Autore
Indice
- Un punto di vista pratico
- I criteri di demarcazione e l’effettiva pratica scientifica
- La metodologia dei programmi di ricerca scientifici
- Considerazioni finali
S&F_n. 14_2015
Abstract
The aim of the paper is resurrecting the “Demarcation Problem”, which was considered dead in a paper written by Larry Laudan in 1983. I will go through the analysis of Imre Lakatos’ thought, which represents the most mature synthesis between the fallibilism of science and the rationality of the demarcation attitude. Lakatos’ philosophical trick is directed to acknowledge the inclinations of the contemporary philosophers, to grasp the best they can offer, and to propose a more suitable philosophy of science. He follows the middle path between dogmatism and skepticism: the favorite position in order to safeguard the phenomena suggesting a rational unity of the science in an “anarchic” historical period.
- Un punto di vista pratico
Nel 1983 Larry Laudan scrisse un articolo demolitore di poche pagine con l’intento di porre fine una volta per tutte al vecchio problema di separare in maniera netta la scienza dalle altre forme di sapere. Sebbene sia possibile parlare di un maturo dibattito sul “problema della demarcazione” solo dagli inizi del Novecento, Laudan riconduce gli intenti demarcativi ad Aristotele e ai filosofi greci impegnati a distinguere la doxa dall’episteme. Nello scritto in questione, il cui titolo suona icasticamente Il decesso del problema della demarcazione[1], Laudan traccia un breve profilo storico del problema della demarcazione da Aristotele a Popper, ed evidenzia come i vari criteri per demarcare la scienza si siano rivelati infruttuosi; spingendosi a sostenere che «probabilmente è corretto dire che non c’è una linea di demarcazione fra scienza e non-scienza, o fra scienza e pseudoscienza» dacché «dopo tutto, [la] scienza è veramente sui generis», e forse «non ci sono caratteristiche epistemiche che tutte e solo le discipline che noi accettiamo come “scientifiche” hanno in comune»[2]. Ciò spiegherebbe il motivo per cui i millenari tentativi di individuare i tratti che contraddistinguono la scienza — o, più in genere, un sapere fondato su basi solide — sono miseramente falliti. Ciò che noi oggi consideriamo scienza — se mai ci fosse tale riconoscimento unanime — ha travalicato inesorabilmente tutt’i limiti demarcativi che i filosofi e gli epistemologi nel corso del tempo hanno tracciato. Da Aristotele a Popper la scienza non s’è fatta imbrigliare da banali categorizzazioni, essa ha cambiato aspetto più e più volte mutando irriconoscibilmente. I numerosi tentativi di isolare i tratti necessari e sufficienti alla scienza — continua Laudan — sono solamente vuota retorica volta a espungere dal campo di battaglia le idee rivali; perciò ogni demarcazionista altro non fa che definire la propria scienza. La breve storia del problema della demarcazione che Laudan delinea nel saggio succitato sembra confermare ancora una volta le tesi dell’anarchico Paul Feyerabend, che un decennio prima andava diffondendo un’idea del tutto eversiva e caotica dell’impresa scientifica[3].
Negli anni successivi al lavoro di Laudan l’interesse per il problema della demarcazione venne meno, e il lungo dibattito fu, perlopiù, abbandonato. La fiducia sull’esistenza di una scienza che si distingue positivamente dalle altre forme di sapere o abilità sarebbe, in ultima analisi, infondata, sebbene questa fiducia condizioni «la nostra vita intellettuale […] e larga parte della nostra vita sociale e politica»[4]. Ma non è forse per queste ragioni che sarebbe necessario continuare a riflettere sulla natura della scienza? Non è forse in virtù di questa penetrante diffusione della scienza che sarebbe auspicabile una maggiore comprensione? In tempi recentissimi, la questione è stata rimessa in gioco da alcuni studiosi come S. O. Hansson, M. Mahner e M. Pigliucci. In particolare, quest’ultimo invita a ripensare il problema della demarcazione non come una separazione netta, ma come un gradiente di «linee sfumate e distinzioni graduali»[5]; Mahner, invece, nel lavoro del 2007, si sforza di sottolineare proprio l’esigenza pratica di demarcare la scienza dalle altre discipline che si spacciano per essa[6]. Il crescente successo delle cosiddette scienze dure spinge sempre più i ricercatori di altre discipline a rincorrere l’aggettivo “scientifico” per rendere onore al proprio lavoro, e a questo proposito non è raro assistere a banali scimmiottamenti del metodo della fisica o della chimica. Con l’etichetta di scientificità, una qualunque ricerca guadagna presto un massimo grado di credibilità che gli permette — tra le altre cose — d’esser visibile nelle riviste più autorevoli. “Scientifico” diventa sinonimo di “ragionevolmente vero”, e la maggior parte degli uomini è disposta ad arrendersi di fronte a tale “verità”. L’ambiente sanitario, per fare un solo esempio, è dominato dall’ideale regolativo della scientificità: il paziente è nelle mani della scienza. Imboccare la facile scorciatoia che ci porta a concedere un carattere sui generis e indefinibile alla scienza, precludendoci la possibilità di distinguerla dalle pseudo-scienze, porta sùbito a un notevole sollievo intellettuale; ma se davvero così fosse, se davvero la scienza fosse un insieme di speculazioni come tutte le altre, assisteremmo a un caotico e rovinoso agone scientifico in cui tutti i pretendenti fanno a gara per appaltarsi un posto d’onore in àmbito accademico: che difficoltà c’è nel trasformare una disciplina qualunque in una disciplina sui generis, ovvero in una scienza? Il motivo per cui ciò non accade è presto detto: la comunità scientifica “sente” che ciò che è davvero scienza ha qualcosa di peculiare, e nel giudicare una ricerca, la giudica sempre alla luce di un qualche criterio di demarcazione. La soluzione migliore non è, quindi, quella di scrollarsi di dosso l’impegno teorico di riflettere sulla demarcazione disincantando agli occhi degli uomini l’aggettivo “scientifico”, ma è quella di cercare di capire e spiegare che cos’è questa scientificità che tacitamente caratterizza e dirige il più democratico e affidabile mezzo di conoscenza. Nel far ciò bisogna anzitutto accettare l’idea di una scienza fallibile — scardinando così il pregiudizio che vorrebbe la scienza come conoscenza certa — ma non per questo indistinguibile dalle altre forme di sapere. Ciò che occorre è una razionalità senza certezze.
Il presente scritto s’inserisce nella scia tracciata da chi come Massimo Pigliucci sostiene che «finché siamo d’accordo che c’è sicuramente una differenza riconoscibile fra, per esempio, biologia evoluzionistica da un lato e creazionismo dall’altro, allora dobbiamo anche accettare il fatto che ci sono criteri demarcativi — per quanto elusivi possano apparire a un primo sguardo»[7]. A questo proposito, nelle pagine che seguono, proporrò una ricognizione delle idee epistemologiche di Imre Lakatos, nella convinzione che «[le] acquisizioni teoriche lakatosiane [rappresentano] uno dei più fini e persuasivi strumenti disponibili […] per la comprensione dell’attività scientifica e della stessa attività del pensare»[8].
Dieci anni prima dell’articolo di Laudan, Lakatos aveva già notato che le soluzioni che erano state avanzate per demarcare la scienza risultavano problematiche e insoddisfacenti; ma convinto del fatto che il tipo più rispettabile di conoscenza, a cui comunemente diamo il nome di scienza, debba essere in qualche modo caratterizzato da note peculiari, Lakatos delineerà la sua filosofia della scienza, che può essere letta, appunto, come il tentativo di risolvere il problema della demarcazione. La risoluzione di tale problema, come s’è detto, non coinvolge solamente aspetti teorici e speculativi, ma avrebbe importanti implicazioni anche per la vita sociale e politica:
La teoria di Copernico venne bandita nel 1616 dalla Chiesa cattolica in quanto pseudoscientifica. Venne tolta dall’indice nel 1820 perché in quel momento la Chiesa credeva che i fatti l’avessero dimostrata e che fosse, per ciò, divenuta scientifica. Il Comitato centrale del Partito comunista sovietico nel 1949 dichiarò pseudoscientifica la genetica mendeliana e mandò i suoi sostenitori, come l’accademico Vivilov, a morire nei campi di concentramento[9].
Anche i casi storici ci inducono a pensare che le teorie vengono sempre giudicate alla luce di un criterio di demarcazione di qualche tipo, e le conseguenze di questi giudizi, s’è visto, possono essere drammatiche. I fallimenti passati non dovrebbero gettare il filosofo della scienza nello sconforto spingendolo a rifiutare un atteggiamento demarcativo, al contrario, egli dovrebbe invece, sotto la guida di un passato adeguatamente interpretato, continuare la sua ricerca di ciò che è, essenzialmente, questo “criterio di demarcazione di qualche tipo”; visto che, in un modo o nell’altro, si è soliti tirarlo in ballo senza adeguate delucidazioni. Una cosa, però, dev’essere subito chiara: un criterio stabile e valido a priori è negato fortemente anche da Lakatos, il quale chiarisce: «Comincio con una lista dei buoni e dei cattivi, a proposito della quale sono disposto però a essere flessibile»[10]; ammettere una certa elasticità nel criterio di demarcazione non significa, però, mettere da parte la razionalità e il dialogo critico tra diverse metodologie scientifiche.
Lakatos, arrivato a fare filosofia dalla porta di servizio, ha inizialmente recepito le tendenze intellettuali dei filosofi della scienza a lui più vicini — subendo l’influenza di Popper prima e di Kuhn poi —, ne ha interiorizzato i risultati e ha coscientemente proposto un’alternativa che mirasse a inglobare e superare le precedenti — non senza un certo spirito hegeliano. La sintesi che darà vita alla filosofia di Lakatos avrà al tempo stesso un valore normativo (popperiano) e si dimostrerà essere (kuhnianamente) fedele all’effettivo svolgimento dell’impresa conoscitiva. Prima di proporre la propria soluzione al problema della demarcazione, però, Lakatos espone e argomenta nei suoi scritti i tentativi precedenti mostrandone i punti deboli e i punti di forza. È opportuno notare che l’interpretazione che Lakatos offre del dibattito a lui contemporaneo è opinabile e, forse, viziata da fraintendimenti: il volume Critica e crescita della conoscenza[11] ne è un attendibile testimone. Il fatto è anche sottolineato da B. Larvor, allorché afferma che «la maggior parte del clamore è dipeso da un fraintendimento delle idee di Kuhn»[12]. Ma ciò non c’interessa che di scorcio, dacché «Lakatos provò a emulare la sensibilità storica del lavoro di Kuhn, mentre provò a evitare ciò che egli vide come concessioni di Kuhn all’irrazionalismo. Perciò, ciò che ci serve è precisamente il Kuhn così come lo lesse Lakatos»[13]. Nel paragrafo successivo prenderò in considerazione il contesto in cui Lakatos maturò la sua riflessione, e, così com’egli li lesse, i tentativi di demarcazione storicamente a lui più vicini.
- I criteri di demarcazione e l’effettiva pratica scientifica
Uno dei più grandi meriti di Lakatos è stato riconosciuto per la prima volta da P. Feyerabend, l’anarchico epistemologico che incarna il nemico intellettuale par excellence del filosofo ungherese. Egli scrive che «Lakatos è uno fra i pochissimi pensatori che hanno rilevato il distacco enorme esistente fra varie immagini della scienza e la “cosa reale”; egli si è reso conto anche del fatto che il tentativo di riformare le scienze rendendole più vicine all’immagine è destinato a danneggiarle e può anche distruggerle»[14]. Fornire una spiegazione razionale del modo in cui procede la scienza, presuppone un continuo contatto con la storia reale e con gli accadimenti più notevoli nell’evoluzione della scienza: «la storiografia della scienza dovrebbe imparare dalla filosofia della scienza e viceversa»[15]. In virtù di ciò, e contrario a qualunque speculazione priva di documentazione storica, Lakatos si preoccupa di esaminare i più noti argomenti demarcativi e di valutarli alla luce della storia normativamente interpretata. Si proceda cronologicamente.
La prima forma di demarcazionismo che Lakatos prende in esame è il giustificazionismo, ovvero l’idea seicentesca secondo cui è possibile caratterizzare la scienza come un sapere infallibile e «dimostrat[o] ogni oltre possibile dubbio. A uno scienziato, degno di questo nome, non era permesso fare congetture: ogni frase che pronunciava doveva essere dimostrata dai fatti»[16]. Secondo Lakatos, questa posizione va ricondotta alla volontà degli scienziati di adeguare la propria conoscenza a quella teologica, la quale era infallibilmente dimostrata dalla Rivelazione e dalla Chiesa. Gli scienziati del tempo riconducevano dunque la conoscenza scientifica alla conoscenza certa: provata dalla ragione o provata dai fatti. Quest’idea sopravvive tenacemente fino all’inizio del Novecento, e — in maniera più o meno mascherata — è stata portata avanti dai neopositivisti viennesi e berlinesi. Passare dai fatti a proposizioni fattuali, e da quest’ultimi a proposizioni universali — tramite processi induttivi o deduttivi —, è la ricetta della scienza per i neopositivisti — variamente rimaneggiata nel corso degli anni. Le difficoltà di tale posizione sono oggi molto note, e «pochissimi filosofi o scienziati continuano a pensare che la conoscenza scientifica sia, o possa essere, conoscenza dimostrata»[17]. Accanto a una confutazione logica, mirabilmente svolta da Popper[18], il giustificazionismo se ne attira anche una storiografica: una ricostruzione razionale della scienza secondo i canoni del giustificazionismo non è adeguata per rendere conto della varietà e della complessità dell’impresa scientifica. In risposta all’ormai superato criterio giustificazionista sono nate tre scuole di pensiero: l’anarchismo epistemologico, l’elitismo e il falsificazionismo — che rientra nell’àmbito del demarcazionismo. Tutti questi approcci devono rendere conto del fatto che la conoscenza scientifica non è, come si pensava prima, un’episteme — etimologicamente parlando —, bensì una forma di sapere fallibile, e non dimostrabile una volta per tutte. Tuttavia, come negare all’impresa scientifica una qualche razionalità? Tenendo in gran conto le Lezioni sul metodo del 1973 e il saggio La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici mostrerò come Lakatos interpreta le soluzioni demarcative e ne discute le caratteristiche, criticandole sia dal punto di vista logico sia dal punto di vista storiografico. «Vi ricordo che stiamo affrontando un problema drammatico, se non troviamo una soluzione soddisfacente o ragionevole al problema della demarcazione, ricadiamo o nel relativismo culturale di Feyerabend o nell’autoritarismo di Polanyi, e credo che queste due posizioni non piacciano a nessuno»[19].
Vediamo perché.
Anarchismo epistemologico. Il principale esponente di questa prospettiva è, senza dubbio, P. Feyerabend. Egli inizia il suo famoso Contro il metodo con la seguente affermazione: «La scienza è un’impresa essenzialmente anarchica: l’anarchismo teorico è più umanitario e più aperto a incoraggiare il progresso che non le sue alternative fondate sulla legge e sull’ordine»[20]. Feyerabend considera il problema della demarcazione uno pseudo-problema, giacché dal punto di vista epistemologico, tutte le teorie sono sullo stesso piano. Ogni credenza è a suo modo valida, e la scienza è soltanto un tipo particolarmente forte di credenze. Il passaggio da una teoria a un’altra non costituisce alcun progresso, e meno che mai è rintracciabile all’interno della scienza un percorso di razionalità. Il confronto fra teorie diverse è quasi impossibile, è quando vien fatto non produce motivi validi razionalmente per scegliere una teoria piuttosto che un’altra. Non esistono né criteri demarcativi né criteri d’onestà intellettuale: “Tutto va bene”, è il motto dell’anarchico. Egli s’appella alla fallibilità della scienza e si limita a descrivere senza prescrivere. Ma a ben vedere, questa descrizione della scienza non funziona. Dire che la scienza è un’impresa “essenzialmente anarchica” significa negare validità al lavoro di teorici e scienziati che da molti anni sono alle prese con la costruzione di una scienza razionale. Essa è stata ed è pensata come qualcosa che deve avere un metodo rigoroso che la contraddistingua. La descrizione di Feyerabend va in contraddizione con il concetto culturalmente declinato che è giunto a noi oggi col nome di “scienza”. Basta accendere il televisore per sentire che il prodotto X è stato scientificamente testato, basta leggere una qualunque rivista alimentare per sapere che del cibo Y è stata dimostrata scientificamente la nocività; nessuno, però, sarebbe disposto a credere che codesti studi siano, sotto sotto, irrazionali. Non è banale questa fiducia nella scienza, e i suoi motivi sono ben più profondi della semplice assuefazione culturale — anche se, in fondo, è sempre arduo dire in che cosa consiste precisamente la scientificità. Dire che la scienza è irrazionale non ci aiuta affatto a capirla; per caratterizzarla adeguatamente, invece, bisogna seguirne l’idea regolativa che ne costituisce l’essenza: la razionalità. L’atteggiamento scettico di Feyerabend è uno dei principali nemici di Lakatos; egli, invece, è fermamente convinto che la fallibilità della scienza non implica che essa sia priva di razionalità e di metodo: la scienza è nata sulla base di una razionalità descrivibile in modo peculiare. In che cosa consiste questa razionalità, di preciso, si vedrà più avanti.
Elitismo (o autoritarismo). Secondo questo punto di vista, rappresentato maggiormente da T. Kuhn, se esiste una demarcazione — cioè una separazione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è —, questa dipende da una demarcazione tracciata tra la comunità scientifica e le altre comunità. Non esistono criteri demarcativi per valutare le singole teorie, ma solo modi per individuare una certa comunità scientifica. La scienza, che s’identifica con il lavoro di tale comunità, è guidata da un paradigma condiviso a cui gli scienziati prestano fede (condizione necessaria affinché ci sia una comunità scientifica), e, precisa Kuhn, «perché una disciplina sia una scienza, le sue conclusioni devono essere logicamente derivabili da premesse condivise»[21]. All’interno della comunità scientifica il passaggio da un atteggiamento critico a uno dogmatico segna l’inizio della “scienza normale”. L’attività principale della scienza (normale) è la risoluzione di problemi alla luce del paradigma; e tale tradizione di risoluzione di problemi è ciò che separa de facto le scienze dalle altre attività. La comunità degli scienziati può però incorrere in periodi di “crisi”, a causa dei quali il vecchio paradigma, ora adeguatamente controllato e messo in discussione, viene sostituito bruscamente da uno nuovo. Tra il vecchio e il nuovo paradigma l’incomprensione è assicurata, e il passaggio da un paradigma a un altro è governato dall’irrazionalità, assomigliando più a una conversione religiosa che a una scelta ponderata e cosciente. Kuhn, agli occhi di Lakatos, «esclude ogni possibilità di ricostruzione razionale della crescita della scienza»[22]; e perciò la visione elitista va abbandonata.
Falsificazionismo. È il punto di partenza da cui Lakatos dice di aver sviluppato la sua soluzione demarcativa, e perciò merita più attenzione. Per il falsificazionista sarà scientifica quella teoria che avrà specificato in anticipo un esperimento cruciale in grado di contraddirla. La falsificazione, quindi, è il frutto di un duello fra una teoria e l’osservazione. Ci sono, tuttavia, più modi di praticare il falsificazionismo. Un modo dogmatico (o naturalistico) è certamente inadeguato, in quanto presuppone una base empirica assolutamente salda contro la quale far scontrare tutte le teorie scientifiche per deciderne la refutazione. Se un evento osservabile contraddice la teoria, essa dev’essere rigettata senza remore. La teoria possiede in questo modo una base empirica, cioè l’insieme dei falsificatori potenziali, che la rende falsificabile e quindi scientifica. L’errore — secondo Lakatos — sta nell’ammettere l’esistenza di fatti puri e semplici e nel credere di poter dimostrare una proposizione fattuale con l’esperimento. Ma anche se ciò fosse possibile, «il falsificazionismo dogmatico ancora sarebbe inutile per il fatto che elimina la classe più importante di quelle che sono comunemente considerate teorie scientifiche»[23]. Ecco come la storia rende inadeguato questo criterio di demarcazione: le grandi teorie della scienza non vietano mai nessuno stato di cose osservabile, giacché è sempre possibile avanzare ipotesi ausiliari che pospongono il momento falsificante. Se si seguisse questa strada, la maggior parte della scienza risulterebbe, a ben vedere, non-scienza.
Un tipo migliore di falsificazionismo, ma non ancora sufficientemente adeguato per demarcare la scienza, è stato praticato per la prima volta da Popper: il falsificazionismo metodologico. Questo mutato approccio cerca di riparare all’errore dogmatico ponendo convenzionalmente alcuni asserti “osservativi” singolari come non falsificabili, ovvero come conoscenza di sfondo. Questa conoscenza di sfondo, lungi dall’essere facilmente rintracciabile dallo scienziato, dovrebbe essere quella nei confronti della quale controllare le teorie — come si sarà intuito dalle virgolette, la conoscenza di sfondo è solo latamente osservativa: è, infatti, soltanto convenzionalmente osservativa. Lo scienziato è moralmente obbligato a specificare in anticipo quale evento “osservabile”, se effettivamente occorre, falsifica la teoria. La scienza che risulta da questa prospettiva è scienza negativa, scienza che considera valide solo quelle scoperte frutto di falsificazioni. Ma com’è possibile, però, eliminare del tutto le teorie confrontandole soltanto con asserti pseudo-empirici? Secondo Lakatos non è possibile. La reale storia della scienza falsifica anche l’evoluzione metodologica del falsificazionismo, poiché «gli esperimenti sono delle lotte almeno a tre fra due teorie rivali e l’esperimento, e […] alcuni dei più interessanti esperimenti risultano, prima facie, una conferma piuttosto che una falsificazione»[24]. Le teorie nascono in un oceano di anomalie, e se lo scienziato si sforzasse di impiegarle per la confutazione delle teorie — cosa che giustamente non fa —, riuscirebbe senza problemi a falsificarle tutte: «alla luce del falsificazionismo […] la crescita della scienza nel suo complesso è irrazionale e gli scienziati si comportano in modo irrazionale. In altri termini: Popper non può spiegare in modo razionale la presenza delle anomalie»[25]. Con un attento sguardo alla storia della scienza ci si accorge che le migliori teorie scientifiche sono tenaci, e non sono quasi mai vittima di atteggiamenti confutatòri. Benché il falsificazionismo metodologico funzioni dal punto di vista di logico, risulta inadeguato per la ricostruzione razionale della storia. Bisogna tener conto del fatto che, normalmente, gli scienziati ignorano le anomalie. Ma c’è di più. Guardando alla storia della scienza, si scopre che molte teorie si sono affermate grazie a verifiche importanti piuttosto che a mancate falsificazioni.
A questo punto è opportuno introdurre il modo corretto d’intendere il falsificazionismo. Lakatos lo chiama falsificazionismo sofisticato. Da questo nuovo punto di vista «una teoria è “accettabile” o “scientifica” soltanto se ha un aumento di contenuto empirico corroborato rispetto alle teorie precedenti (o rivali), cioè soltanto se conduce alla scoperta di fatti nuovi»[26]. In gioco, adesso, non c’è più una sola teoria e l’“osservazione”, ma due o più teorie e l’“osservazione”, la quale non perderà il ruolo di arbitro imparziale. La falsificazione di una teoria T è possibile solo se una nuova teoria T¹ eccede di contenuto empirico rispetto a T e ne spiega il successo; in più, parte del nuovo contenuto empirico dev’essere corroborato. Tuttavia, secondo Lakatos, l’unità minima della scienza non è la teoria singola ma un insieme di teorie. E ciò che viene sottoposto al vaglio della critica demarcazionista non è una teoria isolata, ma una successione di teorie che si mostrano in una certa continuità, e tale continuità fissa la serie in un programma di ricerca.
- La metodologia dei programmi di ricerca scientifici
La storia della scienza è ricostruibile adeguatamente come storia di programmi di ricerca, piuttosto che di teorie isolate. Un programma di ricerca è un insieme di teorie e regole metodologiche che delineano un’euristica negativa e un’euristica positiva:
Tutti i programmi di ricerca possono essere caratterizzati dal loro “nucleo”. L’euristica negativa del programma ci impedisce di rivolgere il modus tollens contro questo “nucleo”. Dobbiamo invece usare la nostra ingegnosità per articolare o anche inventare delle “ipotesi ausiliari”, che formino una cintura protettiva intorno al nucleo e dobbiamo rivolgere il modus tollens contro quest’ultimo nuovo obbiettivo[27].
Il nucleo, dopo un lento accrescimento per prove ed errori, si forma come una serie di asserti convenzionalmente non confutabili e, solo dopo un’adeguata maturazione, costituirà il punto nevralgico dell’intero programma di ricerca. L’euristica positiva, invece, è delineata dalla cintura protettiva, ovvero da «un insieme abbastanza articolato di proposte o di suggerimenti su come cambiare e sviluppare le “varianti confutabili” del programma di ricerca, su come modificare e sofisticare la cintura protettiva “confutabile”»[28]. La cintura protettiva assorbe le anomalie, difende il nucleo adattandosi ai casi recalcitranti e — oltre a spiegare fenomeni conosciuti — predice fatti nuovi. Predire fatti nuovi e sorprendenti è un punto di forza del programma di ricerca, e le conferme di tali predizioni giocano un ruolo di primo piano nella comunità scientifica. Tuttavia, i tempi di predizione possono essere piuttosto lunghi, e perciò la non-confutabilità e la tenacia degli scienziati diventano una caratteristica essenziale della scienza. Se vogliamo render conto di come effettivamente si comporta la comunità scientifica dobbiamo ammettere che la «storia della scienza è piena di casi di tenacia […]. E senza tenacia non ci sarebbe progresso scientifico»[29]. Ciò implica l’abbandono di una razionalità istantanea à la Popper, poiché prima che un buon programma di ricerca venga adeguatamente sviluppato può passare molto tempo, e la razionalità, diversamente da quanto si crede, opera lentamente e fallibilmente: non esistono, secondo Lakatos, esperimenti decisivi in grado di eliminare istantaneamente un programma di ricerca. La storia è testimone di molti casi in cui un preteso esperimento cruciale viene successivamente trasformato in una vittoria per il programma “sconfitto”: gli esperimenti contro la legge della caduta libera dei gravi di Galileo e quelli contro la legge della gravitazione di Newton. L’esperimento cruciale di cui normalmente si parla è, per Lakatos, nient’altro che una retrovalutazione di un caso particolare alla luce dello sviluppo di tutto il programma di ricerca. Per essere battezzato “cruciale”, l’esperimento deve avere la caratteristica di falsificare un programma e corroborarne un altro a un tempo.
I programmi di ricerca possono essere progressivi o regressivi. Nel primo caso la serie di teorie porta il programma a predire fatti nuovi e a corroborarli, nel secondo caso il programma collassa su sé stesso a causa di aggiustamenti ad hoc e ipotesi empiricamente vuote. Il nuovo criterio di demarcazione di Lakatos non distingue una teoria scientifica da una pseudoscientifica bensì una «“scienza matura” consistente di programmi di ricerca» da una «“scienza immatura”, consistente solo di una trama raffazzonata di prove ed errori»[30]. La scienza matura è un dispositivo euristico in grado di portare il ricercatore a scoprire fatti nuovi alla luce di una struttura che ingloba la continuità in un nucleo saldo e convenzionalmente condiviso. E, entro una dose ragionevole di tempo, è del tutto razionale evitare i controesempi rifiutando alcuni dati sperimentali e proseguire guidati dall’euristica positiva. Lavorare a un programma di ricerca regressivo, come quello marxista o freudiano, è lecito ma, tutto sommato, irrazionale, e perciò pseudo-scientifico. La razionalità consiste nel saper aderire a un programma progressivo o a trasformarne uno regressivo in progressivo secondo le regole lakatosiane. In questo modo, il criterio di demarcazione è stato tradotto ulteriormente; ma questa volta si tratta di un criterio mobile e aggiornabile: un programma regressivo può diventare progressivo se rispetta i parametri delineati da Lakatos. Nelle scienze naturali ci sono molti programmi di ricerca progressivi, ma non nelle scienze sociali; e Lakatos si chiedeva come mai non riuscisse a convincere gli studenti a occuparsi dei programmi di ricerca nelle scienze sociali. Ma il fatto è che «nessuno vuole contrapporsi ai suoi professori col mostrare che le scienze sociali sono nel complesso senza senso»[31]. Un programma di ricerca dev’essere pubblicamente giudicato progressivo o regressivo, la demarcazione dev’essere pubblica; e lo scienziato deve sapere dove il lavoro è più proficuo, ovvero, propriamente scientifico. Ma, come si è detto, non è un reato lavorare a un programma di ricerca regressivo. Questo è ciò che s’intende con liberalismo scientifico. Lakatos ha quindi creato una dimensione di razionalità in grado di valutare gli stadi del cammino della scienza, ha costruito un metaspazio teorico di discussione comune e di confronto dialettico.
- Considerazioni finali
La personalità eccentrica e geniale di Lakatos ha lasciato un’orma profonda nella filosofia della scienza contemporanea e non solo. Egli si è sforzato di salvaguardare la razionalità nella scienza senza perdere mai di vista l’importanza pratica e politica del problema epistemologico, evitando di cadere nell’irrazionalismo e nel relativismo modaiolo. L’ultima grande battaglia contro lo scetticismo scientifico è stata combattuta da Lakatos con argomentazioni fruttuose e tecniche intellettuali valide che a tutt’oggi vengono discusse con grande interesse in àmbito epistemologico, storico ed economico. Dopo la morte di Lakatos molti studiosi hanno cercato di applicare la metodologia dei programmi di ricerca alla concreta pratica scientifica, ma questi tentativi non sono stati privi di difficoltà. Lo stesso Lakatos era consapevole dei problemi che specie all’inizio affollano la metodologia dei programmi di ricerca: è necessario identificare il nucleo del programma, guardare con attenzione alla storia, capire cos’è ad hoc e cosa no, e così via.
Ricostruire la storia della scienza è un’attività il cui risultato muta al mutare di una posizione metodologica, e la scelta di una metodologia fornisce gli strumenti metastorici per ricostruire la storia senza pretese di completezza e validità universali. Dev’essere la storia della scienza normativamente interpretata a convalidare una teoria della razionalità scientifica. In questo modo è possibile lasciare spazio a una metodologia superiore che ricostruisca in maniera migliore il percorso scientifico. La metodologia dei programmi di ricerca, oltre che caratterizzare l’impresa scientifica, «può […] fornire stimolanti indicazioni per riconoscere, negli specifici e autonomi tentativi umani di orientarsi nella conoscenza della realtà, un atteggiamento razionale comune: quello, cioè, consistente nell’affrontare i vari implessi di problemi, attraverso una rete programmatica di mosse interpretative e predittive»[32]. Lakatos ci ha lasciato in eredità un campo di battaglia per combattere il mito del quadro, l’irrazionalismo e l’incomunicabilità: i nemici del Novecento.
[1] L. Laudan, The Demise of the Demarcation Problem, in «Boston Studies in the Philosophy of Science», 76, 1983, pp. 111-127.
[2] Ibid., p. 112.
[3] P. Feyerabend, Contro il metodo (1975), tr. it. Feltrinelli, Milano 2005.
[4] L. Laudan, op. cit., p. 111.
[5] M. Pigliucci, M. Boudry, Philosophy of Pseudoscience. Reconsidering the demarcation problem, Chicago University Press, Chicago 2013.
[6] M. Mahner, Demarcating Science from Non-Science, in Handbook of the Philosophy of Science: General Philosophy of Science - Focal Issues, Elsevier, Amsterdam 2007, pp. 515-575.
[7] M. Pigliucci, op. cit., p. 11.
[8] G. L. Linguiti, Imre Lakatos e la «filosofia della scoperta», Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 1981.
[9] I. Lakatos, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici. Scritti filosofici I (1978), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1985, p. 10.
[10] M. Motterlini [a cura di], Sull'orlo della scienza. Pro e contro il metodo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995, p. 153.
[11] I. Lakatos, A. Musgrave [a cura di], Critica e crescita dalla conoscenza, Feltrinelli, Milano 1976.
[12] B. Larvor, Lakatos: An Introduction, Routledge, London and New York 1998.
[13] Ibid., p. 37.
[14] P. Feyerabend, Contro il metodo, cit., p. 149.
[15] I. Lakatos, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici. Scritti filosofici I (1978), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1985, p. 131.
[16] I. Lakatos, Matematica, scienza e epistemologia. Scritti filosofici II (1978), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1985, p. 5.
[17] Ibid., p. 11.
[18] K. R. Popper, Logica della scoperta scientifica, cit.
[19] M. Motterlini [a cura di], op. cit., p. 45.
[20] P. Feyerabend, op. cit., p. 20.
[21] I. Lakatos, A. Musgrave [a cura di], op. cit., p. 78.
[22] Ibid., p. 225.
[23] Ibid., p. 174.
[24] Ibid., p. 190.
[25] M. Motterlini, op. cit., p. 139.
[26] I. Lakatos, A. Musgrave [a cura di], op. cit., p. 191.
[27] Ibid., p. 209.
[28] Ibid., p. 211.
[29] M. Motterlini, op. cit., p. 125.
[30] I. Lakatos, A. Musgrave [a cura di], op. cit., p. 252.
[31] M. Motterlini, op. cit., p. 153.
[32] G. L. Linguiti, op. cit., p. 88.