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La questione morale dei cambiamenti climatici

Autore


Stefano Caserini

Politecnico di Milano

insegna e svolge attività di ricerca al DIIAR (Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Ambientale, Infrastrutture Viarie, Rilevamento) - Sezione ambientale – Politecnico di Milano

Indice



  1. Ladies and gentlemen, global warming is here
  2. L’ambigua catastrofe climatica in corso
  3. Il fallimento di Gaia
  4. Il ritardo della politica
  5. Il prestito dal futuro
  6. La questione morale

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S&F_n. 08_2012

Abstract



Though a chorus of voices has risen to deny the alarm about climate changes during last years, the great majority of the scientific community believe that without further commitment and action to reduce greenhouse gas emissions, due to human activities the world will have to face a series of climate changes dangerous both for people and the Earth ecosystems. Climate change is thus an ethical issue from many points of view, mainly because those who are and will be most negatively affected are the least responsible for having caused the problem.


  1. Ladies and gentlemen, global warming is here

«Global warming is here», il riscaldamento globale è qui: queste le parole di James (detto Jim) Hansen, uno dei più grandi climatologi viventi[1]. Non nel 2012, era l’estate del 1988, il 23 giugno per la precisione. Washington era oppressa da una calura insolita, i termometri registravano da mesi dati record negli USA. La testimonianza di Hansen alla Commissione Ambiente ed Energia del Senato degli Stati Uniti passò alla storia perché il climatologo pronunciò parole inequivocabili, abbandonando le precisazioni e i distinguo tipici degli scienziati: «è ora di smettere di chiacchierare e riconoscere che l’evidenza è chiara, questi sono i segni del riscaldamento globale». Davanti a una buona parte di senatori stupiti, Hansen delineò un quadro preoccupante di quello che poteva essere lo scenario dei prossimi decenni.

A quasi 25 anni di distanza, si può dire che aveva visto giusto. Tutto quanto paventato si è realizzato: le temperature sono aumentate, le ondate di calore sono diventate più frequenti e le precipitazioni più intense, il mare si sta alzando e i ghiacciai stanno fondendo. Anzi, lo stesso Hansen il 4 agosto di quest’anno, in un editoriale sul Washington Post, ha scritto «ero stato ottimista».

Dai ghiacci arrivano i dati più chiari, impressionanti: non solo i ghiacciai delle montagne di buona parte del il mondo (con qualche eccezione), ma il ghiaccio del mare artico, quello delle foto con gli orsi polari: d’estate tende a ritirarsi perché fa più caldo, ma fino ai primi anni ‘80 l’estensione a metà settembre, quando si raggiunge il minimo, era di 7-8 milioni di km quadrati. Negli ultimi 30 anni il ghiaccio marino ha iniziato d’estate a essere sempre di meno. Le foto dei satelliti lo dimostrano in modo fin troppo preciso, ogni giorno l’immagine del giorno prima, e sul web si trovano animazioni di come il ghiaccio artico d’estate si vada facendo sempre più raro: il minimo raggiunto il 16 settembre 2012 è di 3,4 milioni di kmq. Si è persa una superficie di almeno 4 milioni di kmq, 13 volte la superficie dell’Italia.

Se poi si guardano i dati dello spessore del ghiaccio, e quindi della quantità totale di volume del ghiaccio, i dati sono ancora peggiori; di conseguenza, tutti i glaciologi stanno rivendendo le loro previsioni, anticipando la data della prima estate in cui il mare artico sarà libero dai ghiacci che ne hanno caratterizzato il paesaggio negli ultimi 10 mila anni. Non più 2070 o 2080, ma 2050, 2040 o forse già 2030 o 2020.

Peggio, molto peggio di quanto si pensasse 25 anni fa.

Il riscaldamento globale è qui e sta già facendo molti danni.

Per i ghiacci dell’artico i problemi sono nascosti: gli orsi non riusciamo a intervistarli e non è facile da spiegare nei programmi di prima serata il problema del maggiore riscaldamento del pianeta che arriverà dalla perdita dei ghiacci che riflettevano la luce solare (il mare invece di radiazione ne assorbe di più); d’altro canto c’è chi vede i benefici, qualche petroliere si sfrega le mani viste le possibili estrazioni petrolifere in questa zona, gli armatori pensano alle nuove rotte delle navi che accorciano di migliaia di km il collegamento fra il Pacifico e l’Atlantico.

I danni e la sofferenza che i cambiamenti climatici stanno già causando sul pianeta sono dovuti al clima che si fa sempre più estremo, con ondate di calore prolungate, precipitazioni più irregolari e intense, con scompensi per le risorse idriche e le attività agricole. E cominciano a esserci un po’ di conti, di cifre su quanto ci sta costando il riscaldamento globale. Ne discutono nei convegni gli esperti del settore, si confrontano le metodologie sulle riviste scientifiche, i rapporti del Comitato Onu sul Clima fanno ogni 6 anni il riassunto (il prossimo è atteso nel 2013). Anche le ricerche più importanti non riescono a sfondare la cortina di silenzio che grava sugli impatti del clima, di cui raramente si sente parlare sui grandi mezzi di comunicazione.

  1. L’ambigua catastrofe climatica in corso

Per lungo tempo il problema dei cambiamenti climatici è stato ignorato, deriso e considerato più o meno come una fissazione di alcuni scienziati visionari[2]. In seguito, davanti a una mole imponente di dati e articoli scientifici sostanzialmente concordanti, i titoli si sono spostati verso l’allarmismo e il sensazionalismo.

Ancora oggi convive da un lato la negazione, a volte ottusa fino a essere comica, dall’altro l’esagerazione, in cui i pericoli per il clima del pianeta sono mostrati paventando sconvolgimenti a brevissimo termine, maggiori di quelli che la scienza può effettivamente prevedere.

L’alternanza di titoli quali Il clima è impazzito, Temperature e mari fuori controllo, con altri come L’effetto serra è una bufala, oppure La favola della Terra più calda, rende chi legge questi articoli disinteressato a capirne di più, come se fosse una diatriba per specialisti.

I pericoli reali dei cambiamenti climatici non rispondono ai requisiti del catastrofismo giornalistico. Non sono previste le onde gigantesche dei film di Hollywood, o scenari di distruzione totale generalizzata. Molti impatti si stanno già verificando, ma quelli più gravi riguardano i prossimi decenni o secoli, e investono maggiormente gli abitanti del sud del mondo e le generazioni future. Sono proiezioni che hanno quindi poco appeal, interessano molto meno delle previsioni del tempo atteso per il week-end. Il problema climatico in un’ottica plurisecolare, come inizio di processi (la fusione delle calotte polari, l’innalzamento del mare) pericolosi in quanto inarrestabili una volta avviati, interessa molto meno delle carestie, delle inondazioni e dei disastri dei prossimi anni.

È forse per una necessità inconscia di bilanciare la scarsa lungimiranza, che i rischi per l’immediato sono esasperati, più di quanto i rapporti scientifici effettivamente giustifichino. Spesso i pericoli della catastrofe climatica sono descritti dai mezzi di informazione con titoli quali Finisce arrosto, con Coste e litorali sommerse ovunque, la Corrente del Golfo che rischia di impazzire, ma manca una riflessione su cosa sia questa catastrofe, la sua vera dimensione e le sue ragioni sistemiche.

Quante terre devono essere sommerse per poter definire l’innalzamento del mare “catastrofico”? Bastano le pianure del Bangladesh in cui vivono milioni di diseredati o sono più importanti le Maldive in cui pullulano i resort, meta dei ricchi occidentali? E devono essere davvero sommerse, o è una catastrofe già l’intrusione di acqua salata nelle falde sotterranee? O non è già una catastrofe doversi difendere da un probabile arrivo del mare su territori in cui vivono decine di milioni di persone? Oppure, quanto deve essere elevato un aumento di temperatura dell’atmosfera per essere catastrofico? Di quanti gradi? Con quale velocità può avvenire questo aumento delle temperature? È catastrofica la perdita del 50% dell’estensione e dell’80% del volume del ghiaccio marino artico, che si è verificata negli ultimi trenta anni?

I sistemi naturali si sono da sempre adattati alle variazioni delle temperature. Ma erano variazioni lente, che avvenivano in decine di migliaia di anni. Le attuali invece non hanno paragoni per rapidità e per questo i sistemi naturali fanno fatica ad adattarsi. L’agire combinato delle variazioni climatiche e della perdita di biodiversità legata all’antropizzazione del territorio mette sotto stress molti sistemi ecologici, e ha spinto ecologi e biologi a parlare del rischio di una sesta grande estinzione. Nella lunga storia del pianeta Terra ci sono state cinque grandi estinzioni, la più recente delle quali ebbe luogo 65 milioni di anni fa, quando in un breve lasso di tempo (un istante geologico fatto di migliaia di anni) perirono i grandi dinosauri. Furono catastrofi inimmaginabili e in almeno un caso, la cosiddetta estinzione Permiana, la vita corse il rischio di sparire dalla faccia della terra: venne spazzato via il 95% di tutte le specie viventi. Il perché delle grandi estinzioni del passato è ancora oggetto di dibattito, in quanto le cause (meteoriti, vulcani) non sono facili da individuare. Il drammatico aumento dei tassi di estinzione attuali è invece documentato e collegato alle cause con grande rigore, discusso in numerose riviste scientifiche; le responsabilità dei sette miliardi di umani sono evidenti.

Più passa il tempo, più i rischi di danni di grande entità aumentano. Ed è per questo che sulle riviste scientifiche autorevoli e generalmente compassate capita di leggere articoli molto preoccupati, se non spaventati, sul futuro del pianeta; o discussioni se il metodo scientifico, con la sua cautela puntigliosa nella corretta definizione delle incertezze sugli scenari futuri, non comporti alla fine una reticenza di fondo, una prudenza di cui un domani ci si potrebbe pentire.

 

  1. Il fallimento di Gaia

Negli anni ‘70 lo scienziato inglese James Lovelock formulò la teoria di Gaia, secondo cui la Terra sarebbe un superorganismo vivente, in grado di autoregolarsi in modo da mantenere ogni parametro entro un certo intervallo in cui la vita è possibile[3]. Una visione affascinante, che all'epoca suonò quasi rassicurante: sembrava possibile qualunque attività umana, tanto Gaia sapeva come cavarsela. La teoria di Gaia contribuì a importanti riflessioni sul funzionamento del sistema terrestre, ma fu criticata in quanto molti dati contraddicevano l’ipotesi dei meccanismi autoregolatori in grado di mantenere un equilibrio benefico; altri meccanismi del sistema Terra portano a soluzioni diverse, in condizioni di sovraccarico l’equilibrio si rompe bruscamente; inoltre, come ammesso in seguito dallo stesso Lovelock, alcuni nuovi equilibri non prevedono la presenza della vita umana.

Il problema dei cambiamenti climatici è uno di quelli in cui più si evidenzia la debolezza dell’ipotesi di Gaia: la scienza è ormai concorde nel ritenere che se si proseguirà per altri decenni a bruciare combustibili fossili come ora, il pianeta si surriscalderà come mai successo da quanto esiste l’homo sapiens. Inoltre, ci sono molte componenti su grande scala del sistema climatico terrestre (per esempio il ghiaccio della Groenlandia o della Penisola Ovest Antartica, la foresta amazzonica, il regime dei monsoni asiatici o africani, il ghiaccio marino dell’Artico), che l’attività umana potrebbe portare al collasso dopo il superamento di soglie critiche, chiamate tipping point; limiti che se superati farebbero variare bruscamente il modo di funzionare di alcune parti del sistema climatico e impedirebbero il ritorno alle condizioni precedenti. Il sistema a quel punto starebbe stabilmente in una situazione diversa: l’Artico senza ghiaccio, la foresta amazzonica con poca copertura forestale, le piogge monsoniche deboli e irregolari. Alcune delle soglie sono secondo gli scienziati molto vicine, altre sono già superate (il ghiaccio marino artico estivo sembra spacciato); altre sono meno vicine e altre ancora decisamente lontane.

La minore vicinanza o la lontananza comunque non tranquillizza, perché si tratta di valutazioni incerte: il pianeta non ha mai subìto un aumento di temperatura così rapido, si tratta di un esperimento nuovo che l’umanità sta attuando. Prima del superamento delle soglie critiche si possono cercare dei segni premonitori, dei segnali di cambiamenti importanti in grado di far capire la vicinanza al baratro. Ma non è detto che i cambiamenti repentini debbano essere annunciati da segnali premonitori: sorprese climatiche sono chiamate, nel linguaggio degli scienziati.

 

  1. Il ritardo della politica

È ormai evidente il divario fra le politiche di mitigazione, ossia le azioni necessarie per ridurre le emissioni di gas climalteranti, e le politiche decise o in corso di decisione. E, cosa ancora più grave, questo divario sta crescendo.

Da un lato infatti, la comunità scientifica, ormai impegnata ai massimi livelli su questa grande questione, sta sfornando a ripetizione lavori di grandissimo spessore che tolgono i dubbi residui sulla realtà del riscaldamento in atto, sulla determinante influenza umana e sulla pericolosità dei danni attesi nei prossimi decenni. Ormai gli studiosi del clima discutono sui dettagli, e forniscono un quadro sempre più preoccupante[4]. Molti di questi sono quasi brutali in alcuni passaggi in cui mostrano come la realtà sta seguendo le previsioni più pessimistiche del passato (per esempio sull’andamento delle emissioni o la scomparsa del ghiaccio marino artico).

Che la situazione sia sempre più preoccupante è mostrato d’altra parte dalla perdita di spessore delle tesi dei cosiddetti “scettici”, spesso meglio definibili come negazionisti, in quanto dediti ormai a un’attività di riciclaggio di miti e leggende su cui la comunità scientifica ha dato da anni risposte convincenti. I pochi articoli pubblicati nella letteratura scientifica che in qualche modo potrebbero far sorgere dubbi su importanti carenze nella conoscenza del sistema climatico, vengono ormai demoliti in pochi mesi, a volte anche in modo un po’ rude.

La politica è in grande, enorme ritardo, più passa il tempo più le visioni pessimiste acquistano motivazioni e argomenti validi.

I motivi sono tanti, il primo la ricerca di consenso politico di breve/medio periodo che caratterizza la politica, nonché la povertà come ostacolo all’innovazione e alle tecnologie pulite. Inoltre, l’attuale sistema economico non è stato pensato per garantire uno sviluppo e un benessere durevoli per tutti, ed è quindi del tutto comprensibile che senza seri correttivi possa portare a danni rilevanti per l’ambiente e gli esseri umani, con gravi squilibri geografici e generazionali.

La seconda ragione ha origini psicologiche e sociologiche: è umano voler rimuovere fatti e azioni scomode, che ci danno ansia, inquietudine. L’uomo ha la necessità di essere rassicurato. Per esempio, le nevicate invernali ci confortano perché ci permettono di illuderci della non esistenza del riscaldamento globale.

Infine, un altro fattore che spiega la grande inerzia del cambiamento, il ritardo nelle azioni di trasformazione dei sistemi produttivi e dei comportamenti individuali, è la mancanza nella maggior parte della popolazione delle informazioni basilari sulla questione climatica, in un contesto di analfabetismo scientifico diffuso e incoraggiato da alcuni mezzi di informazione. Non è un problema solo italiano ma è soprattutto italiano. Siamo il paese in cui i principali programmi televisivi che parlano di scienza sono Mistero e Voyager, in cui ai vertici di uno dei massimi organi di ricerca scientifica c’è stato a lungo un convinto anti-evoluzionista persuaso che l’uomo sia stato creato qualche millennio or sono. Non c’è quindi da stupirsi se i più non sanno cosa siano i cambiamenti climatici, e dunque facilmente oscillano fra la negazione e l’allarmismo a breve termine.

 

  1. Il prestito dal futuro

Il ritardo delle politiche sul clima è legato più in generale al ritardo nell’affrontare il problema dello “sviluppo sostenibile”. Sono infatti almeno venticinque anni che si parla di sviluppo sostenibile[5], un concetto che nella sua visione originaria consisteva proprio nel soddisfare i bisogni delle attuali generazioni, evitando di compromettere le capacità delle future di soddisfare i propri.

Se ne parla, appunto, perché poi di azioni se ne sono viste poche; un ritornello sullo sviluppo sostenibile non si nega a nessuno, ma quando arriva il momento delle scelte si mettono da parte i buoni propositi e si prendono le solite decisioni: più cemento, più auto, più consumi, più “sviluppo” e crescita senza aggettivi.

La terra non è un’eredità ricevuta dai nostri padri, ma un prestito da restituire ai nostri figli, “La terra ci è data in prestito dai nostri nipoti”: quante volte abbiamo sentito queste frasi?

In effetti sono frasi bellissime, che derivano dalla tradizione amerindia, si rifanno a un’idea di tempo ciclico che non ci è familiare: si basano su un’inversione temporale secondo cui i nostri posteri, che pure non hanno alcuna esistenza fisica o giuridica, ci hanno prestato in usufrutto un qualcosa che quindi non ci appartiene. Un approccio inconsueto che ci invita «a proiettarci nel futuro e vedere il nostro presente con le esigenze di uno sguardo che saremo stati noi stessi a generare»[6].

Una domanda provocatoria ma che chiarisce i termini del problema è perché dovremmo occuparci dei nostri pronipoti, se i nostri bisnonni non si sono occupati di noi? Chi ha deforestato l’intera Europa ha per caso pensato ai posteri? Chi ha cosparso nell’aria radionuclidi con gli esperimenti nucleari, chi ha goduto dei migliori giacimenti di materie prime, chi ha distrutto palazzi meravigliosi o saccheggiato opere d’arte ha per caso pensato alle generazioni future?

La risposta che arriva generalmente quando si fanno queste domande imbarazzanti è che i nostri predecessori in realtà si sono occupati di noi, ci hanno lasciato più benessere, più prosperità. Oggi abbiamo case confortevoli e automobili, viviamo più a lungo. Anche i nostri avi hanno depredato le risorse del pianeta, ma in modo più limitato; non erano consapevoli delle conseguenze vicine e lontane delle loro azioni, e avevano chiaro un fine: un’idea di benessere per i loro figli e nipoti, la bizzarra convinzione che le cose sarebbero sempre andate meglio, che l’umanità se la sarebbe sempre cavata perché il progresso avrebbe fornito capacità sempre nuove per affrontare le sfide del futuro. Non è importante che le riserve stiano finendo, ma che chi arriva dopo di noi abbia gli strumenti per trovarsene altre. L’età della pietra non è finita per mancanza di pietre, l’età del petrolio non finirà per mancanza di petrolio, è la frase che si sente proclamare, attribuita di volta in volta a un principe saudita, al Presidente dell’Opec, a Einstein o a qualche premio Nobel.

È una scommessa: prima o poi si troverà un rimedio che sistemerà tutto. Sta finendo il petrolio? Useremo il gas. Finisce il gas? Useremo il carbone. Finisce il carbone? Troveremo petrolio o gas dalle sabbie o dagli scisti bituminosi. La CO2 si sta accumulando nell’atmosfera? Troveremo il modo di togliercela. Oppure butteremo zolfo o polveri che schermeranno i raggi del sole e provocheranno un raffreddamento globale che compenserà il riscaldamento. E se finirà lo zolfo? Proveremo con degli specchi, oppure ci inventeremo qualcosa d’altro, che ancora non conosciamo.

Tutto ciò è stato un grande atto di fiducia nei posteri e per un po’ ha funzionato. Questa fiducia incondizionata nel potere taumaturgico del futuro poteva avere senso per qualche milione di cacciatori semianalfabeti che popolavano continenti sterminati o per chi viveva il tempo della scoperta tumultuosa di nuovi territori e nuovi saperi. Può ancora essere comprensibile per molti di quel terzo di umanità che oggi si gode i frutti del progresso: i loro padri e nonni avevano il più delle volte una vita meno comoda, interessante e ricca di soddisfazioni. È più difficile da credere per i miliardi di poveri che vivono alla giornata, cercando di fuggire da un presente di fame e disperazione; non è detto che i loro padri e le loro madri li avrebbero invidiati.

Il prestito dal futuro è servito per creare benessere in modo molto diseguale, per accumulare ricchezze gigantesche per pochi a scapito di tanta miseria. Solo una parte minoritaria degli abitanti del pianeta ha potuto partecipare al banchetto. Ora i nodi vengono al pettine: l’altra parte, maggioritaria, chiede di condividere e presenta il conto.

Uno sguardo sincero sulle fondamenta della fiducia che le cose comunque si aggiusteranno farebbe dire, ai nostri posteri, se fossero qui, che li stiamo fregando. Ma i nostri posteri, fortunatamente per noi, non sono qui. E quando ci saranno loro, non ci saremo più noi.

Come ha osservato Gustavo Zagrebelsky, il nostro sistema giuridico, le Costituzioni dei paesi democratici non hanno avuto finora ragioni per occuparsi delle prevaricazioni intergenerazionali:

Diritti delle generazioni “future” è una di quelle espressioni improprie che usiamo per nascondere la verità: le generazioni future, proprio perché future, non hanno alcun diritto da vantare nei confronti delle generazioni precedenti. Tutto il male che può essere loro inferto, perfino la privazione delle condizioni minime vitali, non è affatto violazione di un qualche loro “diritto” in senso giuridico. Quando incominceranno a esistere, i loro predecessori, a loro volta, saranno scomparsi dalla faccia della terra, e non potranno essere portati in giudizio. I successori potranno provare riconoscenza o risentimento, ma in ogni caso avranno da compiacersi o da dolersi di meri e irreparabili “fatti compiuti”[7].

 

Nella Dichiarazione dei Diritti Umani ci si basa sul diritto soggettivo, da contrapporre in vario modo al potere arbitrario, ma è il diritto di chi esiste oggi, presuppone un titolare presente.

Dal punto di vista giuridico i nostri posteri non ci possono fare nulla.

 

  1. La questione morale

È quindi evidente che il cambiamento climatico è oggi una grande questione morale, etica, un problema di giustizia e di equità[8]: coloro che sono e saranno più duramente colpiti, le generazioni future, le persone più povere del pianeta, le specie non umane, sono i meno responsabili dell’aver causato il problema. Si fa davvero fatica a trovare traccia in Italia del dibattito sulle implicazioni morali dei cambiamenti climatici, forse perché l’etica è considerata solo come parte di una dimensione religiosa, insomma un tema da lasciare ai preti (nei talk show televisivi, se si parla di un tema etico, si fa entrare l’alto prelato).

È singolare come negli ultimi tempi numerose voci, fra cui per esempio Al Gore, abbiano proposto la riscoperta della dimensione religiosa (la salvaguardia del creato), come mezzo per sensibilizzarci sulla necessità delle politiche climatiche. In realtà, proprio dai movimenti religiosi più integralisti è venuto in passato un grande sostegno a chi ha ostacolato in modo sistematico le politiche climatiche; anche in Italia diverse organizzazioni dell’integralismo religioso sono in prima fila nel propagandare tesi negazioniste sul clima[9].

Questa rimozione su scala globale è dovuta al fatto che la verità scomoda del cambiamento climatico mostra da un particolare punto di vista l’ingiustizia su cui si regge l’attuale sistema economico, che permette l’accaparramento indebito di risorse scarse da parte di un numero relativamente piccolo di individui. E una risorsa scarsa è la capacità dell'atmosfera di assorbire i gas climalteranti. La crisi climatica ripropone la domanda sul senso dell’inseguimento continuo della crescita delle produzioni e dei consumi della nostra società; coinvolge un livello profondo della nostra vita, in quanto si tratta di ridefinire i limiti delle aspettative umane.

                         

Manifestanti a Copenhegen, dicembre 2009 (foto S. Caserini)

     

Gli alimenti di una settimana per una famiglia negli Stati Uniti e in Chad. (Fonte: Ashok Khosla, Climate Change and Other Global Challenges, COP15 Side event del 14/12/2009)

Temperature ricostruite, osservate e proiezioni per il futuro. Le variazioni delle temperature sono relative alla media 1800-1900

(Fonte: www.CopenhagenDiagnosis.com)

 


[1] J. Hansen, Tempeste, tr. it. Edizioni Ambiente, Milano 2010.

[2] Un’ampia rassegna delle voci negazioniste sul clima è disponibile in S. Caserini, A qualcuno piace caldo. Errori e leggende sul clima che cambia, Edizioni Ambiente, Milano 2008.

[3] J. Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1981.

[4] PIK-Climate Analytics, Turn down the heat. Why a 4º C warmer world must be avoided. A report for the world Bank, by the Postdam Institute for Climate Impact Research, 2012.

[5] Il concetto di sviluppo sostenibile è stato definito nel 1987 all’interno del rapporto Il nostro futuro comune, della Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo, presieduta dalla primo Ministro norvegese Gro Harlem Brundtland, e perciò nominato Rapporto Brundtland.

[6] J. P. Dupuy, Piccola metafisica degli tsunami, tr. it. Donzelli, Roma 2006.

[7] G. Zagrebelsky, Nel nome dei figli. Se il diritto ha il dovere di pensare il futuro, apparso su «La Repubblica», 2 dicembre 2011, p. 54.

[8] E. M. Markowitz, A. F. Sharif, Climate Change and Moral Judgement, in «Nature Climate Change», 2, 2012, pp. 243-247.

[9] Per una rassegna in proposito, si consulti il sito www.climalteranti.it.

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