Autore
Marco Enrico Giacomelli
Exibart.com Exibart.onpaper
Vicedirettore di Exibart.com e di Exibart.onpaper
Indice
- L’artista e lo scienziato: una differenza ontologica?
- Una comune impurità (con buona pace di Heidegger e Severino!)
- New (?) Media
- Information Arts
S&F_n. 01_2009
- L’artista e lo scienziato: una differenza ontologica?
Artists as Inventors. Inventors as Artists[1], il recente volume curato da Dieter Daniels – ex direttore del Ludwig Boltzmann Institute Media.Art.Research a Linz e della mediateca dello Zkm a Karlsruhe – e Barbara Schmidt – ricercatrice all’Istituto di Linz ed ex direttrice del progetto ministeriale New Media Images – indaga ancora una volta il nodo e lo snodo fra arte, scienza e tecnologia. È d’altro canto un tema che ha conosciuto la propria nascita o rinascita nel XVIII secolo e che, da vari punti di vista, comincia a mostrare la corda, sia per ragioni economico-sociali (l’odierna organizzazione produttiva), sia per lo scarso ricambio generazionale (anagrafico e di forma mentis) fra gli studiosi di quest’area. Nella fattispecie, lo si nota leggendo l’elenco dei nomi degli artisti intervistati: Paul DeMarinis, la cui scheda rammenta il suo impegno come “electronic media artist” sin dal 1971, o Billy Klüver, ingegnere svedese che collaborò con Jean Tinguely, John Cage e Robert Rauschenberg. In altre parole, per com’è posta nella maggior parte dei casi, è una questione che pare consegnata alla modernità e a uno dei suoi grand récit, la possibilità – magari da parte di un genio isolato e romantico – di edificare un ponte fra le Due culture di cui parlava nel 1959 Charles Percy Snow[2]. Ciò non toglie che si possa continuare a dibatterne, sia con un approccio storico sia adoperandosi per rileggerla con l’ausilio di nuovi strumenti teorici.
Il problema principale resta tuttavia di carattere identificativo (ben lo evidenzia Simon Werrett nel suo intervento[3]): come si può discutere quando il significato che si attribuisce a termini quali “artista” e “scienziato” differisce in maniera sostanziale, diremmo quasi ontologica? Si prenda il colto saggio di Daniels, Artists as Inventors and Invention as Art[4]. L’impronta storica non elude affatto le domande teoriche. E, sin dal titolo, ci si può chiedere cosa voglia sostenere l’autore quando caratterizza l’invenzione come (un’)arte; e quali conseguenze “indebolenti” possa avere la tesi che i media device «e i fenomeni che essi producono hanno, implicitamente o esplicitamente, una dimensione estetica. Hanno un’affascinante relazione con le arti»[5]. Quanto è rilevante che Samuel Finley Breese Morse fosse un pittore semi-dilettante? Possono alcune biografie, pur notevoli, sostanziare una dichiarazione come questa: «I media sono la continuazione dell’arte con altri mezzi»[6]?
- Una comune impurità (con buona pace di Heidegger e Severino!)
Ciò che è forse più impellente consiste nel riuscire a “mettere in prospettiva” (questo aspetto de) la modernità. Andrebbe ad esempio sottolineato come, nella seguente dichiarazione introduttiva dei curatori del volume, il riferimento temporale sia necessario ma non sufficiente per distinguere l’artista in oggetto:
All’inizio del XX secolo, all’apice dell’avanguardia modernista, gli artisti divennero inventori per ragioni pratiche. Per rispondere con le loro visioni estetiche all’impatto della tecnologia sui sensi umani, avevano bisogno di un nuovo apparato che non era ancora disponibile[7].
D’altro canto, sorge un’altra domanda leggendo l’invito di Simon Penny a «sviluppare un nuovo ramo dell’estetica»[8], l’aesthetics of behavior, al fine di riuscire a leggere correttamente alcune nuove tipologie di machine-artwork. E se invece occorresse restringere il concetto di opera d’arte o, almeno, la categoria di cui si occupa l’estetica?
Ancora prima, tuttavia, andrebbero ben delimitate le coordinate del problema. Innanzitutto, la contemporaneità occidentale, per quanto concerne l’ambito spazio-temporale, sebbene si potrebbe discutere a lungo anche cosa s’intende con “Occidente” e “contemporaneo”. Inoltre, ci pare necessario focalizzare l’attenzione su un’arte e una scienza che si svincolino dai richiami a una presunta purezza originaria e che, al contrario, si riapproprino senza falsi pudori della loro comune origine tecnica. Senza dover qui far ricorso a etimologia ed epistemologia, daremo per acquisito il fatto che arte e scienza derivano da una fonte comune che è la cultura materiale, la tecnica, la tecnologia; derivazione che assume il volto di una forma simbolica dai molteplici legami, come ancora una volta indica l’etimo di “simbolo”: legame biunivoco dei rami con il tronco e dei rami fra loro[9]. Detto altrimenti, arte e scienza provengono dalla e convergono verso la tecnica, in un profluvio di intersecazioni che producono sempre e continuamente nuove opere. Checché ne possano pensare “nostalgici” come Heidegger o Severino o Virilio, per citare soltanto tre esempi assai differenti tra loro. È perciò a nostro parere scorretto e pernicioso sia la riduzione della tecnica a convitato di pietra nelle considerazioni di coloro che potremmo definire “integrati”, sia la condanna della tecnica stessa in quanto eresiarca nelle posizioni degli “apocalittici”[10].
- New (?) Media
Nella medesima ottica, la retorica dei new media e con essa quella della new media art rischia di risultare stantia se non storicizzata. Innanzitutto va ribadito che qualsivoglia arte è intrisa di tecnica, dalla preparazione dei colori a olio all’utilizzo della prospettiva, per restare in ambito “classico”. In questo senso, non crediamo esistano fratture epistemologiche radicali; nessuna apocalisse, semmai alcune apocatastasi[11]. Come quando l’artista Nam June Paik ha esposto a Washington Square, nel 1964, K 456: un robot realizzato secondo un'architettura molto distante dai modelli descritti e prescritti nella letteratura fantascientifica coeva e dotato d'una struttura assai fragile. Paik ha il grande merito di aver contribuito a ridefinire – o, meglio, rifinire – la figura dell'artista, connettendo in maniera inedita comunicazione, interazione e flusso. Una sinergia che oggi può apparire banale, ma che mezzo secolo fa risultava spesso inaccettabile non tanto per il pubblico, quanto per le accademie. Il coreano è spesso citato per l’“invenzione” della videoarte – anche se non vanno dimenticate gli esperimenti di Wolf Vostell, inaugurati sin dal 1959 con TV-dé/collage – e in particolare per la sua installazione del 1963 Music-Electronic Television, allestita alla Galleria Parnass di Wuppertal. Va inoltre rammentato almeno Good Morning Mr. Orwell (1984), quando per la prima volta la tecnologia satellitare è utilizzata a fini civili e una trasmissione televisiva viene diffusa planetariamente (New York, Parigi, Colonia, Locarno e Seoul figurano come luoghi di produzione).
Questo breve cenno all’opera di Paik va inteso come pungolo a cessare l’utilizzo pleonastico dell’espressione “new media”. Non tanto perché alcuni di questi mezzi sono ormai tutt’altro che nuovi, ma anche e soprattutto perché il punto non è affatto il medium, e lo sottolinea da anni una critica di enorme valore come Rosalind Krauss[12]. Il medium ha certo una parte importante nello sviluppo dell’arte, ma questa componente tecnica è per l’appunto basilare e non può costituire l’oggetto stesso della critica d’arte. Così come è basilare la tecnologia che permette di costruire, per citare un esperimento in corso, un acceleratore di particelle di nuova concezione, ma sono i dati che quella stessa tecnologia consente di registrare e analizzare a costituire il cuore dell’interesse scientifico.
Al limite, il medium può essere utile per organizzare una tassonomia. In questo senso è illuminante il lavoro enciclopedico compiuto da Stephen Wilson in Information Arts[13]. Illuminante perché le sezioni dedicate all'introduzione e all'analisi teorica dei temi affrontati sono complementari rispetto a quelle che vertono sugli artisti, sui loro lavori e sulle metodologie adottate. Illuminante perché lo sguardo gettato sui legami tra arte e scienza (e tecnologia, e ricerca) è multiprospettico ed eterodosso, concentrato inevitabilmente su confini che si ridisegnano in maniera fluida e sempre più rapida. E proprio in Italia – ove l'eredità crociana grava ancora pesantemente, specie sulle riflessioni estetiche – un testo di questo genere resta di profonda rilevanza per comprendere con minori pregiudizi la fruttuosa collaborazione tra arte e scienza.
- Information Arts
In quest'ottica è indubbiamente giustificato l'appello di Wilson alla critical theory, con la sua attitudine a decostruire sacre icone quali «la rivendicazione privilegiata da parte della scienza alla verità e all'obiettività, così come quella dell'arte a una particolarmente elevata sensibilità»[14]. Certo, le ipotesi formulate possono essere provocatorie, come quando Willem Flusser - estremizzando il pensiero di Paul Feyerabend - scrive: «Comprendere che la scienza è una forma d'arte non la degrada. Piuttosto il contrario: la scienza è diventata un paradigma per tutte le altre arti»[15]. Ciò che più ci interessa è però la definizione apofantica che Wilson dà della tecnologia: «Ogni sistema di creazione che va oltre l'apparato corporeo»[16]. Definizione alla quale andrebbero sicuramente apportate delle integrazioni, ma che ha il pregio di “diluire” la portata strutturale della stessa tecnologia nella costituzione storica e operativa dell’arte e della scienza; senza nulla togliere all’importanza del suo ruolo, ma senza neppure farne la protagonista indiscussa della scena.
In questo senso, il nesso arte-tecnologia (in quanto techné) comprende l'intera storia dell'arte (della produzione) umana. E il compito dell’artista contemporaneo di fronte all'innovazione industriale e scientifica consiste nel restare sul crinale:
Gli artisti che lavorano con tecnologie emergenti [...] da un lato sono invitati all'ausilio nella creazione di nuove tecnologie e nell'elaborazione di nuove possibilità culturali; dall'altro, sono chiamati a sorvegliare e utilizzare la loro conoscenza della tecnologia per commentare criticamente le implicazioni sottaciute[17].
Si consideri il caso della biologia: qui risiedono innumerevoli e rilevanti questioni concernenti la natura dell'essere umano e le implicazioni della manipolazione genetica. L’interesse in questo campo da parte di artisti risale addirittura al 1936, quando Edward Steichen presentò a una mostra alcuni incroci floreali. Ma è pur vero che interagire con organismi viventi pone non solo scrupoli etici: si pensi al fascio di riflessioni che coinvolge la destrutturazione del concetto di manipolazione e quello di permanenza dell'opera. Malgrado la gravità di tali questioni, gli artisti che s'interessano alla biologia sono innumerevoli: da Eduardo Kac ad Athena Tacha, da Hubert Duprat a Leif Brush.
Quelle che Wilson chiama Information Arts sono dunque espressioni artistiche che risultano inedite non tanto per i mezzi che utilizzano, quanto per la complessità con la quale intersecano dati e tecniche e visioni esistenti, stimolando così la criticità e talora dando “olisticamente” vita ad autentiche novità. Proprio per questa ragione la difficoltà d’individuare gli strumenti ermeneutici adeguati per analizzare queste opere nasce soltanto quando la portata mediatica, tecnologica, eclissa l’emergenza della forma simbolica. Ciò non significa che la critica non debba aggiornarsi. Al contrario, la comprensione tecnica del processo adottato dall’artista nella realizzazione dell’opera va studiato e compreso, ma non può costituire l’unica chiave interpretativa. Sarebbe come se si giudicasse Cézanne soltanto da un punto di vista chimico, analizzandone gli impasti cromatici.
Per concludere: la scienza non è mai un anestetico totale, così come l’arte non è mai assolutamente irrazionale. Ma, soprattutto, nessuna delle due è mai stata e mai può o potrà essere romanticamente pura e geniale. Perché, sin dall’origine, la tecnica le informa di sé e le “condanna” a un perpetuo confronto.
[1] D. Daniels & B. U. Schmidt (eds.), Artists as Inventors. Inventors as Artists, Hatje Cantz, Ostfildern 2008.
[2] C. P. Snow, Le due culture (1959), tr. it. Feltrinelli, Milano 1964.
[3] S. Werrett, The Techniques of Innovation: Historical Configurations of Art, Science, and Invention from Galileo to GPS, in D. Daniels & B. U. Schmidt, op. cit., pp. 55-69.
[4] D. Daniels, Artists as Inventors and Invention as Art: A Paradigm Shift from 1840 to 1900, ibid., pp. 19-53.
[5] Ibid., p. 20.
[6] Ibid., p. 37.
[7] D. Daniels & B. U. Schmidt, Introduction, ibid., p. 9.
[8] S. Penny, Bridging Two Cultures: Towards an Interdisciplinary History of the Artist-Inventor and the Machine Artwork, ibid., p. 157.
[9] La metafora arborea è tratta da Renato Barilli, Arte, scienza, tecnica, in R. Bossaglia (a cura di), Arte e scienza, Ilisso, Nuoro 1993, pp. 7-15.
[10] Il riferimento è naturalmente a U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964.
[11] Si veda in proposito D. Quaranta, Don’t say new media!, in FMR Bianca, n. 5, Villanova di Castenaso (BO), dicembre 2008-gennaio 2009, pp. 93-106.
[12] Si vedano in particolare R. Krauss, L'arte nell'era postmediale. Marcel Broodthaers, ad esempio (2000), tr. it. Postmediabooks, Milano 2005; e Id., Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, a cura di E. Grazioli, Bruno Mondadori, Milano 2005.
[13] S. Wilson, Information Arts. Intersections of Art, Science, and Technology, The MIT Press, Cambridge (MA)-London 2002.
[14] Ibid., p. 6.
[15] W. Flusser, Digital Apparitions, in Timothy Druckrey (ed.), Electronic Culture: Technology and Visual Representation, Aperture, New York 1996, p. 245.
[16] S. Wilson, op. cit., p. 9.
[17] Ibid., p. 23.