cui la selezione non potrebbe operare. In entrambi i casi, potenza del genio darwiniano, l’ignoranza gioca un ruolo assolutamente cruciale. Quanto alla variazione, di cui Darwin confessa con candore, nell’Origine e altrove, di non conoscere né le leggi né le cause, il perché è presto detto: è proprio perché noi ignoriamo le leggi e le cause della variazione, non potendo di riflesso attribuirle alle caratteristiche intrinseche di questo o quel vivente, che la vita può essere astratta come variabilità di tutti i viventi in generale. La nostra ignoranza delle leggi della variazione consente cioè, nella prospettiva di Darwin, di slegare la vita dalle forme viventi e di concepirla come una costante universale di variabilità o plasmabilità, potenzialmente infinita, di queste stesse forme. Non è d'altronde un caso che, non appena Darwin tenterà di addentrarsi nelle leggi della variazione e di capirci qualche cosa (con la sfortunata teoria della “pangenesi”), sarà l'ipotesi stessa della selezione naturale a vacillare prepotentemente (o a vedere subito ridotta la sua portata).
Per quanto riguarda la selezione, l’ignoranza svolge un ruolo ancora più scoperto e da invisibile principio epistemico del sapere biologico si trasforma, addirittura, in un principio ontologico. Perché non siamo più noi, in questo caso, ma è la vita stessa a doversi confessare ignorante per riuscire a operare. La selezione naturale, infatti, come Darwin ripete in più occasioni, è una selezione cieca o – per essere più precisi – inconscia, che ignora e deve ignorare gli effetti del suo operato. Di qui la puntigliosa attenzione prestata da Darwin alla selezione degli allevatori, la cui cernita dei capi migliori è in parte “metodica” e in parte “inconscia”, e di qui la sua insistenza nell’accostare la selezione naturale alla selezione inconscia. Non è possibile scendere troppo nei dettagli e spiegare bene le ragioni di questa insistenza, ma diciamo che per Darwin o la selezione naturale è inconscia e ignorante degli effetti del suo operato o la selezione naturale semplicemente non è, giacché l’ipotesi inversa, quella di una selezione che vede o intuisce in anticipo quali saranno i suoi effetti, reintrodurrebbe di soppiatto l’idea di un’Intelligenza occulta alla guida dei processi naturali.
Con questa strepitosa valorizzazione epistemica e ontologica dell’ignoranza, che forse spiega anche i tanti tentennamenti di Darwin sulle sue idee e sulla loro pubblicazione, procrastinata più volte, la biologia darwiniana raggiunge paradossalmente il suo acme: la definizione di una nuova nozione di vita, che compatterà il campo della nascente biologia attorno a due idee complementari. Con le parole di Foucault potremmo descriverle così: a) l’idea che la vita sia un’unità segreta e nascosta, un “punto focale di identità” di ogni vivente, che è tale a questo punto, ossia che vive, a partire da ciò che nasconde; b) l’idea che la vita sia una forza astratta da ogni forma organica, una «forza inaccessibile nella sua essenza», che «è percepibile solamente negli sforzi che qua e là fa per manifestarsi e conservarsi», nel corso di quella che Darwin chiamerà la guerra per la vita o la lotta per la sopravvivenza ingaggiata, indiscriminatamente, da tutti i viventi[4].
3. Dio esce di scena e pure dal teatro
Passo ora a elencare alcune delle conseguenze che questa visione avrà per l’allora tradizionale modo di inquadrare i fenomeni naturali. Ciò che Darwin ci propone è una sorta di dramma teorico in due atti, un dramma che possiamo definire non solo scientifico ma anche metafisico, poiché metafisici sono, se non altro, i millenari piloni speculativi che esso finisce per abbattere – lascio da parte l'interrogativo: la teoria darwiniana è una teoria intrinsecamente metafisica e in che senso, magari, sarebbe legittimo affermare che lo sia? I principi metafisici che la teoria di Darwin, più che mettere in questione, letteralmente spazza via, sono due: il principio della grande catena dell’essere e il principio della conservatio vitae. In generale, potremmo dire che con Darwin passiamo da una visione statica e chiusa della natura a una visione dinamica e aperta dei processi naturali, che non sono più ingabbiati in un Ordine prestabilito. Darwin non è l’unico ad avere tentato questo passo, altri ci avevamo provato prima di lui (Schelling, per citare un nome importante, che condizionerà gli sviluppi della nascente biologia tedesca), ma Darwin è comunque colui che ci ha messo la firma più di tutti, visto il successo dirompente che, pur con un certo ritardo, avrà la sua teoria.
L’idea della grande catena dell’essere è l’idea di un cosmo naturale chiuso, con un alto e con un basso, tra cui sono allineate per gradi tutte le creature, senza soluzione di continuità. Il principio della grande catena si può scindere a sua volta in due sotto-principi: il principio di gradualità, per cui dall’essere più imperfetto si sale progressivamente verso l’essere sommo e perfettissimo; e il principio di pienezza dell’essere, per cui non ci sono intervalli tra un gradino e l’altro del reale. Le forme della natura si distribuiscono così su una scala ontologica, che dal basso sale verso l’alto, la scala naturae, una scala che non conosce vuoti, poiché la natura nel suo insieme è un tutto, è la Forma delle forme, è una Forma compatta, afflitta da horror vacui. Da questo cosmo pieno, continuo, ordinato, il pensiero per secoli non è mai uscito. Paradigmatica è la descrizione che ne offre Pico della Mirandola quando completa, con una sicura pennellata, il suo affresco della Creazione: «Tutto era ormai pieno, tutto era stato distribuito tra gli ordini sommi, medi, infimi». Il mondo è qui racchiuso nell’immensa «concatenazione del tutto», in universi serie[5]. A distanza di tre secoli la stessa immagine ritorna ancora, per non fare che un esempio, in Johann G. Herder:
Quando le porte della creazione furono chiuse, c’erano ormai tutte le forme di organizzazione scelte come vie e porte attraverso le quali in futuro, nei limiti della natura, le forze più basse dovevano slanciarsi verso l’alto e formare ancora ulteriormente. Nuove conformazioni non si produssero più; attraverso di esse si muovono e si trasformano le forze inferiori, e ciò che si chiama organizzazione è solo una loro scala verso una formazione più alta. […] Ciò che l’Onnivivificante ha chiamato alla vita, vive; ciò che opera, opera eternamente nella sua eterna connessione. […] Non è stata la ragione a costruire il nostro corpo, ma il dito di Dio, le forze organiche[6].
In questo schema generale, metafisico, di inquadramento dei fenomeni naturali, abbiamo dunque una totale sovrapposizione tra le forze organiche e le forme organiche: le prime non fanno che esprimersi nelle seconde e vi si esprimono in una lingua, in un verbo che è quello dell’Intelligenza divina. È perfino superfluo rimarcare che Darwin manda letteralmente in frantumi questo schema. Primo, perché astrae la vita come una forza propulsiva, come una vis a tergo dei processi naturali, che non collima mai con le forme viventi in cui di volta in volta si riversa: la selezione naturale causa attivamente la trasmutazione delle specie, delle forme organiche, senza dileguarsi in esse; la selezione naturale è in altre parole una forza naturale che si divarica, nella teoria di Darwin, dalle forme naturali. Secondo, perché in questa teoria l’ignoranza subentra all’intelligenza come principio esplicativo dei fenomeni vitali: la selezione naturale è inconscia, è cieca, e non sa prima dove andrà a parare, come ho appena ricordato. Terzo, perché questa mossa speculativa abbatte ogni Ordine prestabilito della natura: una visione statica e chiusa del cosmo naturale viene rimpiazzata da una visione dinamica, cangiante e aperta all’imprevisto dei processi selettivi. Quarto, perché in quest'ottica esiste sempre un vuoto da riempire, da occupare, tra le forme naturali, che non sono più allineate l'una accanto all'altra da una Intelligenza ultramondana: possiamo quindi dire addio al vecchio principio metafisico di pienezza dell’essere (malgrado Darwin resti avvinghiato al principio di gradualità: Natura non facit saltum, si premura di osservare). Quinto, perché da questo punto di vista non possiamo più nemmeno dire che in natura esista un’assoluta perfezione: al contrario, in natura «non si può pensare che l’assoluta perfezione esista in alcun luogo»[7]. Dio, evidentemente, non solo è uscito di scena, è proprio uscito dal teatro.
4. Evoluzione e “produzione di vitalità”: la vita diventa una forza “quantificabile”
Ma in base a quali criteri la selezione naturale effettua le proprie scelte, se non le effettua in base a un’intelligenza dei suoi effetti formali e qualitativi sui viventi, di cui pure trasforma incessantemente l’aspetto e la configurazione? Il rigore con cui Darwin risponde a questa domanda è ciò che ne fa, a mio avviso, l’autentica grandezza. La selezione naturale può operare inconsciamente, ciecamente le sue scelte solo se sceglie, ogni volta, di continuare a scegliere, senza andare oltre. In altre parole, la selezione non favorisce alcune direzioni evolutive a scapito di altre in base a criteri qualitativi, in base alle qualità di questo o quel vivente, ma in base a criteri puramente quantitativi, in base alla quantità di vita che una specie riuscirà a produrre. Il fine profondo dell’evoluzione, la sua direzione inconscia, non è in tal senso definibile a priori se non come la continuazione dell’evoluzione stessa. E l’unico requisito affinché l’evoluzione si prolunghi all’infinito, e la selezione naturale possa continuare a operare, è che la vita si riproduca il più possibile. Selezione naturale è il nome di questa operazione, che Darwin stesso concepisce come un’operazione di infinito “miglioramento” delle specie: il miglior vivente è quello che si riproduce di più, e quanto più si riprodurrà tanto più risulterà migliore. Non possiamo aggiungere altro se davvero pensiamo, sulla scia di Darwin, che l’evoluzione non abbia una direzione prefissata (da nessun fattore intelligibile). La vita è astratta, allora, come una forza, seguendo l’ipotesi della selezione naturale, nel senso che diventa una forza misurabile, quantificabile in termini di riproduzione (e di tassi differenziali di riproduzione tra una specie e l’altra). E la biologia diventa, a partire di qui, una “scienza esatta” (nel senso husserliano dell’espressione: una scienza, insomma, che si risolve in modelli di misurazione matematica dei fenomeni).
Questa è la seconda innovazione metafisica di Darwin, forse ancora più importante della prima. Nei Taccuini c'è traccia delle difficoltà che egli ha dovuto superare per giungere alla formulazione finale della sua teoria. C’è per esempio un appunto su Johannes Müller, un naturalista tedesco dell’epoca, da cui si evince quale fatica Darwin abbia fatto per disfarsi di una delle sue più antiche e radicate certezze. «Con riguardo al non-sviluppo dei molluschi, che talvolta io ho pensato che fosse dovuto a una quantità assoluta di vitalità “nel Mondo”, la produzione di vitalità, per come essa è dedotta da Müller dalla propagazione di un numero infinito di individui da uno solo, dice l’opposto»[8]. Di che cosa sta parlando Darwin? Perché contrappone l’idea di una «produzione di vitalità» all’idea di «una quantità assoluta di vitalità nel Mondo»? E perché aveva pensato fino a quel momento che la quantità di vitalità, il totale della forza vitale presente nell’universo, fosse costante e dovesse restare tale? La ragione, anche in questo caso, non va cercata troppo lontano: la ragione è che questo era ciò che tutti, allora, pensavano spontaneamente. In un cosmo chiuso e immobile, in un universo statico e inchiodato a un Ordine eterno, la quantità di vitalità (e di viventi) dispersa nel mondo, non poteva che restare immutata, “assoluta”. Tanto che a nessuno verrà in mente, se non molto tardi, che la vita (o la vitalità) possa essere quantificata e astratta così dalle specifiche qualificazioni dei viventi. Mi limito a fare un esempio. A metà del Settecento, Georges Louis Leclerc de Buffon, che pure è tra i primi a immaginare che si possa quantificare la vita, non si sogna neppure di pensare che la quantità di vita nell’universo possa aumentare (o diminuire): al contrario, questa quantità deve restare sempre la stessa, perché altrimenti sarebbe la forma stessa della Natura a pagarne le spese.
Esiste quindi sulla terra, nell’aria, nell’acqua una quantità data di materia organica che nulla può distruggere; esiste, allo stesso tempo, un numero dato di calchi [sono i famosi moules intérieurs di Buffon, che governano lo sviluppo epigenetico dell’organismo] capaci di assimilarla, che si distruggono e rinnovano a ogni istante, e questo numero di calchi o individui è in totale sempre il medesimo, è sempre proporzionato alla quantità di materia vivente. Se questa materia fosse sovrabbondante, se non fosse sempre impiegata in misura eguale e assorbita interamente dai calchi esistenti, se ne formerebbero altri e si vedrebbero comparire specie nuove, perché la materia vivente non può rimanere inoperosa, perché è sempre attiva, e basta che si unisca a parti organiche per formare corpi organizzati. Da questa combinazione, o meglio da questa invariabile proporzione, dipende la forma stessa della Natura[9].
Ciò che qui Buffon esclude è l’origine di nuove specie naturali, di nuovi moules intérieurs, a partire da una quantità sovrabbondante di particelle organiche. Un’ipotesi che egli esclude proprio in nome di un principio, scontato per l’epoca, di staticità e immutabilità della forma della Natura. Ciò che Darwin farà – anche se gli costerà una certa fatica arrivarci – è l’esatto contrario: ipotizzerà che la quantità di vitalità “nel Mondo” possa variare, che possa esservi in altre parole produzione di vitalità, per arrivare di lì a poco all’ipotesi che darà il titolo al suo capolavoro: l’origine delle specie. Selezione naturale è il nome tecnico che egli darà a questa intuizione complessiva. Nemmeno Malthus si era spinto a tanto, nemmeno lui si era spinto sino al punto di revocare in questione il principio che prima ho chiamato della conservatio vitae – pur avendo egli molto insistito (cosa che a Darwin non sfuggirà) sul principio di popolazione, principle of population, che significa alla lettera: principio di popolamento, principio di incremento tendenziale della quantità di viventi (umani).
I germi di vita contenuti in questa terra, se potessero svilupparsi liberamente, riempirebbero milioni di mondi nel volgere di poche migliaia di anni. Il bisogno, questa imperiosa e universale legge della natura, li contiene entro limiti prescritti. Le specie animali e vegetali sono tenute a freno da questa legge restrittiva[10].
5. Il disincanto di Darwin e quello dei darwinisti
Darwin, potremmo dire, avrebbe tolto il freno di questa legge restrittiva, la legge della conservatio vitae, la legge della conservazione costante della stessa quantità di vita nell’universo naturale. È proprio perché questa quantità non è costante, ma fluttua di continuo, che è possibile un’evoluzione delle specie per mezzo della selezione naturale.
Questi sono alcuni degli spostamenti assiali compiuti da Darwin rispetto alla visione metafisica del tempo: infrazione del principio della grande catena dell’essere e infrazione del principio di una quantità assoluta di vitalità “nel Mondo”. Ci sarebbero ovviamente tanti altri aspetti sui quali sarebbe opportuno soffermarsi per offrire un quadro completo del modo in cui Darwin ha cambiato la filosofia, o alcuni dei suoi assunti millenari. Per limitarsi a un paio di esempi, si dovrebbe ricordare come la teoria della selezione naturale abbia invalidato, o profondamente alterato, l’idea stessa di specie naturale, spalancando le porte a quello che Ernst Mayr preferirà chiamare il “pensiero popolazionale”; o si dovrebbe aprire un lungo capitolo sui problemi concettuali relativi al rapporto tra il vivente e l’ambiente, che la teoria darwiniana concepisce dilemmaticamente ora in termini di fitness ora in termini di adaptation – nozioni che nella successiva storia del pensiero biologico tenderanno sempre più a disgiungersi, fino quasi a confliggere tra loro.
Ma, avviandomi a concludere, vorrei fare invece un’ultima breve considerazione di carattere diverso. Vorrei sottolineare che, se Darwin ha cambiato la filosofia, Darwin allora appartiene di diritto alla storia della filosofia. Con questo non voglio semplicemente dire che Darwin dovrebbe essere studiato di più nei corsi di filosofia – cosa che comunque vale la pena ribadire. Voglio dire, andando un po’ più a fondo, che i suoi testi, e il loro retaggio, dovrebbero essere studiati e scandagliati per prima cosa in chiave filosofica. Noi siamo abituati a scorgere nella scienza un’opera di disincanto del mondo, un discorso che ci apre gli occhi e fuga alcune delle nostre credenze abituali, richiamandoci (nella misura del possibile) ai crudi fatti. Si potrebbe persino dire che per noi, oggi, un discorso è tanto più scientifico quanto più ci disillude. Capita così di prendere per scientifico un discorso come quello di Richard Dawkins (o di uno dei suoi tanti emulatori sparsi in giro per il mondo) che scambia sfrenate elucubrazioni teoriche per nitide evidenze empiriche. Ciò che Dawkins ha intuito, di sicuro, è che per avvalorare pubblicamente la scientificità delle sue tesi gli conviene spacciarle per l’ultima e più severa opera di disincanto disponibile sul mercato.
Ciò che da parte mia vorrei insinuare, viceversa, è che con Darwin la faccenda è assai più complicata. Vi ho fatto illusione poc’anzi, parlando del ruolo cruciale che gioca l’ignoranza nella sua teoria. Se Darwin ha disincantato gli uomini, mi verrebbe da dire, è perché li ha gettati nell’ignoranza. Questa operazione ha avuto precisi effetti nel campo della discorsività scientifica e uno di essi è che si è giunti a erigere il caso – le variazioni stocastiche del patrimonio genetico – a principio esplicativo dei fenomeni naturali. Ma in che misura il caso, l’irregolarità, l’imprevedibilità dei fenomeni, può essere trasformato in un principio esplicativo dei fenomeni stessi? A questo interrogativo, eminentemente filosofico, Darwin ha dato una sua risposta, che non collima appieno con la risposta degli odierni darwinisti:
Ho fin qui parlato come se le variazioni […] fossero dovute al caso. È questa un’espressione del tutto inesatta, ma essa serve a riconoscere candidamente la nostra ignoranza sulla causa di ogni variazione particolare[11].
[1] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), trad. it. Rizzoli, Milano 1985, pp. 143-144 e178-179.
[2] J. Maynard Smith, The Problems of Biology, Oxford University Press, Oxford 1986, p. 7.
[3] J. Gayon, Darwin et l’après-Darwin. Une histoire de l’hypothèse de la sélection naturelle, Kimé, Paris 1992, p. 190.
[4] Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 290 e 295-296.
[5] P. Della Mirandola, Oratio (1486), trad. it. in Pier Cesare Bori, Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso di Pico della Mirandola, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 103-105.
[6] J. G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1792), trad. it. Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 74, 77 e 80.
[7] C. Darwin, On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life (1872, sesta edizione), trad. it. L’origine delle specie, Bollati Boringhieri, Torino 1967, p. 264.
[8] Id., Notebooks 1836-1844, Cambridge University Press, Cambridge 1987, p. 419.
[9] G. L. L. de Buffon, De la nature, in Id., Histoire naturelle, générale et particulière, Imprimerie Royale, Paris 1749-1767, vol. XIII, p. IX.
[10] Th. R. Malthus, An Essay on the Principle of Population (sesta edizione), Murray, London 1826, p. 3.
[11] C. Darwin, On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life (1872, sesta edizione), cit., p. 197.