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Che cos’è la cultura? Presenza, crisi e trascendimento in Ernesto de Martino

Autore


Roberto Evangelista

Università degli Studi di Padova

Dottore di ricerca in Filosofia, svolge attività di ricerca tra le Università di Padova e Napoli

Indice


  1. Sicurezza e presenza
  2. La cultura: crisi della presenza e valorizzazione
  3. Esclusione e isolamento

 

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S&F_n. 03_2010


  1. Sicurezza e presenza

La domanda su quale sia il confine fra ciò che è esclusivamente naturale e ciò che non lo è, sembra rimanere irrisolvibile. Spesso si attribuisce, a comportamenti che rientrano in un contesto culturalmente delineato, la statura di atteggiamenti naturali: l’identità di genere, per esempio, o i legami familiari. Se si attraversano anche solo superficialmente questo tipo di argomenti, risulta effettivamente difficile comprendere in che misura vengano determinati in maniera conforme a un modello culturale, o al contrario risultino fondati nella natura delle cose. In generale, allora, la domanda diventa quella sulla norma; ovvero, quella che si pone il compito di indagare quale sia il metro per giudicare la delimitazione di un campo culturale, e la norma che decide cosa rientri in questo campo e cosa ne rimanga fuori.

Nel corso del Novecento questo tipo di problema ha attraversato l’Europa in molteplici forme, in particolare, come discorso sulla scienza dell’uomo. In Italia, Ernesto De Martino ne è un esempio importante: nella sua opera si concentrano nevralgicamente diversi referenti culturali (la fenomenologia, la psicologia della Gestalt e l’antropologia strutturale); ma soprattutto è suo il tentativo di descrivere la sopravvivenza e la convivenza di modelli culturali apparentemente diversi se non contrapposti[1]. In questo contesto, allora, proprio le definizioni di normalità e anormalità vengono sottoposte a una critica importante. La psicopatologia è il fenomeno che mette maggiormente in discussione la misura della anormalità e della normalità in relazione ai modelli culturali. De Martino afferma chiaramente la storicità del “giudizio di anormalità o normalità psichica”.

La norma e la deviazione dalla norma, il contatto con la realtà o la perdita di questo contatto, comportano in chi giudica una valutazione della storia dell’individuo, una conoscenza del mondo sociale e culturale in cui è inserito. Solo così è possibile penetrare il comportamento vissuto, la qualità dell’Erleben[2].

 

Perciò il comportamento individuale non può essere considerato avulso dalla realtà sociale e culturale in cui l’individuo è posto, ma – e questo è il dato importante – il comportamento vissuto, l’erleben, non è valutabile senza considerare il mondo sociale e culturale all’interno del quale si sviluppa. Il comportamento vissuto è lo stesso mondo culturale; la cultura è vita che si esprime attraverso un comportamento vissuto, che non è riscontrabile a livello individuale, ma all’interno di un mondo socio-culturale che è valutabile qualitativamente. Per ora, ci si limiterà a dire con de Martino, che la qualità di questo erleben è data dalla misura del segno del movimento di regressione o di progresso del trascendimento, cioè di distacco dalla realtà culturale o di riscatto della persona sotto giudizio in questa stessa realtà[3].

L’esempio del dramma psichico individuale, riportato da de Martino attraverso George Dumas, dell’operaio che si sente influenzato e dominato (potremmo dire affatturato[4]) dal capofabbrica, anche fuori dal conteso lavorativo, è emblematico dell’assorbimento del problema psicopatologico all’interno del problema culturale[5]. Il tratto patologico sta sicuramente nel fatto che l’operaio instauri col suo capofabbrica un rapporto storicamente adeguato a quello di una società primitiva, ma – conseguenzialmente – ciò che fa la malattia, è la mancanza di istituti culturali adeguati (in questo caso quelli della fattura e della controfattura) in cui l’operaio possa tradizionalizzare e valorizzare  la sua esperienza. La vittima è costretta ad affrontare questo dramma in maniera del tutto privata senza possibilità di ricorrere al consenso pubblico. La malattia è dunque «inattualità storica»[6]. Probabilmente – al tempo in cui De Martino scriveva, ma varrebbe la pena di verificarne la possibilità ancora oggi – un contadino molisano, o un  contadino lucano, sarebbero riusciti ad assorbire culturalmente quel sentimento di eterodirezione, in un contesto sociale capace di rassicurarli. La sicurezza è l’espressione del bisogno che definisce l’uomo come presenza; ovvero come possibilità reale di modificare la realtà, e di farlo in maniera efficace. Più precisamente la sicurezza è la memoria (e la riproduzione) dei comportamenti fruttuosi rispetto al soddisfacimento di determinati bisogni. Con una piccola digressione, è possibile spingersi fino a dire che la sicurezza è una diminuzione della speranza e della paura di fronte alla realtà, perché si è creata la possibilità effettiva di prevedere alcuni eventi e di volgerli in proprio favore sulla base di una praxis fruttuosa già sperimentata socialmente e culturalmente[7]. La sicurezza e la presenza, secondo de Martino, sono indissolubilmente legate.

Dire che l’uomo è un animale bisognoso di sicurezza nell’azione […] significa dire con altre parole che l’uomo è una presenza. Che cosa è infatti la presenza se non la memoria retrospettiva dei comportamenti culturalmente efficaci, e la volontà prospettica di impiegar qui ed ora, in rapporto alla richiesta di realtà, il comportamento adatto?[8]

 

La possibilità di una memoria più o meno ampia, misura la forza (potenza) e la labilità della presenza.

La presenza, si inserisce proprio nel punto in cui, sotto la spinta della situazione, le memorie necessarie sono evocate e mobilitate per determinare l’atto creativo della nuova storia, il cammino verso il futuro. Quando le memorie di comportamenti efficaci sono anguste, le richieste della realtà diventano particolarmente esigenti, e le prospettive di riuscita si restringono: ciò significa scarsa esistenza o labilità della presenza, rischio di perdersi come presenza, senso di insicurezza, angoscia[9].

 

Subito dopo de Martino specifica che la presenza – e dunque la possibilità della realizzazione della sicurezza – ci è data nella misura in cui possiamo attingere, in un momento critico, a «memorie retrospettive di comportamenti efficaci per modificare la realtà e la coscienza prospettica e creatrice di ciò che occorre fare» per produrre un valore nuovo, una iniziativa creatrice personale. La presenza si inserisce dunque nella dialettica fra memoria retrospettiva e slancio prospettico. Ma questo movimento, che di certo coinvolge l’individuo, non è tuttavia un movimento individualistico. Sono infatti le strutture e le forme intersoggettive a rendere plausibile la costituzione dell’esistenza.

Famiglia e società, e quindi cultura nel suo complesso, foggiano la misura della nostra esistenza, stabiliscono l’orizzonte di sicurezza dell’esserci: e nella misura in cui la cultura cui apparteniamo non riconosce dipendenze irrazionali, servili e disumane e non ha dogmatizzato l’imperio della natura, noi ci siamo nella storia con sicurezza e libertà[10].

 

 

  1. La cultura: crisi della presenza e valorizzazione

I momenti critici sono momenti, di volta in volta presenti nella storia umana – comunitaria o individuale che sia –  nei quali l’umanità si sente non presente a se stessa e al mondo. Ovvero, sono momenti in cui emerge la non possibilità di operare. De Martino raccoglie, come esempio di questa crisi, una ricca documentazione psicopatologica relativa al Weltuntergangerlebnis, o delirio da fine del mondo, in cui i pazienti si comportano come se il mondo dovesse finire da un momento all’altro, o come se stesse finendo qui e ora. Questo atteggiamento è riscontrabile anche a livello culturale e intersoggettivo, soprattutto in culture che hanno, in modi diversi, ritualizzato questo tipo di esperienza[11]. La crisi della presenza è appunto questo: un momento nella storia umana che pone la possibilità – se non addirittura l’inevitabilità – dell’impossibilità di esserci nel mondo e nella storia. Il rapporto uomo-natura ha a che fare con la presenza e la crisi della presenza, ma non esaurisce il discorso. Certo, addomesticare la natura ha sicuramente un valore affermativo della presenza umana, ma non si può vedere la natura come qualcosa di completamente avulso dall’essere umano. La stessa natura è determinazione culturale. La presenza, come si diceva, è la costruzione della sicurezza e la costruzione e la praticabilità di un senso per l’essere umano. L’incapacità di comprendere il reale e quindi di dominarlo e addomesticarlo genera la crisi. Emblematica la descrizione della condizione psichica degli indigeni abitanti in un area diffusa tra la Siberia, il Nord-America e la Melanesia, che mostra quanto l’ipseità non sia un dato di fatto acquisito:

Tutto accade come se una presenza fragile, non garantita, labile, non resistesse allo choc determinato da un particolare contenuto emozionante, non trovasse l’energia sufficiente per mantenersi presente ad esso, ricoprendolo, riconoscendolo e padroneggiandolo in una rete di rapporti definiti. In tal guisa il contenuto è perduto come contenuto di una coscienza presente. La presenza tende a restare polarizzata in un certo contenuto, non riesce ad andare oltre di esso, e perciò scompare e abdica come presenza[12].

 

Il soggetto non definisce e non sopporta ciò che gli succede: lo stormire delle foglie, per esempio, lo assorbe completamente invece di lasciarlo presente a se stesso in quanto persona, fino a renderlo albero le cui foglie sono mosse dal vento. De Martino rileva come il crollo della presenza sia «incompatibile per definizione con qualsiasi creazione culturale, che implica sempre un modo positivo di contrapporsi della presenza al mondo»[13]. Afferma, però, allo stesso tempo, che la creazione culturale può avvenire come risposta a una crisi di presenza. Pure il cosiddetto mondo magico, con le sue istituzioni e ritualizzazioni, è l’emblema della creazione di una figura valoriale e culturale.

Il semplice crollo della presenza [rappresenta] solo uno dei poli del dramma magico: l’altro polo è costituito dal momento del riscatto della presenza che vuole esserci nel mondo. Per questa resistenza della presenza che vuole esserci, il crollo della presenza diventa un rischio appreso in un’angoscia caratteristica: e per il configurarsi di questo rischio la presenza si apre al compito del suo riscatto attraverso la creazione di forme culturali definite[14].

 

La crisi della presenza non è solo l’incapacità di dominare la natura fisicamente, ma anche l’incapacità di darle un senso, di andare oltre la natura per comprenderla in un ordine di significanti che diventino simboli e che permettano di afferrare le opere e i giorni della storia umana. L’esempio del pane è importante perché permette di comprendere l’intersoggettività di questo momento di crisi e di superamento della crisi. Non si mangia mai da soli, perché

il pane è tale per l’uomo in quanto racchiude molteplici memorie culturali umane, la invenzione della agricoltura, della domesticazione degli animali, della cerealicoltura, sino a giungere al lavoro di contadini e di fornai che hanno realizzato questo pane che sto mangiando: un progetto comunitario dell’utilizzabile, con tutti i suoi echi di immani fatiche umane, di decisioni, di scelte, di gusti socializzati, sostiene e assapora questo pane qui ed ora, e ne condiziona l’appetibilità e il nutrimento[15].

 

Il significato del pane è allora quel progetto comunitario dell’utilizzabile che permette da un lato di comprendere la potenza della comunità umana e dall’altro lato di significarla e richiamarla attraverso un prodotto di quel progetto che si è realizzato con successo. Questo movimento va sotto il nome di valorizzazione.

Il distacco dalla naturalità del vivere si compie intercalando l’ordine degli strumenti materiali e dei regimi di produzione dei beni economici, l’ordine degli strumenti mentali per piegare la natura alle esigenze degli individui e dei gruppi, l’ordine delle regole sociali per disciplinare la divisione del lavoro e i rapporti fra le persone e i gruppi, l’ordine delle regole morali per educare l’individuo ad andare oltre la «libido» e per dare orizzonte a sentimenti che accennino alla riconoscenza e all’amore, l’ordine della catarsi estetica e della autocoscienza dell’umano operare e produrre e innalzarsi sulla natura. La cultura è questa energia morale del distacco dalla natura per fondare un mondo umano[16].

 

La cultura è l’andare al di là della naturalità, al di là della sopravvivenza, per affermare l’esistenza e la presenza della persona come ente collettivo e interindividuale. Dominazione e addomesticamento della natura, certamente, ma il concetto di operabilità è estremamente più largo e si riferisce a quella sicurezza che deve tendere a stabilizzarsi se non si vuole rischiare la crisi della presenza. L’economia è il concetto che descrive questa domesticazione del mondo come possibilità di operare e come possibilità di indicare e significare[17]. La cultura è esattamente questo: il vittorioso battersi dell’uomo per la sicurezza, per affermare la propria organizzazione esistenziale, la propria economia, la propria attività e la propria potenza. L’ethos del trascendimento è la disposizione delle comunità umane a trascendere la mera vitalità naturale per affermare quell’organizzazione economica che gli permette di esistere.

L’ethos del trascendimento è sempre di nuovo chiamato a combattere l’insidia estrema di perdersi o annullarsi: e ciò che chiamiamo cultura nella sua positività è appunto il vittorioso battersi dell’uomo per mantenere sempre aperta la possibilità di un mondo culturale possibile, l’esorcismo solenne che contro il rischio del «finire» fa ostinatamente valere la varia potenza dell’opera che vale e dei mores  che essa genera e sostiene[18].

 

Lo slancio valoriale intersoggettivo, la continua progettazione comunitaria dell’operabile non è essere, ma dover-essere, perché norma dell’agire comunitario degli individui. Il valore, la regola, dunque non sono nella natura. Ciò che deve essere non è essere, al contrario è una immagine che gli individui si fanno – collettivamente – della loro operabilità e della loro potenza. Il progetto che si istituzionalizza nei valori è progetto arbitrario: né del tutto convenzionale, né del tutto naturale ma culturale, appunto, dove per cultura si intende un modello ambivalente: è concetto mobile per eccellenza perché deve adeguarsi al mondo in cui la comunità vuole affermare la sua presenza; ma allo stesso tempo presenta il rischio della sclerotizzazione. De Martino lo dice con altre parole:

Il singolo non può mai esaurire il dover essere, il dover essere che lo fonda, perché ove mai lo esaurisse lo negherebbe, e non attingerebbe l’essere, ma il nulla[19]

 

Ma soprattutto, la cultura, come la stessa esistenza umana, non è pensabile se non come jura communia, ovvero come orizzonte comune di operazioni che la affermano in una società non convenzionale ma, si può dire, necessaria.

[il principio del dover essere] non può esaurirsi in un solo singolo o in una irrelata molteplicità di singoli, ma si dispiega come società di singoli, operanti e comunicanti e relazionanti le loro opere […]. Il dover essere non è compatibile con un singolo […] e neppure è compatibile con un caotico urto dei singoli, dove ciascuno dei quali si proverebbe ad attuarlo in modo irrelazionato: inauguralmente e innanzitutto il dover essere si pone come società, come progetto comunitario dell’utilizzabile, del comunicare e relazionare i bisogni e le soddisfazioni, del produrre beni e strumenti[20].

 

Il pericolo, però, è che la società si chiuda, o meglio si “feticizzi” diminuendo la relazione con se stessa e con le altre società. La responsabilità di chi dovrebbe detenere il potere politico ed economico, in questo caso, è forte[21], ma è fuor di dubbio che il valore corre il rischio di diventare coercitivo, ovvero di vedere trasformata la sua istituzionalizzazione in una ritualizzazione e sclerotizzazione.

 

  1. Esclusione e isolamento

Tornando all’esempio dell’operaio francese è necessario rimarcare un’ambivalenza importante: il sistema socio-economico-culturale che va sotto il nome di capitalismo, è riuscito ad abbandonare una serie di modelli, o possiamo dire “maschere” della storia[22]. Eppure, lo stesso capitalismo crea esclusione. Ogni valorizzazione, nel momento in cui la si pretende statica e definitiva, propone – o impone – delle sclerotizzazioni che costituiscono i campi di normalità e di anormalità. Ciascun individuo è posto di fronte alla possibilità che gli istituti culturali decidano della sua normalità o anormalità. Ogni cultura, e de Martino lo dimostra, porta con sé le regole dell’emarginazione. Non c’è spazio né per il mito del progresso disumanizzante, né per il rimpianto di culture arcaiche che seppure assorbendo e valorizzando determinati deliri, vivevano sulla base di forti meccanismi di emarginazione.

Tutte le dinamiche di inclusione e di esclusione che un sistema operativo-culturale pone, sono frutto della ripresa della crisi di presenza propria di quel sistema culturale. Se il sistema capitalistico ha rivelato la storia come presenza umana e non divina e quindi per certi versi l’ha umanizzata, ha tuttavia lasciato gli individui isolati nel loro delirio perché non è stato in grado di costituire riti e valorizzazioni in grado di superare le crisi della presenza. L’uomo si trova, ora, in completa solitudine di fronte a se stesso. La storia è il susseguirsi di crisi, valorizzazioni, riprese delle crisi. Ma questa dialettica porta con sé il rischio che la ripresa non funzioni, o almeno non funzioni per tutti. Così, i deliri psicopatologici, rifletterebbero il ripresentarsi di una crisi della presenza che si vive individualmente, senza avere a disposizione istituti valoriali che assorbano e risolvano in qualche modo la crisi.

La psicopatologia riflette per gli individui, l’ambivalenza della società. Da un lato la comunità umana è chiamata a risolvere la mancanza di spazi operazionali; dall’altro si impone come morale interindividuale togliendo agli individui spazi di autonomia e di decisione. Ogni società, in fondo, si basa su una indecisione, su una cessione di potere decisionale da parte di chi la compone. Il problema di de Martino, allora, ritorna al problema politico, che la modernità risolveva o interpretava con la sovranità, che si situa fra l’uomo e la natura. La cultura e la società si “feticizzano” chiudendosi come se non avessero più a che fare con la natura, e lasciando nel campo del naturale, del “selvaggio” tutto ciò che non rientra nei meccanismi istituzionali. Mascherando il fatto che, in realtà, non esiste alcuna natura in sé; non esiste natura che non abbia a che fare con l’operare umano. Essa è oltre la cultura e dentro la cultura, ma la sua posizione è misurabile sempre e solo in relazione alla potenza dell’opera umana.

La natura è l’orizzonte che segnala la inesauribilità della valorizzazione della vita secondo un progetto comunitario dell’utilizzabile; in questo senso sta sempre «al di là» della progettazione utilizzante, manifestandosi come resistenza, come materia, come esteriorità di per sé cospirante con l’uomo. Ma al tempo stesso, la natura è ciò che di essa sta «dentro» la progettazione utilizzante, e cioè come orizzonte delle utilizzazioni possibili accumulatesi nella storia culturale propria e dell’intera società, e quindi come memoria implicita e di volta in volta esplicitabile di un certo ordine di abilità e di tecniche operative di cui posso avvalermi e di cui mi avvalgo di fatto […]. Questo «al di là» e questo «dentro» sono correlativi e inscindibili[23].

 

Se si riesce a pensare la cultura non più come mera convenzione intersoggettiva, ma come confine mobile fra la natura e la possibilità di operare da parte degli uomini, forse il pericolo della sclerotizzazione sarebbe maggiormente scongiurato, e così il pesante valore che deve essere valido per tutti in maniera interindividuale – cioè considerando gli individui come somma di unità indifferenziate che assumono un determinato comportamento – potrebbe valere in senso transindividuale, cioè come condivisione fra singolarità sempre mobile e sempre da riaffermare[24], rendendo la valorizzazione continua. La creatività umana guadagnerebbe allora uno spazio più ampio per affermarsi.

La cultura è la mobilità del confine fra ciò che impropriamente chiamiamo natura e ciò che chiamiamo convenzione, per questo la natura appare sempre nella cultura nella misura in cui la cultura è ricondotta all’ethos complessivo che abbraccia i suoi trascendimenti valorizzanti e alla coscienza di tale ethos, scongiurando la sua chiusura. Forse si può dire, allora, che una cultura inclusiva è quella nella cui filigrana si intravede e si afferma il suo originario e continuo movimento naturale.

 

 


[1] Emblematico a questo proposito è la descrizione della convivenza di culti dionisiaci e cristianesimo nel Meridione d’Italia degli anni ‘50 del Novecento. Cfr. E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 1961.

[2] Cfr. Id., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977), Einaudi, Torino 2002, pp. 176-178.

[3] Ibid.

[4] Sul tema dell’affatturazione, cfr. Id., Sud e magia (1959), Feltrinelli, Milano 2001.

[5] Cfr. G. Dumas, Le surnaturel et les dieux d’après le maladies mentales, PUF, Paris 1946.

[6] E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 177.

[7] Sul rapporto fra sicurezza, speranza e paura, rimando a B. Spinoza, Etica, tr. it. a cura di G. Durante, Bompiani, Milano 2007, parte III, definizioni degli affetti 12; 13; 14; 15 e relative spiegazioni, e R. Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1994.

[8] E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 142.

[9] Ibid.

[10] Ibid.

[11] Per approfondire questa sintesi, cfr. Id., Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, in «Nuovi Argomenti», n. 69-71, lugl. - dic., 1964, pp. 105-141, e Id., La fine del mondo, cit., in particolare il capitolo 1, Mundus, in relazione all’esempio del delirio da fine del mondo.  

[12] Id., Il mondo magico (1948,1958), Bollati-Boringhieri, Torino 1973, p. 93.

[13] Ibid., p. 94.

[14] Ibid., p. 95.

[15] Id., La fine del mondo, cit., pp. 616-617.

[16] Ibid., p. 659. Importante è anche il discorso relativo al simbolo religioso; cfr. Id., Mito, scienza religiosa e civiltà moderna, in Furore, simbolo, valore (1962), Feltrinelli, Milano 2002, pp. 35-83.

[17] Cfr. Id. La fine del mondo, cit., p. 656.

[18] Ibid., p. 669.

[19] Ibid., p. 603.

[20] Ibid., p. 604.

[21] Cfr. ibid.

[22] Cfr. ibid., pp. 354-356.

[23] Ibid., p. 646.

[24] Cfr. G. Simondon, L’individuation psychique et collective à la lumiere des notions de Forme, Information, Potentiel et Métastabilité, Aubier, Paris, 1989. Il concetto di transindividuale che qui si prende in considerazione proviene però dall’adattamento di Balibar, cfr. E. Balibar, Dall’individualità alla transindividualità, in L. Di Martino e L. Pinzlo (a cura di), Spinoza. Il transindividuale, Ghibli, Milano 2002, pp. 103-148.

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