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Naturalizzare la cultura. La religione come caso di studio

Autore


Ines Adornetti

Università di Roma Tor Vergata

Dottoranda di ricerca in “Scienze filosofiche e sociali” presso l’Università di Roma Tor Vergata

Indice


  1. Animali culturali, ma animali
  2. Epidemiologia delle rappresentazioni mentali
  3. Origini naturali delle credenze religiose
  4. Radici evolutive

 

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S&F_n. 05_2011


  1. Animali culturali, ma animali

Secondo un’opinione fortemente radicata nel senso comune, ciò che ci caratterizza in quanto esseri umani è la nostra straordinaria capacità di cultura. Gran parte del comportamento umano, in effetti, viene spiegata in riferimento a credenze, opinioni, mode, regole sociali e istituzioni politiche. In altri termini,

le idee acquisite culturalmente sono fondamentali per interpretare molte delle nostre condotte: la cultura permea e dà forma alle nostre esistenze. Sebbene

tale idea sia ampiamente condivisibile, in questo scritto ci proponiamo di difendere una concezione diversa. Dal nostro punto di vista, infatti, le spiegazioni solitamente addotte per descrivere il comportamento non risultano soddisfacenti per dar conto delle peculiarità della natura umana per un motivo, per quanto semplice, tutt’altro che banale: l’essere animali culturali degli umani non può essere visto come una negazione del fatto che essi siano, in primo luogo, animali. Per tale ragione, per tematizzare il problema della natura umana occorre far riferimento tanto alla dimensione biologica degli individui quanto a quella culturale. Il nostro comportamento è, infatti, il risultato di una complessa interazione tra eredità culturale ed eredità biologica: indagare i fenomeni culturali significa, dal nostro punto di vista, dar conto della natura di questa interazione. La prima considerazione da fare a riguardo è che la cultura non è né un evento improvviso, né un evento che esiste da sempre. Proprio per questo motivo, data l’importanza che i fenomeni culturali hanno nella vita degli esseri umani, il problema del loro avvento è un fenomeno che aspetta giustificazioni. Nella prospettiva adottata in quest’articolo spiegare le manifestazioni culturali equivale a interrogarsi sulle condizioni della loro genesi, vale a dire sull’analisi dei fondamenti biologici. Si tratta naturalmente di una questione estremamente complessa che può essere declinata in molti modi. In questo lavoro, prendendo in considerazione la genesi e la fissazione delle credenze socialmente condivise, affronteremo tale questione in rapporto al tema della trasmissione culturale. Attraverso un’analisi di questo tipo ci proponiamo di mostrare che i processi di trasmissione culturale sono fortemente vincolati dalle capacità biocognitive degli esseri umani. Per dar conto di tale fatto, analizzeremo come caso di studio il pensiero religioso.

Attraverso l’analisi del fatto che non è possibile dar conto dell’origine e della diffusione di un fenomeno culturale così importante e pervasivo come la religione senza chiamare in causa aspetti della biocognizione umana, sosterremo a un livello più generale la necessità di un’indagine naturalistica della cultura.

 

  1. Epidemiologia delle rappresentazioni mentali

Dalla nostra prospettiva, il punto chiave di uno studio naturalistico della cultura è l’idea che i fatti culturali si spieghino in riferimento ai processi d’uso delle credenze condivise. Seguendo la definizione proposta dall’antropologo cognitivo Dan Sperber

quando parliamo di cultura ci riferiamo normalmente a rappresentazioni largamente distribuite e di lunga durata, anche se non esiste una soglia tra le rappresentazioni culturali da un lato e quelle individuali dall’altro. Le rappresentazioni sono più o meno distribuite e quindi più o meno culturali[1].

 

Poiché la cultura può essere caratterizzata come l’insieme delle rappresentazioni mentali che abitano la testa degli individui, spiegare i fenomeni culturali significa spiegare perché, come sorgono e come si propagano queste rappresentazioni mentali. In altri termini, studiare la cultura significa analizzare la distribuzione delle rappresentazioni e chiedersi perché, all’interno di una popolazione umana, alcune rappresentazioni hanno più successo e si diffondono più facilmente rispetto ad altre. Lo studio della cultura prende così la forma di un’epidemiologia delle credenze: come l’epidemiologia clinica studia la diffusione delle malattie, l’epidemiologia culturale studia la diffusione delle rappresentazioni. In particolare, l’epidemiologia delle credenze si propone di chiarire «perché alcune rappresentazioni restano relativamente stabili, cioè perché diventano propriamente culturali»[2]. Ora, per mantenere la loro stabilità (per raggiungere un livello culturale di distribuzione) le informazioni culturali devono essere ricordate e trasmesse. Solo quelle che non sono particolarmente difficili da interiorizzare, ricordare e trasmettere, raggiungono una certa stabilità – diventano propriamente rappresentazioni culturali. Perché alcune rappresentazioni sono più facili da interiorizzare, ricordare e trasmettere rispetto ad altre? Quali sono i fattori causali e i meccanismi alla base di tali processi? L’idea a fondamento di questo scritto è che un ruolo centrale nella stabilizzazione (fissazione) delle rappresentazioni, e dunque un ruolo centrale nella trasmissione culturale, sia giocato dalle capacità cognitive umane: gli esseri umani sono predisposti a subire l’influenza di particolari tipi di rappresentazioni e la «suscettibilità a particolari invasioni epidemiche dipende da più generali proprietà delle menti umane che sono il risultato dell’evoluzione»[3]. L’analisi della credenza religiosa ben si presta a illustrare questo punto.

 

  1. Origini naturali delle credenze religiose.

Una caratteristica centrale del pensiero religioso è rappresentata dalle credenze che si riferiscono agli agenti sovrannaturali (divinità, angeli, demoni, spiriti di antenati, ecc.) caratterizzati in termini fortemente antropomorfici. Che si tratti degli dei assoluti e onnipotenti delle religioni monoteistiche, quali Ebraismo, Cristianesimo e Islam, o di esseri con caratteristiche più simili agli umani, come gli dei greci, romani e quelli di alcune religioni Hindu, le idee sugli esseri sovrannaturali affollano sistemi di credenze e pratiche che si è soliti identificare come religiosi. Come detto in precedenza, nella prospettiva adottata in questo lavoro, dar conto in termini naturalistici dei fenomeni culturali equivale a tematizzare il problema della diffusione e della stabilità delle credenze condivise. Questo significa che l’analisi naturalistica del fenomeno religioso (quantomeno di alcuni aspetti di esso) passa per l’analisi dei processi alla base della diffusione delle credenze divine. Perché le credenze negli esseri sacri sono così ampiamente diffuse nelle varie culture? La risposta a una domanda del genere va rintracciata nel funzionamento di alcune specifiche capacità cognitive umane.

Secondo diversi studiosi l’origine della credenza nelle divinità risiede in una particolare predisposizione mentale: l’identificazione degli agenti – oggetti intenzionali mossi da credenze e desideri che danno avvio ad azioni e movimenti orientati a uno scopo[4]. Questa inclinazione, che l’antropologo cognitivo Pascal Boyer[5] ha definito una «ipertrofia del sistema che tratta gli oggetti animati», ci porta a inferire e ad attribuire stati psicologici anche in casi in cui questi non esistano. L’esempio classico a tale proposito è l’esperimento condotto da Heider e Simmel[6] in cui ai soggetti veniva mostrato un filmato dove tre figure geometriche, un cerchio e due rettangoli, si muovevano in uno spazio delimitato attorno a un rettangolo con un lato mobile. Quando dovevano raccontare la scena cui avevano assistito, i partecipanti istintivamente descrivevano le figure trattandole come persone, vale a dire attribuivano loro stati mentali.

L’antropologo Guthrie[7] è stato tra i primi ad aver rilevato l’importanza dell’attribuzione d’intenzionalità nella spiegazione del pensiero religioso. Egli ritiene, infatti, che il fondamento biologico della religione

derivi da una strategia innata: interpretare, primariamente, cose ed eventi ambigui nei termini di ciò che conta. E ciò che conta generalmente è ciò che è vivo, e specialmente ciò che è umano[8].

 

La religione è, da questo punto di vista, una forma d’interpretazione di fronte a un mondo ambiguo al quale attribuiamo molto di più di quanto gli occhi vedano[9]. L’origine del concetto di Dio va rintracciato, dunque, in questa strategia percettiva che porta a sopravvalutare i fenomeni oscuri e, più specificatamente, porta ad assumere, in situazioni d’incertezza, che l’inanimato sia vivo – animismo – e che il non umano sia umano – antropomorfismo.

Lo psicologo Barrett definisce il meccanismo alla base dell’attribuzione d’intenzionalità “iperattivo” (Hyperactive Agency Detection Device – HADD) poiché esso è «particolarmente predisposto a individuare agenti intorno a noi, inclusi gli agenti sovrannaturali, anche quando ci sono prove modeste della loro presenza. Questa tendenza incoraggia la generazione e la diffusione dei concetti divini»[10]. Proprio l’iperattività dell’HADD è basilare per la formazione delle credenze religiose: rilevanti sono le particolari circostanze in cui il meccanismo per l’individuazione degli agenti entra in funzione.

Secondo lo psicologo Leslie[11] il primo elemento necessario per interpretare un oggetto come agente è l’autopropulsione: quando un oggetto si muove autonomamente viene categorizzato come un agente fisico o meccanico che ha una fonte interna di energia rinnovabile. Il dispositivo che si attiva in questa fase è quello che egli definisce theory of body mechanism (ToBY). Il concetto di agente che ToBY produce non ha però ancora caratteristiche intenzionali: individuare l’inizio di un movimento autopropulsivo non è sufficiente per interpretare il comportamento dell’oggetto in termini intenzionali. La categorizzazione dell’oggetto come agente meccanico diventa, infatti, l’input per un secondo dispositivo di livello superiore, il “theory of mind mechanism”, che assegna all’azione autopropulsiva dell’agente uno scopo e interpreta il suo comportamento in termini di causazione teleologica. Detto in altri termini, quando un oggetto viola le nostre assunzioni intuitive riguardo al movimento degli oggetti fisici ordinari (ad esempio, se un oggetto cambia improvvisamente direzione o se non è possibile dar conto del suo moto in termini d’inerzia) e quando tale movimento sembra orientato a uno scopo, siamo naturalmente portati ad attribuirgli agentività.

La cosa interessante nel funzionamento di questi sistemi è che ci fanno immediatamente “balzare alle conclusioni”[12], vale a dire ci forniscono l’intuizione della presenza di un agente anche in casi in cui non ci sono evidenze di tale presenza e altre interpretazioni (il vento che soffia tra i cespugli, o il ramo di un albero che si spezza) sarebbero ugualmente plausibili. L’attribuzione di agentività può dunque avvenire anche quando non c’è alcuna evidenza percettiva dell’inizio di un movimento autopropulsivo da parte di un oggetto[13]. Gli indizi percettivi che indicano l’agentività, come appunto l’autopropulsione, non sembrano essere, in effetti, degli elementi necessari per interpretare il comportamento in termini teleologici, piuttosto l’interpretazione teleologica è guidata da condizioni dello stimolo che possono essere direttamente derivate dai principi fondamentali che reggono il ragionamento nel dominio della psicologia ingenua. Il principio dell’azione razionale richiede che comportamenti che sono diretti allo stesso scopo vengano corretti in relazione agli aspetti rilevanti dell’ambiente in cui si danno. Di conseguenza, la percezione di aggiustamenti comportamentali in funzione dei vincoli ambientali può servire come condizione d’innesco per l’analisi del comportamento come direttamente orientato a uno scopo[14].

La presenza di un agente può essere inferita dal rilevamento di una variazione contingente tra il comportamento e gli aspetti dell’ambiente che muta. Atran[15], infatti, sottolinea che l’agente (non fisicamente percepito) può essere identificato come chi opera all’interno di strutture di eventi finalizzate (telic event structures). In un evento finalizzato l’elemento chiave non è tanto l’inizio dell’azione, quanto il controllo contingente del suo risultato. Nelle strutture di eventi finalizzati viene inferita la presenza di una forza di controllo (un agente) che permette agli oggetti di muoversi, ma questa inferenza non deriva dall’individuazione della fonte della forza: gli oggetti possono avere comportamenti finalizzati anche quando le cause di tali comportamenti non sono note o non sono osservabili direttamente. Coma rileva Atran, «l’oggetto in movimento può fare esperienza di agentività piuttosto che esserne un istigatore»[16] e questa tendenza viene sfruttata nella formazione dei concetti religiosi. Gli esseri umani sono, infatti, cognitivamente propensi a invocare agenti sovvrannaturali laddove si verifichino eventi emotivamente intensi che hanno le caratteristiche superficiali delle strutture di eventi finalizzate senza che ci sia una apparente forza di controllo. Queste includono situazioni o cambiamenti caotici (terremoti, tempeste, alluvioni, siccità), eventi incerti (malattie, guerra, carestia, insicurezza) ed eventi futuri che normalmente sono al di fuori del controllo delle persone ma che le persone possono evitare cercando di gestirli[17].

 

  1. Radici evolutive

Da quanto detto fino a ora, l’origine delle credenze nelle divinità va ricondotto a un uso distorto dei dispositivi mentali[18]. Ci si potrebbe chiedere per quale ragione i nostri sistemi psicologici funzionano in un modo così anomalo, ovvero perché siamo portati a inferire la presenza di un agente anche quando non ci sono prove evidenti di tale presenza.

In realtà, piuttosto che costituire un’anomalia, il sistema iperattivo per il rilevamento degli agenti rappresenta un importante espediente adattativo: ci sono buone ragioni evolutive del perché gli esseri umani abbiano sviluppato un sistema ipertrofico di attribuzione d’intenzionalità. In una specie che, come la nostra, si è evoluta avendo a che fare con prede e predatori, il costo di attribuire falsi positivi (vedere agenti laddove non ce ne sono) è minimo se paragonato ai vantaggi che si possono ottenere (individuare agenti quando realmente questi sono presenti). In un contesto come quello dell’interazione preda-predatore, in effetti, risulta particolarmente vantaggioso interpretare il rumore che proviene da dietro un cespuglio come l’indizio della presenza di un predatore (di un agente) piuttosto che come il semplice prodotto dell’azione del vento[19]. Quando l’interpretazione è corretta, quando c’è realmente qualcuno dietro il cespuglio, se ne traggono benefici; se invece l’interpretazione è sbagliata, ci si perde poco. Da questo punto di vista, la produzione di un falso positivo è poco costosa se paragonata ai vantaggi che possono derivare. Come rileva Barrett,

se scommetti che qualcosa è un agente e non lo è, alla fine ci perdi poco. Ma se scommetti che qualcosa non è un agente e poi invece si rivela esserlo, potresti nel frattempo essere diventato il suo pranzo[20].

 

Così, questa modalità strategica di rispondere all’ambiguità percettiva, rivelandosi utile per la sopravvivenza, viene rinforzata dalla selezione naturale.

Ma non c’è solo questo: è probabile che negli esseri umani sia stata la gestione dei rapporti sociali a costituire la principale molla evolutiva alla base dello sviluppo dell’ipertrofica attribuzione d’intenzionalità. Con l’aumentare delle dimensioni dei gruppi si sono rese necessarie, infatti, forme più stabili ed efficienti d’interazione e coordinazione tra i membri[21]. La cooperazione poggia sulla capacità di interpretare e anticipare i comportamenti altrui attraverso l’attribuzione di stati mentali: quando nell’ambiente la cooperazione diventa fondamentale per la sopravvivenza, la capacità di attribuire stati mentali agli altri per anticiparne i comportamenti, dato l’alto valore adattativo, ha raggiunto uno sviluppo ipertrofico.

Il pensiero religioso, nello specifico la credenza negli esseri sovrannaturali, è dunque fortemente radicato nei sistemi mentali umani: la rappresentazione di agenti divini non potrebbe darsi senza un meccanismo per la rilevazione degli agenti e l’attribuzione d’intenzionalità; i processi di trasmissione e fissazione delle credenze religiose sono vincolati dalle caratteristiche della mente umana, che non solo rendono quelle credenze possibili, me ne influenzano anche la natura e il contenuto. Il caso della religione permette, pertanto, di rilevare un fatto importante: nella spiegazione dei fenomeni culturali il riferimento al livello della biocognizione umana diventa imprescindibile. Così, lo studio della credenza religiosa diventa un modo per sostenere, a un livello più generale, la rilevanza e la necessità di un’indagine naturalistica della cultura umana.

 


[1] D. Sperber, Il contagio delle idee. Per una teoria naturalistica della cultura, tr. it. Feltrinelli, Milano 1999, pp. 60-61.

[2] Ibid., pp. 61-62.

[3] P. Boyer, Evolutionary Psychology and Cultural Transmission, in «American Behavioral Scientist», 43, 6, 2000, p. 995.

[4] Su questo punto è possibile confrontare: S. Atran, A. Norenzayan, Religion’s evolutionary landscape: Countererintuition, commitment, compassion, communion, in «Behavioral and Brain Science», 27, 2004, pp. 713-770; J. L. Barrett, Why Would Anyone Believe in God?, AltaMira Press, Walnut Creek, CA 2004; P. Boyer, E l’uomo creò gli dei (2001), tr. it. Odoya, Bologna, 2010; S., Guthrie, A Cognitive Theory of Religion, in «Current Anthropology», 21, 1980, pp. 181-194; Id., Faces in the Clouds. A new theory of religion, Oxford University Press, New York 1993; V. Girotto, T. Pievani, T. G. Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice edizioni, Torino 2008; E. T. Lawson, Psychological perspective on agency, in Religion in Mind, a cura di J. Andresen, Cambridge University Press, Cambridge 2001.

[5] P. Boyer, E l’uomo creò gli dei, cit.

[6] F. Heider, M. Simmel, An experimental study of apparent behaviour, in «American Journal of Psychology», 57, 1944, pp. 243-249.

[7] S. Guthrie, A Cognitive Theory of Religion, cit.; Id., Faces in the Clouds. A new theory of religion, cit.

[8] Id., Why Gods? A cognitive theory, in Religion in Mind, cit., p. 94.

[9] L’idea che alla base della religione vi sia la tendenza ad antropomorfizzare enti ed eventi è già presente in D. Hume, La religione Naturale (1757), tr. it. Editori Riuniti, Roma 1985.

[10] J. L. Barrett, Why Would Anyone Believe in God?, cit., p. 31.

[11] A. Leslie, ToBy, and Agency: Core architecture and domain specificity, in Mapping the Mind: Domain Specificity in Cognition and Culture, a cura di L. Hirschfeld, S. Gelman, Cambridge University Press 1994, pp. 119-148.

[12] P. Boyer, E l’uomo creò gli dei, cit.

[13] G. Csibra, G. Gergely, S. Bíró, O. Koós, M. Brockbank, Goal attribution without agency cues: The perception of “pure reason” in infancy, in «Cognition», 72, 1999, pp. 237-267.

[14] Ibid., p. 264.

[15] S. Atran, In gods we trust: The evolutionary landscape of religion, cit.

[16] Ibid., p. 65.

[17] Ibid., p. 66.

[18] C. S., Alcorta, R. Sosis Ritual, emotion, and sacred symbols. The evolution of religion as an adaptive complex, in «Human nature», 16, 2005, pp. 323-359.

[19] H. C., Barrett, Human cognitive adaptations to predators and prey, dissertazione dottorale non pubblicata, University of California, Santa Barbara 1999.

[20] J. L. Barrett, Why Would Anyone Believe in God?, cit., p. 31.

[21] M. Tomasello, Altruisti nati (2009), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2010.

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