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Human Enhancement Technologies. Verso nuovi modelli antropologici (Parte II)

Autore


Luca Lo Sapio

Università degli Studi di Napoli Federico II

ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Bioetica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Primi elementi per una nuova prospettiva interpretativa
  2. Enhancement e idea di purezza
  3. La cultura: un sistema instabile e aperto
  4. Superamento dei modelli dicotomici
  5. Il mito della purezza

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S&F_n. 10_2013

Abstract


This paper tries to furnish some arguments against the dichotomical approach to human enhancement debate. In particular we flash out the major shortcomings of bioconservative perspective together with the principle criticalities of transhumanist point of view. We aim at delineating a different way of theorizing human enhancement topic pointing out the main results associated with the findings of current scientific research. Our thesis is that we ought to look at human enhancement within a conceptual framework which includes hybridization, openness to alterity, overcoming of nature/culture dichotomy.


La prima parte dell’articolo è in S&F_n. 9_2013. Ora, per quanto ciascuna parte di questa trattazione intorno al tema dello human enhancement possa essere considerata, per certi versi, autonoma e auto-conclusiva, va parimenti sottolineato come sia solo dalla fruizione completa delle due parti che può essere acquisita una visione d’insieme sulla proposta dell’autore.


  1. Primi elementi per una nuova prospettiva interpretativa

Nella prima parte del nostro saggio avevamo considerato alcune specificazioni del dibattito intorno all’enhancement, da un punto di vista descrittivo, rinunciando a fornire, in quella sede, argomentazioni, che a nostro parere, potevano giocare un ruolo decisivo di contrasto rispetto alla resa dicotomica della tematizzazione. Nelle prospettive bioconservatrici (con particolare attenzione a quella habermasiana e di Jonas e quelle di Fukuyama, Sandel e Kass) sono presenti punti di convergenza e paradigmi concettuali ben chiari. In primo luogo abbiamo, quasi fosse un tono di fondo accomunante i diversi autori, la delineazione di due argomenti: quello del pendio scivoloso (slippery slope) e quello del principio di cautela. Vediamo perché, sebbene suggestivi da un punto di vista formale, tali argomenti non hanno ragione rispetto a tutta una serie di obiezioni teoriche.

Accade spesso che per contrastare una tecnica che può portare dei benefici alla salute e al benessere delle persone vengano portati argomenti che fanno riferimento a eventuali rischi per il futuro. È la posizione che Mary Warnock definisce del “pendio scivoloso”, secondo cui una pratica che potrebbe anche essere considerata moralmente accettabile va proibita perché porta inevitabilmente a qualcos’altro, moralmente riprovevole[1].

 

L’argomento del pendio scivoloso attraversa le prospettive di tutti gli autori (bio-conservatori) precedentemente menzionati. Esso, in realtà, presenta una ben precisa idea della causalità, per la quale, se abbiamo una determinata situazione prodotta dall’impiego delle nuove tecnologie, deve seguire necessariamente e inevitabilmente che questa situazione (in ossequio al principio per cui hoc post hoc et ergo propter hoc) porti a un’altra situazione (futura) che, però, risulta (in fin dei conti) non inquadrabile, ovvero non definibile nella sua effettiva concretezza. Sarebbe come dire che alla situazione x deve necessariamente e inevitabilmente seguire una situazione y, ma alla domanda intorno alla natura della situazione y, la risposta sarebbe che essa non è affatto definibile: una contradictio in terminis. Tutto l’argomento del pendio scivoloso appare, quindi, risolvibile attraverso l’obiezione della fallacia del post hoc. Discutendo della natura del feto Peter Singer, ad esempio, scrive che

è vero che la razionalità potenziale, così come l’autocoscienza e così via, di un homo sapiens allo stadio fetale è superiore a quella di una mucca o di un maiale; ma da ciò non segue che il feto abbia una pretesa alla vita più forte. In generale, un X potenziale non ha tutti i diritti di un X. Il principe Carlo è un potenziale re d’Inghilterra, ma non ha tutti i diritti di un re[2].

 

Il filosofo australiano sembra cogliere un altro passaggio, quello della potenzialità, che viene, dalla prospettiva religiosa in maniera particolare, avanzato a favore dell’argomento del pendio scivoloso. In definitiva quest’argomento risulta fallace perché, de facto, consiste nel proporre un’idea della causalità che è quella di una causalità potenziale ed è fallace dal momento che la causalità, per essere tale, deve essere causalità reale. Sostenere, quindi, che le pratiche di miglioramento portino inevitabilmente a degli effetti o a delle conseguenze nefaste (ma la stessa cosa può dirsi, per converso, anche di quegli argomenti tecnofili, che disegnano inverosimili scenari futuristici in cui la tecnologia avrà realizzato i sogni escatologici dell’umanità) significa fare congetture causali su possibilità, che per loro definizione, possono essere di un certo segno specifico e, contemporaneamente, di segno diametralmente opposto. Il principio di cautela o precauzione che dir si voglia presenta invece una problematicità di carattere diverso.

È evidente che ci sia un lato banale nel richiamo al principio di precauzione. Esso, come osserva Latour, è continuamente applicato nella nostra vita quotidiana. […]. È in definitiva un principio che richiama al buon senso. La sua non banalità, sostiene sempre Latour, deriva dalla sua applicazione alla scienza, un campo in cui non si riconosce alcun posto per il buon senso e per l’esperienza[3].

 

Se il principio di precauzione vuole essere, popperianamente, un richiamo alle possibili «conseguenze inintenzionali di azioni umane intenzionali»[4] esso svolge una funzione euristicamente attiva (non meramente ostativa); se funge da principio metodologico, il cui ruolo è accompagnare opportunamente l’attività scientifica, in modo particolare in quegli ambiti nei quali la delicatezza dell’oggetto in esame è evidente, esso risulta essenziale, uno strumento co-sustanziale di qualsiasi indagine empiricamente fondata[5]. Se il principio opera, invece, come veto aprioristico verso qualsiasi afflato di innovazione o progresso empirico, va decisamente rigettato. Consideriamo ora un altro argomento, quello della difficoltà fattuale di distinguere nettamente tra ambito della terapia (ambito correttivo) e ambito del miglioramento. Molti autori, infatti, come Habermas sostengono che il rifiuto delle pratiche di enhancement vada rivolto a quelle di carattere migliorativista e non a quelle di carattere terapeutico (egli fa una distinzione a questo proposito tra eugenetica negativa e positiva)[6]. Ma, appunto, è poi proponibile una differenziazione così marcata tra clinica, terapia e miglioramento, implementazione, potenziamento? Tale barra divisoria risulta per più ragioni priva di un fondamento forte. Sebbene alcuni autori sostengano che le HET (human enhancement technologies) impiegate a fini terapeutici e quelle utilizzate per scopi migliorativi siano discernibili in maniera precisa[7] la distinzione non risulta epistemologicamente priva di problematicità. Mostrare come l’enhancement terapeutico non sia poi così distante dall’enhancement implementativo servirà a smontare prima facie l’idea che enhancement sia sinonimo di correzione di deficit organici o potenziamento di abilità tipiche del soggetto umano. Se pensiamo all’intervento a cui l’atleta sudafricano Pistorius si è sottoposto non possiamo parlare di intervento meramente correttivo, di segno terapeutico. Esso ha, infatti, di là da una semplicistica distinzione tra normodotazione e dotazione artefatta (in questo caso le fibre di titanio degli arti “bionici” di Pistorius), sollevato tutta una serie complessa di interrogativi sul rapporto tra Pistorius stesso e gli altri atleti e sulle possibilità performanti che quegli impianti protesici dischiudevano. Pistorius, grazie a quelle fibre di titanio, può correre molto più rapidamente di molti atleti normodotati e questo ingenera un problema, se non altro di carattere tecnico (Pistorius deve gareggiare nell’ambito delle paraolimpiadi o assieme agli atleti, cosiddetti, normodotati?). Ancora, l’uso di caffeina e altri stimolanti naturali è, sotto un certo profilo, spia di una diffusa pratica enhancing (anche se sotterranea per certi versi), che, forse, differisce solo di grado rispetto all’uso di psicofarmaci per fini extra-terapeutici. Alcune popolazioni dell’Amazzonia si caratterizzano per una forma accentuata di iposodia. L’apporto di sodio per aumentare il tasso di quel minerale nel sangue, soprattutto se valutiamo questo fatto alla luce dei canoni culturali autoctoni, dev’essere considerato terapia o enhancement? I concetti di normale e patologico (e giocoforza, quindi, quelli correlati di intervento migliorativo o correttivo) sono, spesso, estremamente sfumati, come abbondantemente mostrato nella letteratura filosofica e medica. La stessa OMS per inquadrare la salute e corrispettivamente, la malattia utilizza un criterio molto ampio[8] che è indice di una difficoltà se non di un problema epistemologicamente delicato. Questa breve parentesi per sottolineare come sia molto difficile dare una precipua definizione di cosa sia una malattia e cosa sia uno stato di salute e, quindi, come sia oltremodo complicato parlare di intervento dal chiaro fine terapeutico o di intervento che produce sul soggetto un miglioramento rispetto a una normodotazione.

Sostenere che l’enhancement sia il veicolo di una diffusa pratica migliorativista oppure che sia il medium della dimensione terapeutica è conseguenza di una considerazione del corpo che le scienze contemporanee sconfessano ampiamente. Il corpo, è il medio per l’attualizzazione di virtualità intrinseche, non un impaccio da superare.

Il transumanesimo, principale difensore del bio-progressismo, presenta nelle sue pieghe diversi punti di patente criticità che, sebbene già emersi in filigrana durante la trattazione a esso riservata nella prima parte del saggio, vanno ora ripresi e sistematicamente analizzati. Il transumanesimo presenta diversi elementi di contatto con la galassia delle prospettive etiche di carattere laico. Esso è un paradigma pro-choice, guarda alla scienza e alla conoscenza come fattori di progresso per l’umanità nel suo complesso, rifiuta qualsiasi principium auctoritatis, si inserisce sulla scia delle concezioni anti-trascendentaliste e secolari, riguarda alla morale come un prodotto umano, si appella alla necessità se non all’auspicabilità del cambiamento quale strumento per l’elevazione della qualità della vita dell’uomo, pensa alla vita stessa come a qualcosa di disponibile alla manipolazione e alla modificabilità. A uno sguardo superficiale potrebbe sembrare un semplice modello di bioetica laica (o più genericamente una semplice prospettiva laica) caratterizzato da particolare enfasi per l’importanza del processo modificativo-ibridativo. Per certi versi lo è. Ma c’è di più. In esso si condensano alcune delle intuizioni del pensiero occidentale circa lo statuto dell’uomo, la sua natura e la sua destinazione ultima. I punti di maggiore densità teorica del transumanesimo, che risultano anche, a nostro avviso, i più discutibili e controversi sono: la riduzione dell’uomo alla sua dimensione superiore (la dimensione cognitiva – in questo rispolverando echi di un certo funzionalismo), la riproposizione di un concetto essenzialista dell’uomo (certamente non fissista in quanto, anzi, il divenire è inteso quale molla che caratterizza la realtà umana nelle sue articolazioni più proprie) e la conseguente spaccatura tra essere autentico e inanutentico (con il primo contrassegnato dalla ricerca del superamento di se stesso attraverso il mezzo tecnologico quale viatico per il raggiungimento della propria essenza), l’idea che attraverso la fusione uomo-mezzo tecnologico, attraverso il perseguimento e il traguardo della singolarità tecnologica si possa invertire la rotta dell’evoluzione (l’evoluzione da naturale diventerebbe così autodiretta), il rifiuto del corpo come dimensione transeunte dell’individualità, la dura avversione a tutte quelle filosofie e a quei modelli teorici che, consolatoriamente, pensano alla dimensione mortale dell’uomo come unica prospettiva possibile per l’esistenza. Infine la proposizione di una vera e propria filosofia della storia tecno-mediata. Ora proveremo a comprendere perché ciascun punto presenta insormontabili criticità.

Nella teoria transumanista si tende a produrre una eliminazione della realtà personale nella sua completezza, riducendola a esercizio di determinate funzioni, prima tra tutte quella razionale. Questo passaggio non è inquadrabile, però, nei termini che alcuni filosofi di area cattolica paventano. Dino Moltisanti e Elena Postigo Solana parlano infatti di un “riduzionismo materialista[9] che caratterizzerebbe le posizioni transumaniste. A nostro avviso andrebbe, tuttavia, posto l’accento sulla peculiarità del materialismo professato dai teorici del transumano, nella misura in cui la non accettazione della dimensione corporea determina una situazione del tutto specifica. Il contrassegno funzionalista si evince in particolar modo nel contesto del dibattito sul mind uploading[10] e nelle precise esternazioni di personaggi come De Grey e Kurtzweil i quali auspicano un superamento progressivo ma radicale della dimensione limitante del corpo con le sue pastoie. Tale sconfessione del corpo, il suo rifiuto o la sua netta denigrazione portano alla riproposizione di modelli essenzialistici che sembravano essere stati espunti dalla trattazione scientifica. Se da un lato infatti il transumanesimo risulta incomprensibile se non associato e interpretato a partire dal processo di secolarizzazione e disincantamento del mondo, dall’altro esso riporta in auge una concezione dell’essere umano nella quale l’idea di un’essenza da difendere o avallare campeggia fortemente. Tale essenza è spesso intravista nella dotazione neurosinaptica dell’uomo facendo, de facto, del presunto riduzionismo materialistico un riduzionismo neuronale. Tali presupposti sono certamente alla base della dicotomia tra autenticità e inautenticità (termini che ricorreranno mutatis mutandis anche nelle proposte critiche dei bio-luddisti) che dovrebbe caratterizzare la condizione umana nel suo complesso. L’essenza dell’uomo è nella sua vocazione all’autotrascendimento (questo fatto potrebbe anche essere condivisibile ed è anzi, da noi stessi, sostanzialmente accettato) ma tale vocazione dovrebbe portare, poi, nei sogni palingenetici dei transumanisti a un superamento generale e completo dell’attuale condizione deficitaria (alias corporea) dell’uomo. Il corpo non è visto, quindi, come la possibilità dell’individuo, il mezzo attraverso cui l’individuo può realizzare se stesso e le proprie virtualità onto-cognitive bensì come l’involucro da rigettare, come il pegno da pagare per agguantare una redenzione materiale dalla materia. Potremmo definire il peculiare materialismo dei transumanisti materialismo escatologico a sottolineare come a partire da una concezione materialistica dell’uomo (che esclude quindi il ricorso esplicativo a cause trascendenti o spirituali) si cerchi di proporre e realizzare una condizione di superamento della materia e della materialità intesa come pastoia, ostacolo. L’uomo raggiunge la sua autenticità nella misura in cui si redime dalla materia e sviluppa o asseconda quegli elementi del sé che richiamano all’autotrascendimento, alla potenza di elaborazione, alla creatività, all’ingegno. Così facendo, però, il transumanesimo si trasforma in una forma moderna di platonismo tecnofilo e, pur proponendosi come filosofia della tecnica in un senso ampio e complessivo, risulta essere ancora imbrigliata da una concezione della tecnica di carattere correttivista (la stessa che possiamo ravvisare in riferimento all’antropologia filosofica gehleniana per la quale l’uomo è un essere deficitario che abbisogna della tecnica quale “seconda natura”). Inoltre, pur partendo nelle sue analisi dalla scienza o da ciò che la scienza potrà, un giorno, elaborare e produrre il transumansesimo si caratterizza per il suo forte accento destinale (il concetto di singolarità tecnologica impiegato a più riprese da Kurtzweil ne è un esempio lampante). Esso, potremmo dire, è una vera e propria filosofia della storia tecno-mediata in cui alla selezione naturale, alla lotteria del caso naturaliter inteso si sostituisce completamente l’azione consapevole dell’uomo che mediante la tecnica supera e direziona l’evoluzione della propria specie. In effetti tali presupposti erano già insiti nelle dichiarazioni preveggenti di Julian Huxley il quale nel 1957 scriveva che bisognava «raggiungere la più completa realizzazione possibile delle potenzialità dell’uomo, come individuo, come comunità e come specie»[11] e continuava rilevando che «la razza umana può, se desidera, trascendere se stessa, non in maniera sporadica, un individuo qui in un modo, un individuo là, in un altro modo, ma nella sua totalità, come umanità»[12]. È proprio questo richiamo alla dimensione specie-specifica che impronta di un carattere meta-storico le riflessioni dei transumanisti. Nella Dichiarazione transumanista, documento del 1999 (riedito nel 2002 e nel 2009) tali accenti sono ripresi con forza. Possiamo infatti leggere che

1) L’umanità sarà profondamente influenzata nel futuro dalla scienza e dalla tecnologia. Prevediamo la possibilità di ampliare il potenziale umano[…].

2) Siamo convinti che il potenziale dell’umanità è ancora sostanzialmente non realizzato[…][13].

 

Umanità, specie, dimensione collettiva si fondono quindi nel contesto di un’impresa di genere in cui la razza umana, grazie alle sue migliori menti, riesce ad affrancarsi dalle catene biologiche e dalla casualità naturale e rispondere con un movimento di autodirezionamento. L’evoluzione autodiretta è la base e il fondamento epistemologico della filosofia della storia transumanista. La direzione dell’umanità verso la singolarità tecnologica (prestando attenzione certamente anche ai rischi che una tale impresa può comportare) è retta dall’idea di un’evoluzione autodiretta nella quale il corpo organico è sostituito progressivamente da un meta-corpo, da un entità puramente neuro-spirituale entro la quale la potentia dell’uomo si possa esprimere libera dagli impedimenti della carne. Ma l’uomo non è forse proprio questa carne dalla quale i transumanisti vorrebbero evadere? Ed è poi possibile trascendere l’evoluzione biologica attraverso la fusione bio-macchinica? L’equivoco in cui i transumanisti incappano è, forse, quello di considerare il corpo un impaccio piuttosto che la dimensione attraverso la quale (o a partire dalla quale) l’uomo attualizza le proprie potenzialità e virtualità intrinseche. Piuttosto che parlare di eliminazione dell’evoluzione naturale sarebbe opportuno parlare di spostamento della pressione selettiva[14]. Il transumanesimo pertanto perde, a nostro avviso, l’occasione di prodursi quale reale filosofia dell’enhancement. Il potenziamento di cui parlano i transumanisti ha un che di mistico, di auratico. Essi partono da un assunto condivisibile (l’uomo è quell’ente che ha una specifica vocazione all’autotrascendimento) e lo spostano su un piano meta-empirico, giungendo alla conclusione, errata, per cui tale auto-trascendimento debba (quasi fosse un imperativo categorico post-kantiano) essere portato alle estreme conseguenze fino al completo “disincarnamento” del soggetto.

 

  1. Enhancement e idea di purezza

L’idea che l’uomo sia un essere imperfetto che si completa attraverso la cultura è profondamente radicata nell’impianto del pensiero occidentale (a partire dalla filosofia platonica). Herder, riprendendo alcune intuizioni platoniche in merito alla deficienza organica dell’uomo, le rilancia nell’antropologia filosofica moderna. Tale assunto sarà, infine, ripreso e radicalizzato dalle teorie di Arnold Gehlen il quale legherà le sue riflessioni a dati biologici evinti dai lavori si Sinderwolf e Bolk. Emblema di questo paradigma sono la figura di Prometeo, nel quale risalta con forza l’idea di un uomo carente, che deve sopperire con la tecnica le sue mancanze strutturali e la macrocategoria degli animali visti, invece, complessivamente, come i depositari di tutte le virtutes naturali (artigli, copertura pilifera, prontezza nei riflessi, etc). Chiaramente, questa prospettiva ci consente di cogliere alcune delle specificità dell’animale-uomo ma ci impedisce di vedere tutta una serie di caratteristiche che soltanto un occhio scarsamente incline alle facili dicotomie può ravvisare. Ebbene questo pensiero assillante dell’Occidente ha ancora il suo peso oggi. Se prendiamo i testi di Umberto Galimberti troveremo dei riferimenti espliciti all’antropologia della tecnica e alla faustiana filosofia dell’azione di Arnold Gehlen. Galimberti nota che «l’uomo per la carenza della sua dotazione istintuale, può vivere solo grazie alla sua azione, che da subito approda a quelle procedure tecniche che ritagliano, nell’enigma del mondo, un mondo per l’uomo»[15]. Chiaramente occhieggiare a queste assunzioni significa giocoforza concedere credito a forme larvate di creazionismo in quanto se fosse vero che l’uomo è sempre stato l’animale nudo par excellance ciò vorrebbe dire che c’è stato un momento in cui egli si è trovato in balia della realtà, senza difese. L’uomo secondo questa prospettiva non sarebbe approdato agli esiti culturali noti, bensì sarebbe stato da sempre tecnicamente pre-disposto. Certo il rifiuto dell’innatismo che è sotteso a queste teorie si poteva giustificare se partiamo da una concettualizzazione dell’innato come pre-deterministico, rigidamente codificato, non svincolabile. L’innato, e questa è l’idea nuova che da molti ambiti di studio sembra emergere con forza, va invece riguardato come potenzialità, virtualità da attualizzare.

Oggi studiosi come Edelman hanno chiarito gran parte dei processi di epigenesi e gettato una nuova luce sullo sviluppo diacronico dell’identità neurale e di altri tessuti, come il sistema immunitario. Ma è altrettanto chiaro che il range di virtualità che consente quello straordinario processo di epigenesi che è lo sviluppo di un cervello umano si realizza perché esiste un sostrato istruito geneticamente a rendere possibile tale tipo di sviluppo[16].

 

Questo passaggio risulta ancora una volta decisivo per la delineazione di un quadro concettuale adeguato alla comprensione dei processi enhancing. Torniamo per un attimo all’argomentare gehleniano. Certamente la grande eredità dell’antropologo e filosofo tedesco sta nell’aver proposto e formulato un’idea di umanità non statica, non cristallizzata, ma magmatica nelle diverse interazioni con il mondo e, ancora, nella convinzione che lo sviluppo dell’agire tecnologico determinerebbe un vero e proprio slittamento di partecipazione corporea, ossia un esonero di funzioni precedentemente (mal)assorte dall’organico e un’enfatizzazione delle superiori capacità cognitive, soprattutto simboliche[17].

La teoria dell’incompletezza può quindi spiegare la cultura come costante, ma è visibilmente in panne quando deve rendere ragione della pluralità culturale[18].

 

Se infatti, come possiamo facilmente constatare, la cultura appare quale risposta diversificata alle differenti sollecitazioni ambientali, allora è certamente preferibile approcciare il palese pluralismo nelle culture umane attraverso la teoria della ridondanza più che della carenza prerequisitiva. Alla posizione herderiano-gehleniana fa da contrappunto l’idea che non tanto realmente si dà una carenza organica dell’uomo quanto il fatto che l’uomo evolvendosi culturalmente percepisce sempre più se stesso in quanto carente e dipendente dal mezzo tecnologico[19].

Questa carenza sbandierata a mio avviso nasconde un inganno, anche perché è proprio nel segno di una carenza originale che si attualizza una sorta di percorso epico per l’uomo […]. Il concetto di incompletezza presuppone un concetto di perfezione ideale, un concetto di stampo platonico e fissista che mal si accorda con le teorie evoluzionistiche, poiché solo dal confronto con la perfezione ideale può sortire la percezione di incompletezza[20].

 

Ulteriore riflessione a completamento di quanto, sulla scorta di Roberto Marchesini stiamo sostenendo, è il concetto di slittamento della pressione selettiva. In altri termini il meticciamento dell’uomo con la tecnologia, con il mezzo esterno è funzionale a spostare il carico che l’organismo deve sopportare nell’interazione con l’ambiente. Un esempio in questa direzione può essere, come precedentemente accennato, l’impiego degli antibiotici i quali implementano le capacità di carico del sistema immunitario di un organismo dato. In questo senso si può dire che slittamento della pressione selettiva fa tutt’uno con ibridazione. L’uomo non agisce tecnicamente per incrementare le sue capacità di performance, bensì si ibrida con l’alterità in quanto la sua natura è cooperativa, non auto-centrata, non autoreferenziale. Infine anche l’idea che l’uomo sia costituito da una serie di carenze strutturali e organiche va, almeno nelle sue linee essenziali, sfatata e superata. Potremmo esemplificare questo concetto dicendo che l’uomo è esattamente quello che è. Ma leggiamo quello che Marchesini scrive a tal proposito sostenendo che

Il dibattito sul corredo istintivo dell’uomo dovrebbe essere completamente superato dalle nuove conoscenze in ambito neuroscientifico e tuttavia c’è chi ancora si ostina a utilizzare vecchie antinomie – come innato vs appreso o come istintivo vs correlato – nella definizione del comportamento umano e animale[21].

 

Marchesini, quindi, propone di abbandonare queste griglie interpretative e accogliere concetti e modelli eidetici più proficui, che riescano a mettere in luce la complessità del vivente, senza imbrigliarlo in schematismi eccessivamente rigidi:

Invece di termini come istinto, innato, appreso sarebbe molto più produttivo parlare di complessità ontogenetica, ovvero di attualizzazione di virtualità biologica nelle diverse vocazioni di sviluppo[22].

 

  1. La cultura: un sistema instabile e aperto

La cultura rappresenta il principale strumento di apertura dell’uomo all’alterità. L’essere umano si caratterizza certamente per il suo elevato bisogno e la sua dipendenza assoluta dalle cure parentali, per i suoi spiccati caratteri neotenici, per la necessità di tempi di accudimento prolungati. Tutti questi elementi giocano un ruolo fondamentale nella definizione della cultura come sistema aperto. L’uomo, più precisamente, non è autoriferito, egli viene letteralmente educato dal mondo esterno.

Di fatto è questa ibridazione, frutto di processi seriali di coniugazione, a rendere l’individuo instabile ontologicamente, etero riferito, ed etero-organizzato, dipendente e affascinato dall’alterità, in un continuo stato di non-equilibrio creativo e capace di partecipare a eventi del tutto esterni[23].

 

Questa è la ragione per cui sembra poco plausibile, se non improbabile proporre un paradigma discontinuista nella declinazione delle nuove tecnologie rispetto al loro impatto sul soma. C’è un sottile fil rouge che unisce queste tecnologie e le tecnologie l’uomo impiegava in passato. Basti fare una riflessione sulla prima forma tecnica dell’uomo: l’impiego di strumenti. In effetti usare uno strumento significa, concretamente, «metamorfizzare la performatività del corpo e quindi le caratteristiche del corpo stesso». Perciò avviene che lo strumento, letteralmente, diventi tutt’uno con il corpo, si incarni. Questo processo evidentemente si traduce al livello fenotipico, necessitando l’iscrizione genetica di tempi molto più lunghi. In ogni caso dalla presente riflessione emergono con chiarezza due dati. Il primo è che l’intero processo di evoluzione umana si dipana sul registro dell’ibridazione più che su quello dell’autarchia; in secondo luogo che i processi di esternalizzazione che coinvolgono l’uomo sono definibili come processi che producono retroazioni sulla soggettività stessa creando un vero e proprio circuito o circolo di azioni e retro-azioni tali da determinare un circolo neurobiologico. La tecnologia, ma più in generale l’alterità, sono considerabili come momenti o pezzi di una soggettività e di una corporeità estesi, allargati, in cui i confini della carne sono soltanto occasioni da superare per percorsi plurimi di meticciamento e ibridazione.

 

 

  1. Superamento dei modelli dicotomici

Il meticciamento sempre più massiccio e, potremmo dire, sempre più consapevole dell’uomo con la tecnologia, portano a una progressiva riscrittura delle mappe concettuali legate all’antroposfera. L’uomo viene riletto innanzitutto alla luce del superamento dello schema dicotomico che oppone o meglio opponeva natura e cultura. Un punto d’inciampo sul quale si infrangono le pretese concettuali dei transumanisti è quello del superamento dell’evoluzione biologica. Per quanto sia ancora aperta la discussione intorno a quali dovrebbero essere o sono i reali meccanismi alla base dell’evoluzione dell’uomo, va comunque rilevato che parlare di superamento dell’evoluzione biologica pone una serie di perplessità da svariati punti di vista[24]. Tale opposizione trascina con sé tutta un’altra serie di antitesi innato vs acquisito, naturale vs artificiale, etc. Ora se le scienze coeve hanno un merito ci sembra essere proprio quello di portare alle estreme conseguenze il dettato darwiniano. Seguendo alcuni passaggi dell’argomentazione di Andrea Parravicini nel suo testo La mente di Darwin possiamo rilevare i due punti seguenti. Darwinismo significa innanzitutto distruzione o contributo decisivo alla distruzione dell’essenzialismo nella spiegazione intorno al vivente, significa fare dell’uomo (così come degli altri animali) un prodotto della storia, della mutazione, del divenire. Significa fare dell’uomo un ente costruito dalle forze cieche della natura. In questo scorgiamo un grandioso progetto di deplatonizzazione del pensiero occidentale. In seconda battuta dobbiamo però legare questo primo passaggio, antiessenzialismo di fondo della concezione darwiniana della vita, a un’idea forse ancora più radicale. L’uomo non soltanto è privo di una natura fissa, immutabile, non soltanto quindi è privo di un’essenza. Egli è qualcosa di fabbricato, costruito, artificiale, programmabile. Se la natura per così dire agisce secondo la regola della fabbrilità allora l’uomo stesso, compreso questo meccanismo, può intervenire su di esso consapevolmente e autoprogrammarsi (dove per autoprogrammazione si deve intendere, non alla maniera dei trasumanasti superamento dei meccanismi della selezione naturale, ma continuazione di detti meccanismi a un differente livello).

 

  1. Il mito della purezza

Seguendo da vicino le argomentazioni di Marchesini si può rilevare che l’uomo avrebbe fin ora ragionato sulla base di un forte e marcato antropocentrismo epistemologico, antropocentrismo che possiamo facilmente individuare e tradurre nel tentativo sempre in agguato di mettere in atto percorsi di abluzione e purificazione spirituale per l’uomo, percorsi che lo distanzino quanto più possibile da qualsiasi alterità non-umana. L’incontro con l’elemento esterno viene guardato come qualcosa da rifuggire invece che come occasione di opportunità. Se, al contrario, cadono le pregiudiziali legate a un’idea di perfezione primigenia e di ontologia compiuta, l’uomo mostra la sua vera natura, se ancora conserva un significato questo termine. Egli è inquadrato così un ente in compimento dove le mutazioni e ibridazioni, le infezioni e invasioni della kosmopolis umana perdono il loro carattere di pericolo e divengono opportunità. Questo è un altro passaggio che teniamo particolarmente a sottolineare. L’incrocio della soggettività con le nuove tecnologie, lungi dal produrre fenomeni di omologazione e uniformazione dovrebbe fungere da viatico per l’apertura di uno spazio di perfusività estremo. Vogliamo dire che le tecnologie nel momento in cui sposano la corporeità lo fanno in una dimensione che non è affatto quella della tendenza alla de-corporeizzazione bensì in un registro ibridativo-perfusivo che è piuttosto sinonimo di ri-programmazione. È questo uno dei principali motivi per cui le coeve scienze biotecnologiche non sfuggono, anzi sono uno dei momenti più chiari, della transizione dalla modernità alla post-modernità. Seguendo in parte le analisi di Jameson riportate nel quadro di un’analisi complessiva delle nuove forme che il cinema contemporaneo sta assumendo condotta da Gianni Canova, possiamo individuare alcune caratteristiche del post-moderno che sono così elencate: in primo luogo l’ibridismo. Jameson legge l’ibridismo quale fenomeno connesso all’assottigliamento sempre più marcato delle differenze tra cultura d’èlite e cultura di massa[25]. In effetti se ci distanziamo da un concetto di identità autoreferenziale, nel quale si pone in essere un progetto di purificazione/isolamento/cristallizzazione ritroviamo l’ibrido, inteso come ente non autoreferenziale, che ha contratto dei debiti effettivi con l’alterità, che non può dirsi identico a se medesimo ma deve essere ricondotto a una logica non-binaria, scompositiva, non lineare. È precisamente quello che avviene nel momento in cui il soggetto diventa un prolungamento del mezzo tecnologico e il mezzo tecnologico diventa un prolungamento del soggetto (la situazione attuale ci insegna proprio questo). Il secondo punto segnalato da Jameson è la frammentarietà. Certamente uno dei punti di maggiore interesse nella fase mutazionale del post-modernismo appare essere proprio quella della perdita generale di interesse per il progetto unitarista del modernismo. Come l’epoca moderna è contrassegnata dalla spasmodica ricerca di un centro d’unità direzionale per l’uomo, il cosmo, la vita, l’intera realtà, il post-moderno assegna un ruolo chiave al frammento, a ciò che è decentrato. Le nuove tecnologie agiscono proprio sulla base di questo presupposto. Pensiamo solo per fare un esempio ai farmaci nootropici o agli psicofarmaci. Il loro impiego fuori dal contesto medico è possibile nella misura in cui l’uomo non è più riguardato come un tutto bensì come parte, insieme di parti, se non addirittura assemblaggio di agenzie microscopiche, microagenzie neurali, molecolari e atomiche. In terzo luogo, e qui eccediamo dall’analisi jamesoniana, la perfusività del tecnologico che diventa sempre più capillare e silenziosq nelle pieghe della vita individuale. Le nanotecnologie in maniera vistosa si pongono come culmine di questo processo di internalizzazione del tecnologico. La tecnologia si fa silenziosa, invisibile. Non siamo più, qui, nel registro della tecnologia che si giustappone al corpo ma nel registro della perfusività, specificazione ulteriore del regime dell’ibridazione.

Difatti, se il secolo XX è stato caratterizzato dalla tecnologia inorganica, frutto della rivoluzione della fisica nella prima metà del Novecento, il XXI secolo si presenta come l’era del biotech, esplosione di una neobiologia perfezionata e applicativa, capace di modificare alla base il profilo del nostro quotidiano. L’argine che separa il magma biotecnologico che si va profilando nei decenni a venire dall’universo delle macchine del secolo che si chiude può essere individuato nella caduta della vecchia opposizione dicotomica tra realtà manipolabile (l’inorganico) e sfera del naturale, a favore di un continuum ibridativo tra le diverse realtà[26].

 

Il discorso intorno allo human enhancement è ancora lungi dall’essere esaurito e rappresenta l’inizio di un percorso teoretico, per certi versi, ancora tutto da scrivere/ri-scrivere.

Il presente contributo ha voluto rappresentare solo un piccolo tassello (almeno è quanto ci auguriamo) in questa direzione.


[1] V. Franco, Bioetica e procreazione assistita: le politiche della vita tra libertà e responsabilità, Donzelli Editore, Roma 2005, p. 23.

[2] P. Singer, Etica pratica (1979), tr. it. Liguori, Napoli 1988, p. 123.

[3] M. Fonte, Organismi geneticamente modificati: monopolio e diritti, FrancoAngeli, Roma 2004, p. 23.

[4] G. Francescalto, A. P. Scanio, Il principio di precauzione, Jaka Book, Milano 2004, p. 23.

[5] È su di esso in effetti che si basano le sperimentazioni cliniche randomizzate a doppio cieco. Un farmaco, ad esempio, prima di poter essere immesso sul mercato deve superare delle fasi sperimentali che consentano di acclararne la sicurezza per la salute umana e l’efficacia.

[6] Cfr. J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (2001), tr. it. Einaudi, Torino 2002.

[7] M. Bertolaso, Le human enhancement technologies e l’irriducibilità della complessità biologica in Migliorare l’uomo? La sfida etica dell’enhancement, a cura di S. Kampowski e D. Moltisanti, Edizioni CantagalliSiena 2011, p. 35 sgg.

[8] La definizione che l’OMS impiega per definire la salute è: stato di benessere fisico, psicologico e sociale.

[9] D. Moltisanti, E. P. Solana, Transumanesimo: un’analisi antropologica ed etica in Migliorare l’uomo, cit., pp. 212 ss.

[10] Per una trattazione del problema cfr. tra gli altri G. Vatinno, Il transumanesimo. Una nuova filosofia per l’uomo del XXI secolo, Armando Editore, Roma 2010, p. 37 sgg.

[11] J. Huxley, New bottles for new wine in www.transhumanism.org (trad. mia).

[12] Ibid.

[13] Cfr. www.transumanisti.it.

[14] L’esempio classico, che viene portato per esemplificare il senso dell’espressione “spostamento della pressione selettiva”, è quello dell’effetto che gli antibiotici hanno avuto in relazione al nostro sistema immunitario. Se la pressione selettiva era esercitata sul sistema immunitario da parte, ad esempio, degli agenti infettivi, dopo l’introduzione degli antibiotici (e, di altri farmaci come i sulfamidici) essa si è spostata sul (non separabile de facto) sistema immunitario+antibiosi indotta dai farmaci. Questo evento rappresenta, appunto, uno spostamento della pressione selettiva, non un annullamento della stessa.

[15]U. Galimberti, Psiche e tecne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2000, p. 16.

[16] R. Marchesini, Posthuman. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 17.

[17] Ibid., p. 20.

[18] Ibid., p 22.

[19] Massimo Riva nel suo Pinocchio digitale. Postumanesimo e iper-romanzo, Franco Angeli, Milano 2012 scrive «che cosa significa oggi l’umano all’insegna dell’incompletezza, sia tecnologica che etica e culturale? Di che genere di incompletezza costitutiva parliamo? È questo un pensiero sostenibile? O si tratta, appunto, di una fallacia o aporia costitutiva della tradizione di pensiero alla quale pur ci rifacciamo? E se le cose stanno così, non dobbiamo rivedere criticamente un modo di pensare l’incompletezza umana che, pur affondando le sue radici nella tradizione umanistica, può impedirci di affrontare con la necessaria lucidità e apertura le sfide del pensiero contemporaneo?», p. 25.

[20] Ibid., p. 24.

[21] R. Marchesini, op. cit., p. 37.

[22] Ibid.

[23] Ibid., p. 63.

[24] Non solo costringe alla riproposizione quand’anche in chiave ipotetica del creazionismo ma impedisce di comprendere correttamente l’insieme dei processi entro i quali l’uomo si dipana.

[25] G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema, Bompiani, Milano 2000, p. 11 sgg.

[26] R. Marchesini, op. cit., p. 204.

 

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