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Il segno e il simulacro

Autore


Serena Del Bono

Università di Pisa

svolge attività di ricerca all’Università di Pisa

Indice


  1. Il segno nell’età classica
  2. Il moderno: Vita, Linguaggio, Lavoro
  3. Linguaggio e simulacro

 

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S&F_n. 03_2010


  1. Il segno nell’età classica

Ne Le parole e le cose[1] Foucault descrive tre a priori storici, laddove per a priori storico l’autore intende la disposizione generale del sapere[2] che ci restituisce l’ordine attraverso il quale noi conosciamo le cose, l’ordine attraverso il quale le cose si danno al nostro sapere. Gli ordini empirici si costituiscono dunque a partire da tali a priori.

I tre a priori descritti nell’opera sono quello dell’età rinascimentale, dell’età classica e dell’età moderna[3].

Nell’età classica le empiricità si danno all’interno dello spazio di rappresentazione o, per meglio dire, «l’ordinamento delle empiricità viene […] ad essere legato all’ontologia che caratterizza il pensiero classico; questo si trova infatti fin dall’inizio all’interno d’un’ontologia resa trasparente dal fatto che l’essere è dato tutto d’un pezzo alla rappresentazione»[4].

Il conoscibile si dà come cosa rappresentata. Gli ordini empirici si costituiscono all’interno delle possibilità aperte dalla rappresentazione.

Al linguaggio è attribuito il compito di ordinare e disporre in ordine successivo e lineare gli elementi che nella rappresentazione compaiono in modo simultaneo, gli «si chiede soltanto il suo funzionamento», ovvero «quali rappresentazioni indica, quali elementi circoscrive e preleva, come analizza e compone, quale gioco di sostituzioni gli consente di garantire il suo compito di rappresentazione»[5].

Il linguaggio nell’età classica non ha una visibilità propria. Esso è completamente assorbito dal compito di ordinare le idee. Il segno nell’età classica è un’idea che ne indica un’altra. Il linguaggio allora non possiede una propria autonomia e specificità indipendente dall’idea, essendo riassorbito interamente nella funzione di analizzare le idee della rappresentazione. In questo senso l’autore scrive che il linguaggio nell’età classica non esiste ma funziona, cioè non esiste come oggetto epistemologico ma funziona nel suo compito di analizzare.

Ne deriva che il linguaggio non è concepito come uno strumento esterno e indipendente dalla rappresentazione, non è una cosa che ha un suo spessore, una sua essenza che poi viene applicata alle esigenze della rappresentazione. Al contrario il linguaggio nasce e si sviluppa all’interno della rappresentazione. Tutto il sapere dell’età classica si muove all’interno «del gioco di una rappresentazione che si discosta da se stessa e si riflette in un’altra rappresentazione che le è equivalente»[6].

Poiché compito del linguaggio è quello di analizzare gli elementi della rappresentazione l’età classica preferirà al segno naturale il segno di convenzione. Quest’ultimo infatti è il pensiero a sceglierlo in base alla sua funzionalità, al fatto che si presenti come elemento utile, semplice, facilmente applicabile a vari elementi.

Il pensiero non si pone più il compito di ricercare un linguaggio segreto tra le cose, un linguaggio deposto da Dio nell’ordine naturale, ma quello di stabilire delle serie all’interno delle quali cogliere le identità e le differenze, i gradi di parentela, di vicinanza e lontananza fra gli elementi. All’interno di questo compito del pensiero i segni assumono la funzione di essere strumento dell’analisi, indici dell’identità e della differenza, principi dell’ordinamento, e chiavi per una tassonomia.

Nell’età rinascimentale i segni esistevano indipendentemente dalla possibilità di conoscerli, poiché «erano stati deposti sulle cose perché gli uomini potessero portare alla luce i segreti, la natura o le virtù di queste»[7]; Qui la conoscenza è divinatio: essa «aveva per compito di rivelare un linguaggio anteriore distribuito da Dio nel mondo». Nell’età classica invece il segno è uno strumento che deve funzionare all’interno di una tassonomia. Un segno non può essere enigmatico ma deve essere conosciuto e occupa una posizione particolare in quanto «partecipa di ciò che significa e nello stesso tempo (deve) esserne distinto»[8].

Analizzare la rappresentazione mediante segni che, a loro volta sono idee, significa procedere in un percorso in cui idea e segno sono perfettamente trasparenti l’uno per l’altro, essendovi tra di essi un’immediata inerenza; proprio tale inerenza consente di escludere nel percorso che va dalla rappresentazione al segno la teoria del significato che richiederebbe l’intermediario della coscienza. Non può esservi alcuna coscienza perché «tra di loro non esiste alcun elemento intermedio, alcuna opacità»e quindi «l’analisi dei segni è al tempo stesso, e di pieno diritto, decifrazione di ciò che vogliono dire»[9] e, viceversa, chiarire il significato comporta semplicemente una riflessione sui segni che lo indicano. In altre parole la teoria del segno coincide con l’analisi del senso ed entrambe si muovono all’interno dello spazio aperto della rappresentazione. La teoria del segno nell’età classica diventa possibile perché ciò che lega il significante e il significato è lo sfondo della rappresentazione. Occorre tuttavia considerare che «le rappresentazioni non mettono radici in un mondo da cui prenderebbero il loro senso; si aprono da sé su uno spazio che è loro proprio, e la cui nervatura interna dà luogo al senso»[10]. Non c’è spazio né per la natura, né per la natura umana, la superficie sulla quale il pensiero si svolge è una superficie piatta in cui ogni elemento è concepito come elemento di rappresentazione. Nell’età classica la funzione rappresentativa si articolerà secondo due punti di vista: quello verticale che indica un rappresentato, e quello orizzontale «che la salda conformemente al pensiero». L’analisi del linguaggio renderà conto cioè di quello «sdoppiamento interno della rappresentazione» generato dal fatto che il linguaggio è «una rappresentazione che ne articola un’altra»[11]. Di conseguenza ci accorgiamo che «il linguaggio si situa proprio nello scarto che la rappresentazione stabilisce nei riguardi di se stessa» per cui «il linguaggio si rende invisibile o quasi»[12].

Esso cioè è investito del solo compito di fornire i segni che consentiranno di analizzare le rappresentazioni. Dare il nome appropriato all’idea significa già conoscerla. Nominare significa identificare, conoscere significa: vedere, nominare, classificare. Per questo motivo nell’età classica il dominio di visibilità corrisponde al dominio del descrivibile, cioè dell’enunciabile.

All’interno dello stesso a priori storico la formazione discorsiva della Storia Naturale avrà un funzionamento isomorfo a quello della formazione discorsiva della Grammatica Generale appena descritta. I quattro schemi del reticolo preconcettuale – attribuzione, articolazione, designazione e derivazione – funzionano in modo isomorfo nelle tre formazioni discorsive proprie dell’età classica: la Grammatica Generale, la Storia naturale, l’Analisi della ricchezza.

Allora l’emblema del sapere della Storia Naturale è il calligramma: le pagine dei botanici, che mostrano un’immagine della pianta e sottostante il nome corrispondente, diventano simbolo di un sapere che si struttura sulla base di un rapporto certo tra il visibile e il descrivibile.

Il nome stabilisce un rapporto certo, di identificazione dell’oggetto. Quando i botanici identificavano il carattere degli esseri naturali ciò consentiva di mettere in relazione quell’elemento singolo con la varietà degli altri elementi presenti e quindi di stabilire una classificazione.

La Storia Naturale procede attraverso enumerazioni complete. Mediante il carattere la natura viene ordinata e iscritta in una tassonomia. Si crea uno spazio delle identità e delle differenze che si generano come progressiva distanza dall’identico.

Le cose vengono ordinate all’interno di un casellario che costruisce degli spazi chiari in cui esse vengono disposte le une dopo le altre come tanti elementi separati e distinti di una collezione; occorre tuttavia che «La Storia Naturale abbia come condizione di possibilità l’inerenza delle cose e del linguaggio alla rappresentazione»[13].

 

 

  1. Il moderno: Vita, Linguaggio, Lavoro

Quando Kant comincia a interrogarsi circa i limiti della rappresentazione, si assiste alla prima fase della deflagrazione dell’ a priori dell’età classica. Secondo Foucault la critica kantiana «sanziona per la prima volta quell’evento della cultura europea che è contemporaneo alla fine del XVIII secolo: il ritirarsi del sapere e del pensiero al di fuori dello spazio della rappresentazione»[14].

Nell’a priori storico dell’età moderna compaiono nuovi oggetti empirico trascendentali: la vita, il linguaggio, il lavoro. Essi si compongono sul principio di organizzazione interna, per cui l’elemento singolo è sempre sopravanzato dal sistema.

L’organizzazione interna del concetto di vita, ad esempio, rivela l’esistenza di correlazione tra gli organi, che non solo porta a modificare la tabella di classificazione degli organismi ma soprattutto conduce a definire in maniera diversa il dominio del visibile.  A partire da Cuvier l’organo verrà definito facendo riferimento alla funzione che svolge, piuttosto che alla sua struttura o forma, e a prescindere dalla variabile che lo differenzia o meno da un altro organo che compie la stessa funzione. In tal modo al di là delle differenze visibili la natura pullula di somiglianze e analogie che si manifestano sullo sfondo delle grandi unità funzionali che gli organi sono. Compaiono così delle somiglianze laddove non esiste alcun elemento visibile identico. Le somiglianze sono ravvisate sul piano delle funzioni e sui modi di assolverle, non più sulla base delle forme visibili che gli organi hanno. Ad esempio, si ravvisa la somiglianza tra branchie e polmoni in quanto entrambi servono a respirare. Con Cuvier la funzione si definisce mediante l’effetto da ottenere, ma la nozione stessa di effetto, non appartenendo al campo del visibile, consentirà di riferire l’uno all’altro complessi di elementi sprovvisti della più piccola identità visibile. Così, mentre nell’età classica era lo sguardo che ordinava gli elementi, nell’età moderna l’ordine si costituisce a partire dal principio dell’omogeneità funzionale che prescinde dal riferimento allo sguardo.

Con la comparsa di linguaggio, vita, lavoro, quali nuovi oggetti empirico trascendentali, «le cose si avvolgono su se medesime, si attribuiscono un volume proprio, definiscono un loro spazio interno, il quale, per la nostra rappresentazione, è all’esterno». Dal fondo della notte che le fa nascere, «le cose, frammentariamente per profili, pezzi, scaglie si offrono, assai parzialmente, alla rappresentazione». Questa nuova configurazione del sapere dispone le cose su uno spazio nuovo, che non ha più la stabilità continua del piano, bensì si dispiega in maniera tridimensionale, in modo da far emergere anche la faccia opaca delle cose. Si modificano così i rapporti:

Prima vi saranno le cose, con la loro organizzazione, le loro nervature segrete, lo spazio che le articola, il tempo che le produce e poi la rappresentazione, successione temporale in cui esse si annunciano sempre parzialmente ad una soggettività, ad una coscienza, allo sforzo singolo di una conoscenza, all’individuo psicologico, che dal fondo della propria storia, o muovendo dalla tradizione che le è stata trasmessa, tenta di sapere[15] .

 

È a partire da queste premesse che, secondo Foucault, «la cultura europea si inventa una profondità»[16].

Va in frantumi il sistema binario del segno, la trasparenza tra il segno e l’idea, la loro immediata inerenza.

Il gesto di Magritte di dissolvere il calligramma è la manifestazione della nuova disposizione del sapere.

Nel quadro di Magritte Ceci n’est pas une pipe, all’oggetto-pipa dipinto sulla tela, non corrisponde la didascalia (questa non è una pipa); la negazione della didascalia apre lo spazio di una dispersione. Infatti nel quadro sono presenti i tre elementi del calligramma: il testo, la forma visiva della figura, l’immagine visiva delle parole. Ma questi tre elementi, invece di intrecciarsi e di affermarsi reciprocamente, invece di marcare la loro interdipendenza, si mancano e si allontanano l’uno dall’altro. Ciascuno schizza via in direzioni contrarie aprendo sulla superficie piatta del quadro un vuoto incolmabile.

Magritte ha riaperto la trappola che il calligramma aveva chiuso su ciò di cui parlava. Ma di colpo la cosa stessa è volata via. Sulla pagina di un libro illustrato non si ha l’abitudine di prestare attenzione a quel piccolo spazio bianco che scorre sopra le parole e sotto i disegni (...): perché è lì, su quei pochi millimetri di biancore, sulla sabbia tranquilla della pagina, che si annodano, tra le parole e le forme, tutti i rapporti di designazione, di descrizione, di classificazione. Il calligramma ha riassorbito quell’interstizio; ma, una volta riaperto, non lo restituisce. La trappola è stata rotta sul vuoto.

 

Una volta rotto il calligramma «la cosa stessa è volata via»[17] e lo spazio del visibile non trova più una corrispondenza nello spazio del descrivibile.

L’inerenza del linguaggio alle idee, e quindi alle cose ha consentito per due secoli al discorso occidentale di essere il luogo dell’ontologia[18], vale a dire che, attribuendo a ogni cosa rappresentata il nome, il discorso conferiva essere ed esistenza alla cosa.

 

  1. Linguaggio e simulacro

La rottura del calligramma ci dice dell’emergere di un nuovo a priori storico: il linguaggio ha acquistato un proprio spessore in cui si profila l’impossibilità per il sapere di raggiungere la cosa; il linguaggio è allora anche lo spazio in cui si fa largo un evento, in cui riemerge l’esperienza antica del simulacro.

L’esperienza di dispersione che Magritte ci mostra tra i tre elementi del calligramma comporta anche un’esperienza di dispersione dei rapporti di somiglianza tra l’immagine e la cosa.

Nell’età classica il nome diventava nome comune quando instaurava un rapporto di gerarchia tra un elemento preso come modello e altri elementi che venivano considerati come sue copie. Analogamente la stessa funzione del nome comune nella Storia Naturale era svolta dal carattere; quando si rompe il calligramma tutte le funzioni di identificazione e classificazione si disperdono: l’impossibilità di stabilire un rapporto di somiglianza tra l’immagine e la cosa comporta anche l’impossibilità di stabilire un rapporto di gerarchia tra il modello e la copia, cioè tra l’elemento x che ordina l’insieme A. L’impossibilità di questo rapporto è ciò che Foucault e Deleuze chiamano simulacro. La parola simulacro serve per indicare quegli elementi che non si affermano come copie di un modello, ma che piuttosto si indicano, si richiamano e si reclamano all’interno di rapporti di similitudine. A tale proposito Deleuze scrive: «per simulacro non si deve intendere una semplice imitazione, ma piuttosto l’atto attraverso cui l’idea stessa di un modello o di una posizione privilegiata si trova contestata e rovesciata»[19] e aggiunge che affermare il simulacro significa «negare il primato di un originale sulla copia»[20].

Nel saggio Questo non è una pipa Foucault si serve di alcuni dipinti di Magritte per spiegare il simulacro. Uno di questi è il quadro Rappresentazione, dove l’esatta rappresentazione di una partita di calcio viene riprodotta due volte, la seconda volta tuttavia la stessa scena risulta spostata e in scala ridotta. Le due scene funzionano come due serie che scardinano la possibilità stessa di rappresentare e di affermare alcunché. La duplicazione fa nascere la domanda: che cosa rappresenta che cosa?. Secondo Foucault «basta che sul medesimo quadro ci siano due immagini così legate lateralmente tra loro da un rapporto di similitudine perché il riferimento ad un modello esterno – per via di somiglianza – sia subito disturbato, reso incerto, vago»[21]. Il rapporto di similitudine mette fuori gioco la possibilità stessa che esista un modello e una gerarchia, cioè annulla la possibilità di ordinare e di classificare mediante un referente primario; da qui l’impossibilità di nominare la cosa in modo certo, cioè di darle un nome che le conferisca un’identità, un’identificazione.

In Decalcomania abbiamo a che fare con un uomo o con un tendaggio? Con un paesaggio, con un pensiero o con l’ombra dell’uomo stesso? Nel quadro vi è ripetizione e spostamento da sinistra a destra. Nel ripetersi l’immagine si ripropone simile ma con un infimo scarto di differenza. Abbiamo qui a che fare con uno «spostamento e scambio di elementi similari, che non è per nulla riproduzione somigliante»[22].

Se «la somiglianza comporta un’asserzione unica, sempre la stessa: questo, quello, quell’altro è la tale cosa», al contrario «la similitudine crea un rapporto indefinito e reversibile»[23]. L’elemento del similare rinvia sempre a qualcos’altro senza poter mai posarsi su un appoggio che funzioni da fondamento, per cui i rimandi dal similare al similare si moltiplicano.

Nel quadro I legami pericolosi i rapporti di similitudine si rinviano da un elemento all’altro della tela denunciando la scomparsa del corpo reale della donna che sembrava esserne il soggetto principale.

Nell’articolo La prosa di Atteone Foucault descrive un tipo di simulacro che si gioca a livello del linguaggio. L’autore prende come esempio i racconti di Klossowski, per dirci che in essi  «l’uguaglianza A=A si anima di un movimento interiore e senza fine che allontana ognuno dei due termini dalla sua propria identità e li rinvia l’uno all’altro [...] in modo che nessuna verità può essere fatta nascere da questa affermazione»[24]. Il simulacro così ottenuto viene definito vana immagine, rappresentazione di qualcosa che si manifesta e si nasconde, menzogna che fa scambiare un segno per un altro.

Foucault avverte che il segno, nel simulacro, non è da intendere allo stesso modo in cui lo intendono i linguisti, che lo pongono in relazione con il contesto del discorso di cui fa parte; il segno nel simulacro sembra rimandare all’uso che del segno stesso si fa in campo religioso. Nel senso che esso non mantiene un’identità statica ma è capace di trasformarsi continuamente nel momento in cui stabilisce delle relazioni impreviste. Così come «non c’è albero della scrittura, non c’è pianta viva o disseccata che non rinvii all’albero della croce – a quel legno intagliato nel primo albero ai piedi del quale Adamo ha dovuto soccombere», allo stesso modo, nel simulacro il segno appartiene in profondità «ad una serie di forme che mutano» e acquista un essere doppio, ambiguo, attraverso il quale non designa alcun senso, presentandosi legato «alla storia di una manifestazione che non è mai compiuta»[25], come avviene nella Bibbia. Il segno acquista così uno statuto profetico e ironico sospeso all’interno di un movimento di ripetizione destinato a essere messo in discussione dall’evento successivo, in un ripetere che «dice questo e poi quello, o piuttosto diceva già, senza che si potesse saperlo o a nostra insaputa, questo e quello»[26]. Nell’articolo Nietzsche, Freud, Marx Foucault scrive che «dopo il XIX secolo [...] i segni sono interpretazioni che tentano di giustificarsi e non il contrario [...] di conseguenza i segni sono maschere». In tale contesto il segno «perde il suo semplice essere di significante» ed è «come se il suo spessore si aprisse e quindi tutti i concetti negativi, che fino ad allora erano rimasti estranei alla teoria del segno, possano precipitare nell’apertura». Da questo momento si potrà organizzare all’interno del segno tutto un «gioco di concetti negativi, di contraddizioni, di opposizioni»[27], che Foucault, riprendendo le parole di Deleuze, definisce come «un insieme di forze reattive»[28]. In tal modo il segno diventa nella sua essenza simulacro «dicendo tutto simultaneamente e simulando senza sosta una cosa diversa da quella che dice»; così si comportano, ad esempio, i segni dell’inconscio freudiano quando proviamo a interpretare un sogno. Nel simulacro ritroviamo un’immagine dipendente da una verità sempre retrocedente.

Foucault vede in Klossowski l’erede dell’esperienza del simulacro, «colui che dal fondo dell’esperienza cristiana ha saputo ritrovare le suggestioni e le profondità del simulacro, scavalcando tutti i giochi di ieri: quelli del senso e del non senso, del significante e del significato, del simbolo e del segno». Egli crea i suoi simulacri attraverso il capovolgimento delle situazioni: in una realtà quasi poliziesca dove «i buoni diventano i cattivi, i mostri resuscitano, i rivali si rivelano complici, i carnefici sono degli astuti salvatori, gli incontri sono preparati da lungo tempo, le frasi più banali hanno un duplice intento». Tuttavia nei suoi capovolgimenti non si assiste a nessuna epifania, non vi è rivelazione alcuna, al contrario «ogni scoperta rende l’enigma più profondo, moltiplica l’incertezza, e svela un elemento soltanto per velare il rapporto che esiste tra tutti gli altri».

Anche i personaggi di Klossowski sono dei simulacri, «tutto in loro si frammenta, prorompe, si offre e si ritira all’istante; possono essere tanto vivi quanto morti, poco importa», dal momento che essi sono e rimangono «esseri perfettamente e totalmente ambigui»[29]. La comparsa del linguaggio come oggetto epistemologico comporta l’esperienza dell’io parlo e della Letteratura.

L’esperienza del simulacro al livello del linguaggio è divenuta possibile nel momento in cui il linguaggio è apparso come un oggetto epistemologico, come oggetto empirico-trascendentale. La comparsa del linguaggio ha scavato un vuoto tra l’Io e il pensiero. Infatti, mentre l’Io penso ci spinge a pensare che l’Io esista e ci restituisce la certezza della sua esistenza, l’Io parlo, al contrario, «ci spinge indietro, disperde, cancella quest’esistenza e non ne lascia apparire che il posto vuoto»[30]. Il linguaggio dissolve l’Io, «la parola della parola ci conduce attraverso la Letteratura, ma forse anche attraverso altre vie, a quel di fuori dove sparisce il soggetto»[31]. C’è allora «un’incompatibilità senza rimedio tra l’apparizione del linguaggio nella sua essenza e la coscienza di sé nella sua identità». In tale contesto l’Io che parla si spezza, si disperde e si sparpaglia fino a sparire in questo spazio nudo, perdendo le responsabilità del proprio discorso. Il soggetto non è più «colui che lo tiene, che afferma e giudica in esso, che talvolta vi si rappresenta sotto una forma grammaticale predisposta a quest’effetto». Esso diventa inesistenza, lascia un vuoto nel quale si dispiega il diffondersi indefinito del linguaggio. In questo movimento del linguaggio la Letteratura non si configura in un percorso di autoriferimento in cui manifesta unicamente se stessa, piuttosto essa continuamente indica e rinvia a un passaggio al di fuori. Ciò avviene perché il linguaggio sfugge al modo di essere del discorso – vale a dire alla dinastia della rappresentazione, e la parola letteraria si sviluppa a partire da se stessa, formando una rete di cui ogni punto, distinto dagli altri, lontano anche dai più vicini, è situato in rapporto a tutti in uno spazio che li colloca e li separa. Il linguaggio rivela che la sua essenza è quella di essere nella forma di una dispersione.

Tale incompatibilità si è manifestata oltre che nella Letteratura in vari ambiti della nostra cultura, «nei tentativi di formalizzazione del linguaggio, nello studio dei media, nella psicanalisi, e anche nella ricerca di quel Logos che forma il luogo di nascita di tutta la ragione occidentale». In questi ambiti l’uomo fa esperienza della sua finitudine, del fatto di essere inserito all’interno di sistemi che travalicano la sua coscienza. Il pensiero si apre alla possibilità di pensare il pensiero del di fuori.

Il linguaggio riflessivo, per aprirsi a questo pensiero del di fuori, non deve ricercare una conferma interiore, una certezza centrale, ma deve raggiungere il limite di se stesso, «verso l’estremità nella quale deve continuamente contestarsi» per manifestare «il semplice di fuori dove le parole si susseguono indefinitamente». Perseguire il pensiero del di fuori significa «liberare ad ogni istante (il discorso) non soltanto da ciò che ha appena detto, ma dal potere stesso di enunciarlo». Per questo la negazione non viene concepita in modo dialettico ma in modo assoluto, come passaggio continuo al di fuori di sé, senza la mediazione e la ruminazione di ciò che si nega nell’interiorità inquieta dello spirito. La Letteratura è il luogo che ha fatto esperienza di questo linguaggio, pensiamo ai testi di  Blanchot, di Roussel, di Bataille, di Sade, di Artaud.

In questo linguaggio troviamo il vuoto come principio, un vuoto scavato dal linguaggio stesso. In esso non c’è posto per la contraddizione, bensì per la contestazione che cancella; non riconcilia ma procede verso una ripetizione continua che non si dirige verso un’unità ma verso un’erosione indefinita del di fuori, che non ricerca una verità ma «lo scorrere e la sofferenza di un linguaggio che è sempre già iniziato»[32].

 


[1] M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1967), tr. it. BUR, Milano 1988.

[2] Ibid., p. 175.

[3] Età classica ed età moderna si riferiscono alla periodizzazione francese.

[4] Ibid., p. 226.

[5] Ibid., p. 95.

[6] Ibid., p. 93.

[7] Ibid., p. 74.

[8] Ibid., p. 76.

[9] Ibid., p. 82.

[10] Ibid., p. 93.

[11] Ibid., p. 107.

[12] Ibid., p. 93.

[13] Ibid., p. 148. La configurazione epistemologica dell’età classica ci lascia un’eredità pesante, l’indicazione che conoscere significa servire la differenza a uno sguardo che, nell’atto di osservare una pluralità di esseri, si propone come unico obiettivo quello di rinvenirvi un’identità, di esercitare su di essi una riduzione all’Identico.

[14] Ibid., p. 262.

[15] Ibid., p. 259.

[16] Ibid., p. 272.

[17] M. Foucault, Questo non è una pipa (1973), tr. it. SE edizioni, Milano 1988, p. 59.

[18] Id., Le parole e le cose, cit., p. 139.

[19] G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1969), Il Mulino, Bologna 1970, p. 117.

[20] Ibid., p. 119.

[21] M. Foucault, Questo non è una pipa, cit., p. 65.

[22] Ibid., p. 68.

[23] Ibid., p. 64.

[24] M. Foucault, La prose d’Actéon (1964), in Dicts et Écrits, Gallimard, Paris 1994, vol. I, §.21, p. 89.

[25] Ibid., p. 91.

[26] Ibid., p. 92.

[27] M. Foucault, Nietzsche, Freud, Marx, tr. it. in Archivio I, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 144-145.

[28] Foucault cita il testo di Deleuze, Nietzsche e la filosofia (1965), tr. it. Feltrinelli, Milano 1992.

[29] M. Foucault, La prose d’Actéone, cit., p. 92.

[30] M. Foucault, Il pensiero del di fuori, in Scritti Letterari, tr. it. Feltrinelli, Milano 1971, p. 112.

[31] Ibid., p. 113.

[32] Ibid., p. 117.

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