Autore
Luca Lo Sapio
Università degli Studi di Napoli Federico II
dottorando di ricerca in Bioetica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II
Indice
- Engelhardt e i Viaggi in Italia
- Riflessioni a margine
- Lo spazio simbolico come possibile uscita dall’impasse
S&F_n. 07_2012
- Engelhardt e i Viaggi in Italia
L’idea genitrice dell’ultima fatica del bioeticista americano Tristram von Engelhardt jr. Viaggi in Italia «nasce per caso durante il viaggio in treno da Milano a Firenze nella tarda mattina del 26 gennaio 2010. Engelhardt aveva tenuto una lezione a Milano organizzata dal Centro Studi Politeia e nel tragitto per Firenze ricordava alla moglie Susan di essere stato invitato per la prima volta a tenere una conferenza pubblica in Italia sempre da Politeia nel 1991: quasi vent’anni prima. È bastata la menzione delle date che la magia, il fascino e il tormento dei numeri hanno fatto il resto, sollecitando la celebrazione della scadenza nel 2011 dei due decenni di ricorrente presenza nella penisola con un volume che raccogliesse i suoi vari interventi apparsi in italiano o fatti in Italia, così da rendere più compatto e visibile il suo contributo alla cultura italiana»[1]. Il richiamo alla topica del viaggio non risulta puramente esornativa, ma funge da attrattore concettuale decisivo. Il Viaggio in Italia del più noto Johann Wolfgang von Goethe sibila tra le righe del volume engelhardtiano e sottolinea il carattere di presa di coscienza di un mutamento radicale, di un sovvertimento generale delle coordinate direttive del pensiero occidentale. L’Italia, allora, diviene quasi la cifra spirituale più che geografica dei sommovimenti che sconquassano lo Europäische Geist. Tristram scrive nell’Introduzione ai suoi Viaggi in Italia, riportando alla mente il lontano 1954, anno in cui visitò per la prima volta il nostro Paese, che in quel momento non aveva alcun sentore «del fatto che la sostanza della cultura europea nel volgere di pochi decenni sarebbe come crollata su se stessa»[2]. Nel 1954 infatti l’Italia era ancora un paese marcatamente cattolico:
A metà degli anni 50 c’erano ancora un fitto tessuto di esperienze comuni e un discorso dominanti sostenuti da tutta una serie di certezze metafisiche: una situazione che sarebbe venuta decisamente meno nel corso degli anni 80 […]. La risposta del cattolicesimo romano al collasso della cultura cristiana occidentale chiaramente non riuscì a rimediare alla situazione. È il caso del tentativo di Giovanni Paolo II di rievangelizzare l’Europa Occidentale chiedendo coraggiosamente ai filosofi di sostenere una ratio ancorata alla metafisica per ristabilire la fede nel cristianesimo occidentale[3].
Il cattolicesimo romano è il frutto complesso della confluenza di forze culturali variegate e la sua principale eredità è quella di aver fornito argomentazioni a sostegno di un intimo legame non solo tra fede e ragione ma anche tra ragione e morale e tra ragione ed essere. Tommaso d’Aquino rappresenta in forma compiuta la veracità di tali nessi istituendo un intreccio indissolubile tra lex divina, lex naturale e lex humana. Successivamente Kant, in questo erede filosofico dell’Aquinate, ha contribuito alla formulazione di un paradigma dell’etica volto a superare i pluralismi delle concezioni morali. Tale castello speculativo si è però frantumato, sicché appare evidente che l’unico appiglio disponibile per il discorso etico rimane quello dell’autorità formale derivante dal libero consenso che stranieri morali possono fornire al fine della cooperazione inter-individuale. Le riflessioni del bioeticista texano si snodano a partire da tali premesse concettuali. Seguendo le indicazioni che lo stesso Engelhardt fornisce a conclusione dell’Introduzione al suo testo possiamo suddividere il volume in cinque parti: la prima raccoglie una serie articolata di saggi che hanno come oggetto l’indagine dei nessi tra teologia e filosofia; la seconda affronta questioni concettuali generali (le basi concettuali della bioetica); la terza comprende articoli che vertono su tematiche bioetiche specifiche; la quarta ritorna su talune questioni di ordine teorico considerate dall’autore della massima rilevanza. Il volume si conclude con alcune brevi interviste e riflessioni. I capitoli della prima sezione ripercorrono con incisività e chiarezza espositiva l’itinerario che ha condotto alla presa di coscienza da parte della società post-secolare dell’Occidente post-Cristiano del fallimento e superamento del progetto di elaborazione di una morale canonica basata sulla presunta capacità della ratio di rinvenire principi direttivi universali e necessari (nonché necessitanti per tutti).
La ragione non è assoluta e la teologia ha perso qualsiasi mordente nell’impresa di attribuire senso all’esistente. Possiamo sintetizzare il quadro della modernità con la frase, lapidaria quanto esplicativa: cerchiamo dio e troviamo l’abisso. La modernità quindi è il campo di incontro/scontro di plurivoche soggettività morali che non possono vincolare il loro agire ad alcun principio universale e necessario generalmente e pubblicamente riconosciuto. La terra che ci troviamo ad abitare è quella degli stranieri morali, individui che differiscono strutturalmente e profondamente per la propria visione del mondo e per le proprie assunzioni morali e metafisiche[4]. A tale concetto Engelhardt affianca quello di amici morali (espressioni queste già presenti nel più noto Manuale di bioetica), comunità più o meno ampie di persone accomunate da medesime prospettive morali e ontologiche. «In queste circostanze lo stato non è in grado di fornire una morale sostanziale in cui tutti possano riconoscersi. Può invece assicurare una res publica attraverso la quale sia possibile impiegare le risorse comuni e proteggere gli individui»[5]. Di fronte alla molteplicità dei paradigmi morali in gioco l’attestazione di una prospettiva omnivincolante intorno ai doveri che individui culturalmente ed eticamente distanti dovrebbero perseguire si sfalda senza possibilità d’appello. Questa la ragione per la quale Engelhardt, conscio dell’impossibilità di legare la formulazione di una bioetica laica a un utopico programma filo-illuminista, cede alla più modesta e minimale, ma non meno cogente, intentio di delineare le caratteristiche dell’unica bioetica laica ammissibile nelle odierne società post-secolari: una bioetica senza contenuto, dal carattere segnatamente formale, il cui punto d’appoggio sia l’autorità del consenso tra persone capaci di pattuire accordi. Poste le premesse per l’inquadramento della conditio moderna Engelhardt passa a tratteggiare le basi concettuali della bioetica[6]. Il criterio dirimente a partire dal quale proporre una condivisibile bioetica laica per le civiltà del XXI secolo è quello di fare affidamento sul concetto di persona[7]. Tale concetto, di fronte all’impossibilità di elaborare un contenuto morale canonico, sarà il più adatto a rinvenire un fondamento (fondamento non fondativo) per l’autorità morale. Questo significa che la morale adatta al nostro mondo disincantato non può che darsi come morale procedurale sostenuta dal principio di autonomia[8] come solo strumento per il riconoscimento del pluralismo culturale e delle diversità sostanziali tra individui[9]. Una morale procedurale è la sola in grado di fronteggiare le sfide indicibili a cui le moderne tecniche mediche e gli avanzamenti in ambito biotecnologico mettono capo, sfide che concernono le varie percezioni morali dei soggetti coinvolti nelle scelte bio-mediche[10]. Dopo una breve ricognizione intorno al principio responsabilità di Jonas quale tentativo di vincolare, in forma sostanziale, i soggetti al rispetto di massime valide canonicamente[11] Engelhardt, nella terza sezione del volume, si misura con il problema dell’effettiva applicazione della bioetica procedurale a specifiche questioni quali il tema dell’assistenza sanitaria e della distribuzione delle risorse, il tema dell’eutanasia e dei trattamenti sanitari in età geriatrica, le decisioni da prendere nelle fasi del fine-vita, la problematica della mercificazione del corpo[12]. In ognuno di questi cimenti il filosofo texano riesce a mettere in luce le difficoltà intrinseche a qualsiasi approccio che voglia dichiararsi sostanziale, denunciando con forza argomentativa e riferimenti puntuali la necessità di ripensare la bioetica al di fuori di illusioni principilistiche o desideri fondativi incontrovertibili. Le considerazioni fin qui svolte rendono mature le valutazioni tracciate nella quarta sezione del testo ove la riflessione sembra aprirsi alla dimensione dello spazio pubblico, oggettivo, ancora più precisamente statuale[13]. Qui il nostro autore è chiaro nel sottolineare la necessità di una configurazione laica e procedural-neutralista degli odierni stati post-secolari, i quali devono ça va sans dir, rinunciare a qualsiasi pretesa fondativa o all’imposizione di una specifica prospettiva morale[14]. La sezione riserva anche puntuali considerazioni intorno all’auspicabilità di una legislazione leggera che non costringa gli individui entro maglie decisionali troppo strette in merito a questioni riguardanti se stessi e la proprie esistenze. L’ultima sezione del testo contiene la raccolta di alcune interviste rilasciate in Italia da Engelhardt a partire dal 1991 e ripercorre succintamente le tematiche delineate nel corso dei vari saggi del volume. Viaggi in Italia vuole essere quindi un sentiero della e per la modernità, un sentiero che aggiunge un tassello ulteriore alla letteratura engelhardtiana presente nel nostro Paese, letteratura che rende la proposta filosofica e bioetica del Texano una voce essenziale del dibattito culturale ed etico contemporaneo.
- Riflessioni a margine
Ma dobbiamo necessariamente abbandonare qualsiasi ideale normativo a favore di una bioetica e di una morale disincarnate? Questo risulta essere l’unico inevitabile destino culturale al quale siamo costretti per giustificare e rendere attuabile la convivenza tra soggettività diametralmente distanti? Le riflessioni di Engelhardt risultano radicali e sollecitano a una riconsiderazione complessiva del Tì èsti della bioetica, una disciplina che nasce con una chiara aspirazione universalistica, quale erede di una ratio illuministica e succedanea di una teologia dell’etica medica in evidente affanno di fronte agli avanzamenti della scienza. Tipico riferimento a questo proposito è la dottrina principilista di Tom Beauchamp e James Childress. Per principilismo bisogna intendere la specifica prospettiva bioetica secondo la quale le controversie e i dilemmi morali vanno risolti e appianati attraverso la ricerca e il rinvenimento di principi direttivi canonici e onnivincolanti. Nel 1979 Beauchamp e Childress pubblicano Principles of Biomedical Ethics[15] testo nel quale sono indicati i punti cardinali della teoria principilista. Innanzitutto essi rifiutano il monismo a favore di una concezione pluralistica. E forniscono l’elenco di quattro gruppi di principi: rispetto dell’autonomia; non maleficenza; beneficenza o beneficità e giustizia[16]. Ma, e qui l’analisi critica di Engelhardt risulta implacabile, essendosi sgretolato il progetto illuministico di una ratio in grado di agguantare principi universali e necessari, non è concepibile o razionalmente giustificabile l’elencazione di linee guida canoniche per la condotta biomedica. L’esempio lampante può venire dalla considerazione ravvicinata del principio di autonomia che Beuchamp e Childress pongono, a volte in maniera più esplicita altre meno, quale principium principiorum della normatività bioetica. Ebbene se solo vogliamo soffermarci sul significato da attribuire al termine autonomia ci vedremo proiettati in una galassia considerevole di accezioni distinte. L’autonomia può essere la libertà di agire secondo la legge morale (prospettiva kantiana); può essere la libertà di agire senza coercizioni, oppure la libertà di scegliere senza manipolazioni. Pertanto come sottolinea Engelhardt,
la conseguenza è che ogni discussione sull’autonomia deve prestare la massima attenzione alle ambiguità che potrebbero discendere dalla varietà delle accezioni che il termine può assumere nei vari contesti argomentativi[17].
L’esempio della diversità di fondo nella signifiicatio del principle of autonomy può essere facilmente riprodotta rispetto a un qualsiasi altro concetto di uso più o meno comune in ambito bioetico nonché morale. Se parliamo di consenso informato avremo la prospettiva tipica dei sostenitori del paternalismo medico (per i quali il consenso informato andrebbe sempre gestito cum grano salis dal medico interessato), quella dei fautori del consenso familiare che si muoveranno entro le maglie di una bioetica confuciana (molto diffusa nei paesi orientali) e quella dei promotori del consenso informato su base individuale[18]. Fuor di allusione e in senso più generale la bioetica intesa come disciplina in grado, attraverso la forza dell’argomentatio, di riprodurre principi canonici è una vana illusione che si sfalda davanti all’irriducibile pluralismo morale a cui la modernità ci abbandona. I limiti della bioetica vanno pertanto presi sul serio: la peculiare forma che può assumere, per muoversi senza intoppi eccessivi nelle società post-secolari e post-tradizionaliste del XXI secolo è quella di una disciplina procedurale, di un sapere formale privo di contenuto normativo specifico. Essa viene a essere una sorta di meta-etica analitica, la cui funzione è quella di indagare le varie specificazioni possibili del discorso bioetico, senza parteggiare effettivamente per alcuno di essi. La sua vocazione e la sua caratura saranno al di là dell’utilitarismo (Singer), del welfarismo (Nausbaum, Sen), del consequenzialismo oltre che di forme sostanzialistiche quali il personalismo ontologicamente fondato. Tristram von Engelhardt non può essere annoverato, quindi, tra i sostenitori della bioetica laica, se per bioetica laica intendiamo una specifica forma di riflessione bioetica, che mediante gli strumenti dell’argomentazione razionale, pretende di fornire norme da rispettare e riconoscere o, in ogni caso, contenuti definiti da porre alla base di una altrettanto definita dottrina morale. Risulta pertanto fuorviante leggere le analisi engelhardtiane quali esempi fulgidi di bioetica laica[19]. Giovanni Fornero nel testo, ormai divenuto famoso Bioetica laica e bioetica cattolica inserisce Engelhardt tra i sostenitori della bioetica laica e lo descrive come filosofo di ispirazione contrattualista[20]. Ma il contrattualismo di Engelhardt, se di contrattualismo possiamo parlare, è caratterizzato dalla sua mera forma procedurale, è un contratto senza contenuto, è un documento pattizio, un accordo stipulato tra le parti, in cui non si dà che la mera forma dell’accordo stesso. Quella di Engelhadt è una sorta di morale del viandante la quale comprende, svanito l’orizzonte direttivo e lo spazio ontologico di significazione, che nulla può offrirsi più come oggettivo, pubblicamente riconosciuto. Essa è la voce post-moderna che si leva sulle rovine del progetto illuministico, è una voce che dice soltanto la possibilità di cercare strumenti per una co-esistenza pacifica tra stranieri morali i quali sono separati dall’abisso delle rispettive verità e visioni del mondo.
- Lo spazio simbolico come possibile uscita dall’impasse
Nelle maglie della riflessione engelhardtiana non sembra esserci spazio per una via d’uscita che abbia qualche valore definito (nel senso di contenutisticamente fondato) e le soggettività morali in gioco sembrano essere monadi la cui unica possibilità di contatto è l’accordo tra le parti (egli parla di persone nello specifico). Ora la posizione di Engelhardt coglie una parte considerevole della verità intorno allo statuto delle odierne società occidentali. Basti pensare, per rimanere nella casistica italiana, alle voci dissonanti, diversificate, plurali, in perenne contrasto e irredimibile distanza reciproca che si sono levate intorno al caso celebre di Eluana Englaro. Il paradigma dei cosiddetti pro-life (i sostenitori della vita senza se e senza ma, anche della vita al suo puro stato biologico) e quello dei cosiddetti pro-choice (i sostenitori della qualità della vita e del rifiuto del concetto puramente biologico di esistenza) erano visibilmente incompatibili. Eppure al di là di questo esempio potremmo riferirci anche ad altri ambiti: quello delle carte internazionali del diritto mi sembra il più interessante. Nelle carte internazionali del diritto si cerca di mettere in scena proprio ciò che Engelhardt ritiene impossibile e contraddittorio: un accordo che non abbia una mera forma procedurale ma che sia anche informato con dei contenuti specifici. Le carte internazionali del diritto non devono essere lette, come anche qualcuno ha proposto di fare, quali elementi che metterebbero capo a una sorta di neo-giusnaturalismo[21]. Esse vanno interpretate, invece, come il prodotto, l’oggettivazione di una riflessione corale, che ha trovato un accordo sui contenuti in base a riferimenti (non sovratemporali) storici ovvero in base alla considerazione dei percorsi filosofici, delle riflessioni giuridiche (a loro volta oggettivate in prodotti quali le costituzioni statuali), delle scoperte scientifiche, dei paradigmi socio-politici ed economici. Potremmo dire, per riprendere una nota teoria di Popper ed Eccles[22], che il mondo 1 e il mondo 2 (cioè il mondo degli oggetti fisici e degli stati psicologici) non può esistere se non in connessione al mondo 3 (il mondo delle produzioni umane esternalizzate, quali possono essere le dottrine filosofiche, le carte del diritto, le opere d’arte, etc). Le monadi engelhardtiane (alias persone) non esistono in realtà al di fuori di uno spazio simbolico che le avvolge, le informa, le rende partecipi di un discorso collettivo, sovrapersonale, metaindividuale[23]. Le loro visioni del mondo si strutturano non solipsisticamente ma entro un quadro di fondo a cui partecipano anche le altre individualità, le altre soggettività. Tale quadro di fondo può costituire un primo strumento concettuale, un primo riferimento specifico, certamente da approfondire e ulteriormente sviluppare, per superare quell’impasse a cui la l’analisi del filosofo texano sembra destinare l’umanità del XXI secolo.
[1] Maurizio Mori, Annunciare Dio agli stranieri morali nel rispetto della libertà di tutti: un’introduzione alla lettura di Engelhardt, in T. von Engelhardt, Viaggi in Italia, a cura di R. Rini, M. Mori, Le Lettere, Firenze 2011, p. 9.
[2] T. von Engelhardt, op. cit., p. 35.
[3] Ibid., pp. 37-38.
[4] Cfr. ibid., p. 80.
[5] Ibid., p. 81.
[6] Cfr. ibid., p. 119.
[7] Ibid., pp. 121-136.
[8] Il principio di autonomia di cui parla Engelhardt non ha nulla a che vedere con il principio di cui parlano i principilisti, né con quello di cui parlano i deontologisti, gli utilitaristi o i welfaristi bensì si configura quale principio semplicemente formale, privo di contenuto. Esso vale come semplice rimando alla strutturale “natura” autoreferenziale delle scelte morali soggettive, le quali nel regno degli stranieri morali (uso quest’espressione in contrasto con il concetto kantiano di regno dei fini, nel quale trova piena realizzazione la coincidentia tra virtus e felicitas, sulla base di una idea di Bene che evidentemente è crollata totalmente nella modernità post-illuministica) non possono che essere espressione della peculiare visione del mondo di colui che la esprime.
[9] Ibid., pp. 142-156.
[10] Ibid., pp. 176-211.
[11] Ibid., pp. 212-229.
[12] Ibid., pp. 233-297.
[13] Questo per Engelhardt non vuol dire recupero di una oggettività sovra-individuale che sia anche determinata contenutisticamente (non ci muoviamo di certo entro una prospettiva di stampo neo-hegeliano in cui l’ethos si realizza fattivamente nello spirito oggettivo che, abbandonato il formalismo della morale kantiana, acquisisce piena e reale determinazione nelle istituzioni) bensì richiamo al carattere (di necessità) minimo e non invasivo rispetto alla libertà e alle scelte individuali dello stato (stato minimo potremmo dire riprendendo le parole di Nozick).
[14] Ibid., pp. 363-394.
[15] Cfr. T. Beauchamp, J. Childress, Principi di etica biomedica (1979), tr. it. Le Lettere, Firenze 1999. In effetti tra il 1974 e il 1977 la National Commission for the protection of human subjects of Biomedical and Behavioral Research, su mandato del Congresso degli Stati Uniti si pose come obiettivo quello di reperire dei principi etici di base che potessero servire da guida per la pratica medica. Il lavoro della commissione si concluse con la pubblicazione del Belmont Report. A partire da questo lavoro Beauchamp (il quale aveva fatto parte della commissione stessa) e Childress (un filosofo morale di ispirazione kantiana) misero mano a un progetto comune: quello di trovare uno schema di riferimento per l’etica biomedica contemporanea.
[16] Ai quattro gruppi di principi summenzionati i due autori americani aggiungono due strategie argomentative interconnesse, quella della “specificazione” e quella del “bilanciamento”, strategie il cui scopo è quello di districare i casi morali più complessi, qualificati dal conflitto tra più principi.
[17] T. von Engelhardt, op. cit., p. 145.
[18] Ibid., p. 322.
[19] In una conversazione personale avuta con il filosofo durante le sue giornate napoletane (2-6 febbraio 2012) egli teneva a sottolineare con forza la distanza abissale della sua filosofia rispetto a quella di Peter Singer. Engelhardt è personalmente sostenitore di una morale sostanzialistica che si rifà ai principi direttivi del cattolicesimo di matrice ortodossa, confessione religiosa alla quale Engelhardt ha aderito, abbandonando la sua primitiva confessione cattolico-romana. Egli insisteva nel dire che il suo pensiero non poteva essere definito laico o laicista, non tanto però a causa della sua intima adesione a una confessione religiosa, quanto per la sua constatazione del fallimento del progetto illuministico di una ratio universale capace di cogliere le cose per quelle che effettivamente sono. Il suo pensiero, diceva, andrebbe più correttamente situato nell’ambito di un post-illuminismo di fondo, che è consapevolezza del destino frammentario e plurale di ogni possibile visione del mondo da parte del soggetto: questo determina la necessità di approntare uno strumento in grado, non di far dialogare gli stranieri morali, quanto di farli accordare.
[20] G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondadori, Milano 2005, pp. 110-116. In questo testo (e nel successivo Laicità debole e laicità forte) egli distingue tra un concetto debole e uno forte di laicità. A mio modo di vedere, come Engelhardt fa notare a più riprese nei suoi scritti a partire dal Manuale di bioetica, passando per The Foundation of Christian Bioethics, la sua proposta bioetica non è classificabile in nessuna delle (due) ripartizioni forneriane in quanto, pur essendo ispirata da concetti quali l’antidogmatismo o il principio di tolleranza (propri della maggior parte delle prospettive laiche), rifiuta certamente l’idea che sia possibile opporre ai valori del personalismo ontologico di matrice tomista valori laici di base; ma rifiuta anche l’idea (debole) che sia possibile dialogare tra stranieri morali mediante l’uso dell’argomentazione e della riflessione razionale.
[21] Cfr. P. Costa, D. Zolo, E. Santoro, Lo stato di diritto: storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano 2002.
[22] Mi permetto di rimandare per l’analisi di questo problema al mio articolo Neurobiologia e spazio simbolico: per un nuovo modello interazionista, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 6, 2011, pp. 116-124.
[23] Questo significa che ognuno di noi partecipa di uno spazio pubblico, di un insieme intrecciato di pratiche discorsive e, pur non volendo accogliere la proposta habermasiana di un’etica del discorso con esiti (o forse sarebbe meglio dire su base) universalistici (il che metterebbe in secondo piano la pur fondamentale constatazione della relatività e parzialità dei linguaggi umani), dobbiamo a mio avviso accogliere la proposta (o quantomeno discutere della proposta) dell’esistenza di una dimensione meta-individuale entro la quale ciascuno di noi è inserito e che ci informa e co-struttura. Questo significa che lavorare al fine di creare, contribuire a determinare uno spazio simbolico in cui il valore di termini quali rispetto delle posizioni altrui, consapevolezza della parzialità della propria visione del mondo e altro siano essenziali, può rappresentare un buon viatico per uscire dall’idiotismo del proprium. In questo senso rispettare la posizione dell’altro non sarà un semplice prendere accordi per convivere pacificamente bensì il riconoscimento pieno del valore di ogni prospettiva anche contenutisticamente strutturata (per quanto diversa dalla nostra possa essere).