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Postumanismo e tecnoscienza

Autore


Roberto Marchesini

Società italiana di Scienze Comportamentali Applicate

Presidente della Società italiana di Scienze Comportamentali Applicate e direttore della Scuola di Interazione Uomo Animale, e insegna Scienze Comportamentali Applicate

Indice


  1. L’evento tecno-poietico
  2. L’illusoria ascesa purificatrice dell’iperumanismo
  3. Il grande balzo in avanti del secolo biotech
  4. Il concetto di strumento
  5. Il concetto di emanazione

 

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S&F_n. 03_2010


  1. L’evento tecno-poietico

Il nostro rapporto con la tecnoscienza rappresenta oggi uno dei punti più controversi e nello stesso tempo dei temi caldi di ridefinizione di paradigma. Non vi è dubbio che il XX secolo sia stato caratterizzato da un’accelerazione nell’ambito dello sviluppo tecnoscientifico coinvolgendo aspetti profondi dell’essere umano e, forse per la prima volta, ambiti che in qualche modo hanno messo in discussione o comunque in ridefinizione la percezione stessa dell’essere. Pensare alla tecnoscienza solo in modo strumentale ed emanativo non ci permette di cogliere il cuore della problematicità contemporanea che non attiene più alla semplice definizione di modi corretti o compatibili di utilizzo dell’apparato tecnologico bensì ci impone di considerare il “significato ontopoietico” della téchne. La tecnologia non è solo un apparato operativo-funzionale, destinato cioè a piegare il mondo agli imperativi dell’uomo senza intaccarne i predicati umani (ipotesi strumentale della tecnoscienza), né è possibile interpretarla come alveo protettivo e diretta espressione dell’uomo (ipotesi autarchica e disgiuntiva della tecnoscienza). Questi sono in pratica i temi in ridiscussione introdotti dal postumanismo, in evidente contrasto con la tradizione umanistica che vede la tecnosfera come seconda natura, creata dall’uomo per realizzare i propri fini, quindi: 1) di pertinenza dell’uomo, quale figlia e servitrice del genio umano, ed emanazione dell’uomo; 2) tesa ad antropocentrare la consuetudine dell’uomo, vale a dire a farlo divergere e purificarlo dal non-umano e a salvaguardarlo dalle contaminazioni; 3) strumento per i fini a-priori dell’uomo e per esaltarne i predicati essenzialistici e quindi incapace di modificare il telos dell’uomo e l’ontologia umana.

La filosofia postumanistica pone sotto critica questi tre postulati ritenendo al contrario: a) che la tecnoscienza sia un frutto ibrido esito dell’integrazione del non-umano (rifiuto della concezione autarchico emanativa della téchne); b) che la tecnoscienza non determini una disgiunzione-distanziamento dell’uomo dal non-umano né un’epurazione del non-umano ma viceversa porti a una coniugazione-intergrazione del non-umano (rifiuto della concezione disgiuntiva-epurativa della téchne); c) che lo sviluppo tecnoscientifico non vada nella direzione antropocentrica, ossia non costruisca un mondo a misura d’uomo ma viceversa provochi un decentramento dalle coordinate filogenetiche dell’uomo (rifiuto della concezione antropocentrica della téchne); d) che la tecnoscienza dia luogo a nuove dimensioni esistenziali ossia modifichi i fini dell’uomo e non sia semplicemente ancillare ai desiderata umani (rifiuto della concezione strumentale della téchne); e) che la tecnoscienza non rimanga esterna ma modifichi i predicati stessi dell’uomo e non sia semplicemente potenziatrice di predicati inerenti (rifiuto della concezione ergonomica della téchne).

Per capire questo slittamento, tutt’altro che lieve, è necessario riflettere sul significato attribuito alla presenza della dimensione tecnologica nella vita dell’uomo, un significato arbitrariamente dato per scontato (valore oggettivo della tecnologia) ma che, a ben vedere, si è sempre alimentato e si sostiene grazie ai puntelli ermeneutici assegnatigli dal paradigma umanistico. Potremmo sintetizzare tale interpretazione nell’idea preconcetta che i predicati umani siano strutture a-priori l’evento tecnopoietico, e quindi non esito di questo né modificati da questo, e nell’affermazione ergonomica della tecnologia, ancillare nel realizzare i bisogni dell’uomo e nel divergere l’umano dal non-umano. Nella visione tradizionale la tecnologia non è un partner dialogico capace di modificare i predicati umani e rendere l'uomo un sistema aperto, cioè fluttuante e bisognoso degli apporti esterni per sostenere i predicati raggiunti, ma semplicemente uno strumento che consente di potenziare i predicati inerenti all'essere umano e di raggiungere obiettivi ontologici preesistenti. Si ritiene che lo strumento sia deputato semplicemente a estendere le capacità dell’uomo, sia cioè un supporto in grado di potenziare le possibilità operative non di mettere in discussione le qualità umane. Questo è il punto su cui si concretizza la più importante differenza tra il pensiero umanistico e quello postumanistico. Lo strumento inteso estensore e potenziatore nella concezione umanistica allarga lo spazio di intervento dell’uomo diminuendo le contiguità-contaminazioni con il non umano, dando luogo a un nuovo amnios contenitivo in grado di realizzare con maggiore pregnanza il telos antropocentrico. Questo pensiero trascina con sé alcune considerazioni importanti: a) che le qualità potenziate siano pre-esistenti la partnership con lo strumento; b) che le qualità pre-esistenti non vengano modificate dalla partnership con lo strumento; c) che i fini dell’uomo trascendano la partnership con lo strumento.

Il punto è che tale ermeneutica comincia a mostrare i suoi limiti e chiede una rilettura. La domanda che ci poniamo può essere formulata in questi termini: hanno ancora validità i concetti tradizionali come quelli di “strumento” e di “emanazione” nell’interpretazione della téchne? Siamo abituati a pensare che l’antropo-poiesi sia gestita con titolarità piena dall’uomo e che pertanto la questione dell’influenza della tecnologia nella vita dell’uomo sia solo un problema di modalità d’uso: 1) la tecnologia viene usata dall’uomo ma non modifica i predicati, ossia le qualità e i fini, dell’umano; 2) la tecnologia è emanazione dell’uomo, sua esclusiva e diretta produzione, intuitiva e creativa, pertanto non intacca la purezza dell’essenza uomo, semmai la magnifica. Sono proprio queste certezze a entrare in fibrillazione alla fine del XX secolo e a sollecitare una rivisitazione paradigmatica sui fondamenti del pensiero umanistico.

 

  1. L’illusoria ascesa purificatrice dell’iperumanismo

Nella lettura tradizionale l’umano non è contaminato o indirizzato ontopoieticamente dal non-umano: in quanto espressione dell’uomo – ovviamente non solo come entità biologica – l’umano come dimensione ontopoietica è essenzialmente autarchico. In tal senso anche la tecnologia non può modificare, intaccare, influenzare l’essenza uomo ma solo fornirle le potenzialità operative ovvero, per dirla con le parole di Thomas P. Hughes, realizzare «un mondo a misura d’uomo». Questo approccio è ciò che definisco “iperumanismo”, vale a dire portare alle estreme conseguenze l’interpretazione strumentale (la tecnologia come mezzo operativo per l’uomo) ed emanativa (la tecnologia come secondo mondo antropo-formato), vale a dire quei principi che l’umanismo vedeva come traguardi incerti o comunque da realizzare cercando una negoziazione con il mondo. Nell’iperumanismo decade cioè il tavolo negoziale e l’uomo pretende di rinchiudersi all’interno di un universo tecnologico totalmente antropo-compatibile, peraltro ritenuto di propria emanazione. L’iperumanismo pertanto è diretta conseguenza della sempre più rilevante presenza tecnologica nell’ordinarietà, una corazza che dà la falsa impressione di un viatico di purificazione – l’uomo in ascesa divergente dal non-umano – e di una chiusura all’interno dei propri prodotti. Secondo il postumanismo si tratta di un pensiero scorretto perché la tecnologia: a) non è solo strumento ma un partner che modifica il profilo dell’umano e l’uomo stesso come entità biologica; b) non è un’emanazione dell’uomo bensì il frutto della coniugazione con il non-umano. La tecnosfera non rappresenta affatto “un mondo a misura d’uomo” come potrebbe apparire a prima vista bensì una dimensione che apre il sistema uomo, lo rende instabile e in non-equilibrio, facilitandone i processi ibridativi con il non-umano. La tecnologia trasforma l’epistemica umana, importa modelli non-umani nella dimensione ontopoietica dell’uomo, modifica la percezione performativa che l’uomo ha di se stesso, facilita i processi di interscambio referenziale con il non umano: insomma coniuga e ibrida, non separa e purifica, antropo-decentra non rafforza il pensiero antropocentrato.

Come si vede nell’interpretazione postumanistica non possiamo certo parlare di un mondo a misura d’uomo giacché la tecnopoiesi rende, al contrario, “l’umano a misura di mondo”. Infatti secondo il postumanismo la tecnologia non solo è il portato (il frutto) ibridativo con il non-umano ma facilita i processi ibridativi: in tal senso non dà vita a un amnios emanativo capace di racchiudere e proteggere l’uomo dal primo mondo bensì apre delle ferite (dei fori di coniugazione) nella pelle dell’uomo che come autostrade facilitano il passaggio del non umano all’interno della dimensione ontopoietica. In altre parole, mentre nell’iperumanismo attraverso la tecnosfera e l’evento tecnopoietico l’uomo viene interpretato come sempre più antropocentrato e meno contaminabile (o, se si vuole, meno esposto al primo mondo), nell’impostazione postumanistica la tecnologia modifica le coordinate ontopoietiche operando delle ibridazioni che pertanto antropo-decentrano, ossia creano uno scostamento della dimensione umana dai caratteri dell’uomo come entità filogenetica e questo processo dà luogo a un circolo virtuoso antropodecentrativo: il sistema ibridato è meno stabile e più facile a ulteriori processi ibridativi. La tecnopoiesi ci apre al mondo, non ci separa da esso.

 

  1. Il grande balzo in avanti del secolo biotech

Secondo il paradigma umanistico la téchne non è dimensionale nel processo antropo-poietico ma è semplicemente funzionale a esso: seguendo tale prospettiva il divenire tecnopoietico non sarebbe parimenti un divenire ontologico giacché le coordinate dell’umano prescindono dal non-umano che non può far altro che assumere un ruolo strumentale, vale a dire rendersi funzionale ai fini prestabiliti da tali coordinate. Parliamo di un “disegno umano” a priori rispetto alla tecnopoiesi. Nella visione umanistica la tecnologia è un mezzo, non un’entità co-fattoriale nell’evoluzione dei predicati umani, giacché questi ultimi vengono considerati autarchici e autopoietici, cioè puri. Il problema del rapporto con la tecnologia si limita pertanto al modo più funzionale per piegare l’apparecchiatura strumentale ai fini prestabiliti dall’essenza uomo. Per l’approccio postumanistico le cose stanno assai diversamente giacché si considerano i predicati umani come qualità emergenti dall’ibridazione con il non-umano, pertanto secondo tale impostazione non è possibile separare l’emergenza tecnopoietica dai predicati umani (principio di non strumentalizzazione della téchne). Inoltre la tecnopoiesi non è il frutto della creatività solipsistica dell’uomo bensì della capacità dell’uomo di imparare dal non-umano, ossia di importare delle referenze non-umane all’interno della sua dimensione ontopoietica (principio di non emanazione della téchne). Ogni tecnologia introduce quindi dei mutamenti nelle coordinate antropo-poietiche, modificando la dimensione umana in tutti i suoi aspetti ontologici, per il fatto stesso di essere operatrice di ibridazione e media di coniugazione con il non-umano. (principio di non disgiunzione della téchne).

Rispetto al principio di non strumentalizzazione, la tecnologia non è l’ancella che aiuta l’uomo a raggiungere i propri fini ma è essa stessa produttrice di fini e così facendo opera degli slittamenti sulla percezione stessa delle qualità umane. In altre parole secondo il postumanismo è proprio il concetto di strumento a non spiegare il significato della téchne, ossia a essere un impedimento alla piena comprensione del significato della tecnopoiesi, essendo quest’ultima anche un’ontopoiesi: vale a dire che ogni evoluzione tecnoscientifica inevitabilmente modifica i predicati umani. Rispetto al principio di non emanazione, è scorretto vedere nell’atto tecnopoietico un processo creativo effettuato dall’uomo in solitudine, ovvero un’emanazione diretta di qualità inerenti all’uomo. La tecnopoiesi è l’esito dell’incontro con il non-umano, vale a dire è un frutto dialogico-integrativo, per cui tanto per quanto concerne l’incipit quanto per l’esito, una sola ricognizione sull’uomo non può spiegare la téchne poiché viene a mancare il contributo dell’interlocutore non-umano. Rispetto al principio di non disgiunzione va detto che ogni emergenza tecnopoietica: a) accresce la coniugazione dell’uomo al non-umano ovvero la contiguità-connessione con il non-umano e la declinazione dei predicati; b) aumenta il bisogno del non-umano ovvero il senso di carenza che l’uomo prova se cerca di raggiungere predicati e fini in autarchia; c) aumenta le possibilità e tendenze di coniugazione dell’uomo con il non-umano ossia apre il sistema uomo e lo rende maggiormente ibridabile e nello stesso tempo più instabile. La tecnosfera non crea un mondo a misura d’uomo ma rende l’uomo sempre più bisognoso del mondo.

L’impostazione postumanistica non è solo figlia di una riflessione filosofica ma altresì di un mutato quadro antropologico, sociologico e scientifico. Possiamo dire che la tecnopoiesi del XX secolo ha operato dei forti slittamenti di significato non solo sul modo di vivere bensì sulle coordinate stesse del vivere cosicché, mentre in precedenza la percezione della tecnologia era giustappositiva, vale a dire improntata sul concetto di strumento, ossia di tramite che permette di potenziare una funzione umana (non la modifica e non la crea) senza intaccare le basi del sentirsi umani, in seguito si è andata configurando in maniera progressiva una tecnologia palesemente inerente all’umano. Quello che voglio dire è che mentre fino al XX secolo era dato all’uomo di rinvenire i propri predicati spogliandosi dei suoi strumenti – ovviamente era una falsa impressione o, meglio, una presunzione riferibile alla natura apparentemente appositiva, nel senso di ergonomica, del supporto tecnologico – in seguito, cioè nel corso del secolo appena trascorso, detta operazione non è stata più possibile. Questo è, a mio avviso, il grande balzo che ci ha consegnato il Novecento ma, si badi, non solo rispetto alla natura operativa della tecnologia emergente – cioè in riferimento a quanto la tecnopoiesi ci ha reso in grado di fare – bensì a come ci ha aperto gli occhi sul significato stesso della dimensione tecnosferica. Nel passaggio di secolo si manifesta pienamente il portato antropo-poietico delle strutture tecnologiche; ciò sollecita una riflessione profonda sul significato della relazione con il tecnologico che non può più essere limitata alla tradizionale lettura umanistica. Per capire questo passaggio, prendiamo pertanto a disamina i due concetti che distanziano la visione umanistica (e quella iperumanistica da essa derivata) dalla lettura postumanistica: 1) il concetto di strumento; 2) il concetto di emanazione.

 

  1. Il concetto di strumento

La lettura strumentale della téchne è il primo presupposto che viene messo in discussione. Secondo il postumanismo la tecnologia non può essere considerata l’ancella pronta a esaudire le finalità impresse dall’uomo perché è essa stessa “teleonomica”, ossia imprime dei significati antropopoietici: è cofattoriale non strumentale. Attraverso l’ibridazione tecnologica l’uomo si modifica perché il suo spazio dimensionale di ontopoiesi cambia, i suoi predicati si trasformano in tutte le direzioni, tanto nell’operatività quanto nell’epistemica. Occorre ragionare sul comodo espediente di rendere la téchne strumentale all’uomo, ipostatizzando tale impostazione nel concetto di strumento.

Cos’è uno strumento? Secondo l’impostazione postumanistica lo strumento non è una realtà bensì un’interpretazione preconcetta (nel caso, frutto della cornice umanistica) del nostro rapporto con la téchne. Quindi è necessario capire quali sono le attribuzioni che l’umanismo ha confezionato nel concetto di strumento per realizzare il proprio progetto enucleativo dell’uomo e autopoietico/autarchico dell’umano. In effetti potremmo definire lo strumento in vari modi: 1) ciò che sta al posto di una funzione biologica; 2) ciò che potenzia una funzione biologica; 3) ciò che permette la non declinazione performativa del corpo; 4) ciò che distanzia il corpo dalla funzione; 5) ciò che distanzia il corpo dal target. A ben vedere tutte queste definizioni ruotano intorno a un nucleo concettuale forte basato sulla precedenza dei predicati umani rispetto all’evento tecno-poietico: la tecnologia è strumentale in quanto tesa a realizzare il disegno umano. Essa è quindi espansione operativa capace di piegare il mondo alle coordinate antropocentrate: non è in discussione la natura di tali coordinate. In questa lettura l’elemento tecnologico è semplicemente un supporto che può fungere: a) da potenziatore di qualità inerenti l’essere umano oppure b) da stampella per compensare le deficienze ovvero l’incompletezza del soma rispetto alla funzione. La téchne viene interpretata come complementare alle qualità filogenetiche dell’uomo, esattamente come un guanto è realizzato per calzare perfettamente la mano. Tanto nel potenziare quanto nel compensare la funzione fa stretto riferimento al predicato biologico dell’uomo. La tecnica diviene in tal modo un’aggiunta, uno strumento, che si conforma al predicato biologico, vuoi per aumentarne l’orizzonte di operatività vuoi per supplire a carenze, adagiandosi sul calco negativo di queste ultime. In tal senso le funzioni non vengono messe in discussione, nella loro caratterizzazione come nel loro numero, giacché la tecnica è solo ciò che permette all’uomo di realizzare i propri fini-predicati, che si suppongono ovviamente già dati e immodificabili. Pertanto la visione umanistica vede la tecnica come funzionale e strumentale, dove l’uomo mantiene comunque il controllo anzi, accresce attraverso di essa il dominio sul mondo ossia l’orizzonte del controllo. Nell’umanismo non ci si chiede quanto del predicato umano sia attribuibile al partner tecnologico. Il rapporto con la tecnologia è in tal senso dato per scontato dove si ritiene che lo strumento sia deputato semplicemente a estendere le capacità dell’uomo, sia cioè un supporto in grado di potenziare-compensare le possibilità operative non di mettere in discussione le qualità umane. Questo è il punto su cui si concretizza la più importante differenza tra il pensiero umanistico e quello postumanistico.

All’interno del paradigma umanistico ci si affida allo strumento, come estensore che allarga lo spazio di intervento dell’uomo e gli consente di raggiungere con più facilità i propri fini. Siamo abituati a considerare l’operatore tecnologico come un’aggiunta, un magnificatore, un mezzo che l’uomo utilizza per amplificare il proprio dominio sul mondo (e in un certo senso per emanciparsi dal mondo) mantenendo di fatto una sorta di integrità di sostrato: la tecnica come vestito. In tal senso l’operatore tecnologico si dà all’uomo, si rende cioè disponibile-conforme affinché l’uomo possa indossarlo proprio per evitare di usurare i suoi predicati di essenza. Poco importa se l’estensore potenzia o compensa, quello che conta è negare che la tecnologia introduca dei processi predicativi. Questo pensiero trascina con sé alcune considerazioni importanti: 1) che le qualità potenziate-compensate siano pre-esistenti la partnership con lo strumento; 2) che le qualità pre-esistenti non vengano modificate dalla partnership con lo strumento; 3) che i fini dell’uomo trascendano la partnership con lo strumento. Con il punto “1” si presuppone che la téchne non aggiunga mai dei predicati ma solo estenda o dia compimento a predicati inerenti l’essere umano. Con il punto “2” si presuppone che la téchne non modifichi i predicati inerenti l’essere umano, non li metta in discussione o non li trasformi attraverso un processo di ibridazione. Con il punto “3” si considera la tecnopoiesi non un’avventura aperta sul futuro e dagli esiti imprevedibili bensì la realizzazione di una finalità implicita nell’essere umano.

Sono proprio questi tre punti a entrare in crisi nella visione postumanistica, poiché si attribuisce alla tecnica un significato co-fattoriale nella realizzazione dei predicati umani: i) in senso emergenziale, vale a dire come apportatrice di novità non inerenti nell’essere umano, come dispensatrice cioè di nuovi predicati; ii) in senso ibridativo, ossia nel suo modificare i predicati attribuendo loro un dominio specifico di validità, ovvero limitandone il campo di validità, e metamorfizzandoli attraverso nuovi contenuti; iii) in senso teleonomico, ovvero dando vita a nuovi fini e a nuove coordinate ontologiche. Per comprendere questi aspetti è indispensabile superare l’idea giustappositiva per ammettere la natura co-fattoriale della téchne: l’approccio postumanistico ci porta a ritenere infatti che non vi sia una discendenza diretta del predicato umano dalle caratteristiche filogenetiche dell’uomo, vale a dire che non è possibile comprendere l’umano come collezione di predicati facendo una ricognizione sull’uomo come entità filogenetica.

 

  1. Il concetto di emanazione

La tecnologia viene intesa come emanazione solipsistica e autopoietica dell’uomo: a) nella visione sociobiologica come fenotipo esteso di Homo sapiens; b) nella visione dell’antropologia filosofica come esonero di una natura incompleta. In entrambe le letture la tecnopoiesi è espressione del solo ingegno umano e il progresso tecnologico viene interpretato come cammino glorioso dell’umanità. È ovvio che, avendo l’uomo una parte attiva e cospicua nella realizzazione tecnologica, l’idea che questa sia frutto autarchico e non processo dialogico-integrativo è comprensibile e in parte giustificabile. Ma vi è più di un problema nel persistere in questo ragionamento. Prima di tutto va sottolineato il rischio di negligere il contributo referenziale del non-umano nel processo tecnopoietico e quindi di mettere in forse il processo stesso. In altre parole considerare la tecnopoiesi come una semplice emanazione della creatività umana può indurre una sorta di arroganza di autosufficienza: mistificando il processo si arriva a porgli una tremenda ipoteca proprio perché si distrugge la cerniera referenziale con il non-umano, ritenuto ininfluente nel cammino dell’uomo. Secondo l’impostazione postumanistica l’uomo ha una parte importante nella tecnopoiesi ma non esclusiva e non solipsistica. La tecnopoiesi è un dialogo con il non-umano, è frutto congiuntivo e non astrazione dell’uomo dal mondo. Questo significa che per rafforzare il processo tecnopoietico occorre riconoscere e favorire l’intervento referenziale del non-umano e non pretendere di rinchiudere l’uomo in un mondo confezionato a sua misura. Secondo l’impostazione postumanistica la tecnologia è mediatrice di ibridazione oltre che essere frutto di un processo ibridativo, rende cioè la realtà ontopoietica dell’uomo sempre meno a misura d’uomo. Come si vede ci troviamo di fronte a slittamenti ermeneutici di grande rilevanza che non possono essere mistificati e banalizzati come coordinate antiumanistiche. Non si tratta di andare contro l’uomo o contro l’umano quanto di riconoscere la natura dialogica dell’umano. In questo senso la tecnologia non fa altro che favorire questo processo, da una parte aumentando il portato referenziale del non-umano (per esempio aumentando gli ambiti di scacco dell’uomo), dall’altro rendendo la dimensione ontopoietica sempre più fluida e sempre più etero-riferita.

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