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Epistemologia della psicoanalisi tra Althusser e Lacan

Autore


Pietro Bianchi - Livio Boni - Alberto Gualandi - Stefano Pippa

PIETRO BIANCHI è PhD candidate in Romance Studies alla Duke University. Ha svolto attività di ricerca all'Università di Udine, alla University of California - Los Angeles e alla Jan Van Eyck Academy di Maastricht LIVIO BONI è ricercatore in filosofia affiliato all'Università di Tolosa II Jean Jaurès, dottore di ricerca in psicopatologia e psicoanalisi e psicologo clinica ALBERTO GUALANDI è autore e curatore di numerose opere dedicate al problema della natura umana, al rapporto tra scienza e filosofia, alla filosofia della biologia, della psicoanalisi e della psichiatria STEFANO PIPPA PhD Candidate in Philosophy, Kingston University, London, Centre of Research in Modern European Philosophy

Indice


Alberto Gualandi, Tra corpo e linguaggio. Il problema dello statuto della psicoanalisi in Althusser/Lacan

 

  1. Criticità psicoanalitiche
  2. La scoperta lacaniana
  3. Psicoanalisi e biologia
  4. Il différend tra corpo e linguaggio: l’inconscio

 

Livio Boni, L’insight althusseriano nella psicoanalisi: elementi per una lettura meta-analitica

 

  1. Il chiasmo Althusser/Lacan
  2. La rimozione della differenza sessuale
  3. Oltre la critica della psicologia

 


 

Stefano Pippa, Althusser senza Lacan. Prospettive a partire dalle Due conferenze

 

  1. Il chiasmo marxismo/psicoanalisi
  2. Sulla presunta rottura epistemologica lacaniana
  3. Cogito (cartesiano-lacaniano) vs immaginario (spinoziano-althusseriano)
  4. Discorso dell’inconscio/Discorso dell’ideologia

 

Pietro Bianchi, La lettera tra scienza e psicoanalisi

  1. Badiou tra Althusser e Lacan
  2. La scienza e i suoi oggetti 3. Il materialismo della lettera

 

 


 

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S&F_n. 13_2015

 

Abstract



The contributions included in this section of S&F_ focus on the problem of the epistemological status of psychoanalysis and its object, the unconscious. They were originally presented in Venice at the Ca’ Foscari University in December 2014, during a debate organized by Maria Turchetto and the Associazione Louis Althusser, following the first Italian translation of the two conferences on psychoanalysis delivered by Althusser at the École Normale in 1963-64 (L. Althusser, Psicoanalisi e scienze umane, Mimesis, Milano 2014). The two conferences, centred around the alleged “epistemological break” brought about by the work of Lacan in the domain of human sciences, provide the authors with the opportunity to examine the relationship between Marxism, psychoanalysis and philosophy in the current theoretical context, and to address such problems as the relationship between the discourse of the unconscious and the theory of ideology, transindividual imaginary and subjective Cogito, body and language, as well as the status of scientific truth. The authors attempt to show the fecundity of an epistemological approach which allows us to reposition the problem of the unconscious in an “interstitial gap” separating body from language, phenomenology from biology, corporeal linguistic signifier (lalangue) from the pure axiomatic of science (matema).


Alberto Gualandi

Tra corpo e linguaggio.  Il problema dello statuto della psicoanalisi in Althusser/Lacan

 

  1. Criticità psicoanalitiche

Le due conferenze di Althusser, pubblicate in Psicoanalisi e scienze umane[1], presentano un evidente interesse storico. Come Livio Boni mette in luce nella Prefazione, un interesse legato al ruolo che la psicoanalisi, e in particolare la psicoanalisi di Lacan, ha giocato nel pensiero francese degli anni ’60. A ragion veduta, Boni parla a questo proposito di una sorta d’infatuazione di Althusser per Lacan, terminata poi in seguito, verso la fine degli anni ’60. Un’infatuazione grazie a cui Lacan appare come una sorta di sujet supposé savoir e come un analogon di Althusser stesso, come colui cioè che ha compiuto in psicoanalisi una rivoluzione parallela a quella compiuta da Althusser nella scienza materialista della storia. Nei termini dell’epistemologia francese, una rottura epistemologica che ha trasformato la dialettica materialista di Marx e la psicoanalisi di Freud in scienze vere e proprie. Che questo tentativo non sia poi andato a buon fine è Althusser stesso ad affermarlo nei suoi scritti degli anni ’70, e Boni ricostruisce gli enjeux teorici e storici connessi con questi cambi di rotta.

Benché sarebbe opportuno approfondire il rapporto tra filosofia francese e psicoanalisi, lacaniana in particolare – e soprattutto la surdétermination teorica di cui essa è stata oggetto, sovradeterminazione che, a mio avviso, consiste nel far giocare alla psicoanalisi il ruolo di antropologia, laddove è evidente che Lacan stesso parte, in realtà, proprio da un’antropobiologia ben determinata, quella di Bolk, ovvero della neotenia – non mi soffermerò, qui, tanto su tali implicazioni storiche e metateoriche, ma mi chiederò, più direttamente, che cosa c’è per noi oggi d’interessante in questo testo. D’interessante, per qualcuno che non è né althusseriano, né lacaniano, ma ha semplicemente a cuore la questione del senso e dello statuto teorico, pratico e politico della psicoanalisi. Immaginiamoci che queste due conferenze si tengano ai nostri giorni, e di capitarvi per caso, senza sapere molto né di Lacan, né di Althusser. Da che cosa resteremmo innanzi tutto colpiti? Direi dal rigore del discorso althusseriano, dal suo stile incalzante e diretto, dal suo «piglio arietino», come ebbe a dire una volta Roberto Dionigi, anch’egli frequentatore a Parigi del Cours de philosophie pour scientifiques e, fino alla fine dei suoi giorni, pensatore profondamente influenzato da Althusser[2]. Rimarremmo colpiti da uno stile argomentativo che la filosofia contemporanea, nella sua autoreferenzialità e involuzione storicistico-ermeneutico-analitica sembra avere completamente abbandonato: procedere per problemi e tesi, enunciati e dimostrati con rigore e chiarezza, quasi cristallina. Quali sono dunque le tesi sostenute da Althusser in queste due conferenze, così come giungono ancora oggi al nostro orecchio?

Innanzi tutto un problema di fondo: qual è il posto di fatto e di diritto che la psicoanalisi occupa all’interno delle scienze umane? Secondo Althusser questo posto è di fatto e di diritto problematico e, potremmo aggiungere, oggi più di quanto lo fosse nel 1963-64, epoca in cui sono state tenute le conferenze, in quanto uno dei due discorsi che mettono a rischio per Althusser la sua tenuta – il discorso tecnocratico delle neuroscienze[3] – è ormai omnipervasivo. Tale problematicità dipende, secondo Althusser, da due fatti principali.

In primo luogo, nel momento della sua nascita e costituzione come discorso scientifico, nel momento del “miracolo freudiano”, la psicoanalisi ha dovuto prendere a prestito i suoi concetti da altri tipi di discorso: in particolare dalla biologia e dalla fisica dell’energia – la termodinamica ottocentesca – e dall’economia classica. Quest’importazione è al tempo stesso segno della sua creatività analogica, ma anche della sua fragilità teorica. Fragilità da cui la psicoanalisi non riuscirà mai a emanciparsi completamente, e che ci impone ancora oggi di riflettere sul suo statuto di scientificità, e sul ruolo che metafore e analogie transdisciplinari, inevitabilmente, giocano in essa.

In secondo luogo, la psicoanalisi postfreudiana non è riuscita, secondo Althusser, a porre riparo a questa fragilità, anzi. Nella maggior parte dei casi – e Althusser prende di mira, qui, la psicologia dell’Io americana e, soprattutto, la sua iniziatrice, Anna Freud – essa ha aggravato ulteriormente la situazione costruendo un ibrido teorico in cui la psicoanalisi appare come una sottospecie della psicologia, sospesa a metà strada tra biologia e sociologia. Althusser afferma tuttavia che anche coloro che tentano di uscire da questa impasse, sostenendo che la psicoanalisi è innanzi tutto una pratica, incorrono in un evidente paradosso, poiché nessuna «teoria della pratica analitica» può trasformarsi magicamente in «una teoria della psicoanalisi stessa»[4]. Mi pare che tale impasse sia aggravata da coloro che credono di poter trovare giustificazione per tale primato della pratica nella teoria dei giochi di linguaggio di Wittgenstein o nell’ermeneutica. Althusser avrebbe affermato che tale teoria della pratica analitica non fa altro che sostituire una moda con un’altra: l’esistenzialismo sartriano o merleau-pontyano, fondato sugli atti intenzionali della coscienza, è rimpiazzato da una dottrina dell’intersoggettività, centrata su una concezione quasi-pragmatista della prassi, in cui l’accadere impersonale e anonimo del linguaggio diviene, magicamente, fondamento di se stesso. Le oscurità dell’esperienza della coscienza sono barattate con le contingenze di un accadere fattuale, tanto cieco e anonimo, quanto istitutore di senso. Ma non inaspriamo l’arte althusseriana della polemica, e ritorniamo alla prima conferenza che si conclude sostanzialmente con una denuncia critica.

 

  1. La scoperta lacaniana

Questo stato critico, sembra dirci Althusser, esprimerebbe ancora oggi la condizione in cui versa la psicoanalisi, se non fosse intervenuto, con la sua aggressività teorica dirompente, un personaggio che nessuno comprende, e che tutti adorano proprio perché aggredisce e insulta, che si chiama Jacques Lacan. Non vorrei ritornare sul ritratto quasi demoniaco – misto di reverenza e ironia, «terrorismo intellettuale» e «impostura teorica» – che ne fornisce Althusser[5]. Mi pare che la Prefazione di Boni ne abbia colto in poche frasi l’essenza. Ciò che mi interessa è richiamare l’attenzione sulla “vera scoperta” operata da Lacan, scoperta che, secondo Althusser, ha definitivamente trasformato la psicoanalisi in una scienza, rivoluzionando completamente il senso della dottrina freudiana stessa. Qual è tale scoperta? La grande scoperta di Lacan, ci dice Althusser nella seconda conferenza, è quella riguardante le modalità attraverso cui il «piccolo d’uomo»[6], l’animale umano prematuro e rallentato, accede alla sua umanità, le modalità attraverso cui il vivente umano s’inscrive nell’ordine simbolico che lo rende umano in senso stretto. Quest’ordine non è affatto quello “continuista” e “stratigrafico”, teorizzato dalla tradizione filosofica classica – da Hobbes fino a Condillac, o dallo stesso Freud, letto soprattutto attraverso la lente deformante di Anna Freud e di Heinz Hartmann – che vorrebbe che il bambino acceda alla propria umanità, oltrepassando la propria natura biologica, cioè la propria animalità, pervenendo alla cultura tramite il linguaggio, e sottomettendo la propria pulsionalità alle leggi della cultura e, in particolare, al nome del padre che gli impone di rinunciare al suo desiderio per la madre. La grande scoperta lacaniana, che rende la psicoanalisi definitivamente una scienza, è quella per cui «la cultura precede sempre se stessa»[7], e che la natura non precorre, nell’animale umano, la cultura. Il vettore, dice Althusser, va dalla cultura verso la natura, e non l’inverso. Attraverso il complesso di Edipo è il linguaggio che ingloba e ristruttura, come per una sorta di Nachträglichkeit simbolica, una natura che è già fin dall’inizio impregnata di esso. In altre parole, la “seconda natura”, che si instaura con l’accesso al simbolico, al linguaggio e alla cultura, non sovrappone le proprie leggi alle leggi della “prima natura”, complessificando l’insieme, ma lasciandone fondamentalmente immutato il senso evolutivo e la direzione adattativa. Ciò che si verifica è un vero e proprio rovesciamento che ristruttura radicalmente l’insieme, sottomette l’inconscio e le pulsioni alle leggi metaforiche e metonimiche del significante linguistico, scinde le dimensioni reali, immaginarie e simboliche della soggettività mostrando che ogni tentativo di ricondurle a un’identità, e farne unità (filosofica o scientifica), è pura illusione ontico-ontologica. L’uomo è un essere fin dall’inizio in balia di un linguaggio che, pur pervenendo a struttura in sé conchiusa nella fase edipica, è sempre e inevitabilmente il linguaggio dell’Altro.

Secondo Althusser, questa scoperta è d’importanza capitale poiché permette d’interrompere a livello epistemologico la presunta continuità, su cui ha creduto di poter ricostituire le proprie basi la psicoanalisi postfreudiana, che connette il biologico col psicologico e in seguito col sociale; e pone la psicoanalisi in una posizione di netta discontinuità rispetto al campo epistemologico all’interno del quale essa ha fatto la sua apparizione. Altra conseguenza di grande rilievo di tale scoperta è che essa permette di separare il soggetto (linguistico, simbolico, politico), dall’individuo (biologico=reale) e dall’Io (filosofico=immaginario)[8], trasformando la psicoanalisi in una vera e propria teoria critica delle formazioni ideologiche, ovvero in uno strumento critico fondamentale per la stessa scienza materialista della storia. Scienza resa così capace – come ha messo in luce Stefano Pippa nella Postfazione – di affondare il bisturi nelle illusioni e false razionalizzazioni della soggettività filosofica moderna, trasformando finalmente il soggetto, in tal modo de-ideologizzato, in soggetto rivoluzionario.

 

  1. Psicoanalisi e biologia

Ora, la mia impressione è che non sia necessario attendere la svolta di Althusser nei confronti di Lacan, rievocata nella Prefazione di Boni, (svolta principalmente di natura politica), per comprendere che, in realtà, la funzione di rottura epistemologica assegnata da Althusser alla teoria lacaniana è, almeno in parte, un abbaglio. A mio avviso essa costituisce un abbaglio perché la presunta rottura di Lacan con la biologia, o meglio con il ricapitazionalismo périmé che sta alla base della teoria freudiana delle pulsioni, e dell’intero impianto riduzionista tardo-ottocentesco della psicoanalisi (impianto che Stephen Jay Gould chiama darwinismo di cartapesta)[9], è in realtà fondato su un’altra teoria – quella bolkiana del rallentamento ontogenetico o, in altri termini, teoria della neotenia – che, per quanto radicalmente alternativa a quella ricapitazionalista, è pur sempre una “biologia”. Come noto, Lacan, da tale dottrina della neotenia, ha derivato numerosi elementi teorici: il tema dell’incompiutezza dell’“animale umano”, della carenza identitaria e istintiva, della prematurazione, della condizione simbiotica e fetale che fa dell’Entzweiung l’evento traumatico originario che condiziona tragicamente (e pre-edipicamente) il destino umano segnato dal desiderio fusionale per l’unità materna. Tali elementi sono stati sapientemente amalgamati – come Althusser nota ironicamente nella seconda conferenza[10] – con teorie psicologiche preesistenti. Oltre che con la dottrina freudiana della castrazione simbolica, essi sono stati miscelati con la dottrina dello specchio di Wallon, o con concezioni filosofiche, come quella della funzione identificante dell’intelletto di Emile Meyerson[11]. Benché la diagnosi althusseriana relativa allo stato critico della psicoanalisi sia ancora attuale, mi pare che la soluzione del problema non consista nell’assegnare alla psicoanalisi uno spazio di discorso completamente separato dalla biologia, come vorrebbe Althusser sulla scorta di Lacan. Quanto piuttosto rifondare la psicoanalisi su una teoria biologica, quella della neotenia che, come ebbe a dire Enzo Melandri[12], anche se non fosse scientificamente vera – ma a mio avviso numerosi indici teorici e risultati sperimentali attuali ci dicono che lo è – lo sarebbe comunque dal punto di vista della sua capacità di descrivere fenomenologicamente il comportamento umano, e prima di ogni altra cosa, la nostra follia.

 

 

  1. Il différend tra corpo e linguaggio: l’inconscio

Cerco brevemente di chiarirmi, ritornando al problema del linguaggio. A mio avviso, il discorso psicoanalitico soffre ancora di ciò che Jean-François Lyotard ha chiamato un différend, un torto fondamentale prodotto dall’incommensurabilità tra regimi di frasi e generi di discorso[13]. Da un lato, la psicoanalisi ha avuto fin dall’inizio la pretesa di proporsi come quel discorso scientifico che ha per oggetto l’inconscio. D’altro lato, i detrattori della psicoanalisi, a iniziare da Popper, hanno sostenuto che tale discorso non soddisfa minimamente i criteri dell’oggettività scientifica, e che l’inconscio, pseudo-entità senza tempo e senza spazio, non può in alcun modo essere identificato con un oggetto scientifico. Ogni tentativo di identificare tale “non-oggetto” con la realtà bioenergetica ibrida della pulsione, o di ricondurlo, come vorrebbero alcuni neuroscienziati contemporanei, al cervello subcorticale e limbico, è, ed è sempre stato, destinato al fallimento. Se tali tentativi avessero del resto successo, la psicoanalisi si trasformerebbe inevitabilmente in altro: in psicologia evoluzionistica, in etologia umana, o neuroscienza dell’ipotalamo o dell’amigdala, per l’appunto. Ora, io credo invece che, benché non sia un oggetto, e sia quindi irriducibile a qualsiasi forza fisica o entità metafisica nascosta, manifestantesi in modo indiretto tramite sogni, sintomi, lapsus, atti mancati o altro, l’esistenza dell’inconscio sia perfettamente dimostrabile in modo semplice e diretto. La prova che l’inconscio esiste è il fatto che c’è del linguaggio o, meglio, che da una parte c’è il linguaggio, e dall’altra c’è un corpo, prematuro, infantile e neotenico, che intrattiene un rapporto prelinguistico e tuttavia comunicativo, sinestesico, immaginativo e metaforico con l’ambiente naturale e umano. L’inconscio non è un oggetto perché esso non è altro che la differenza infinitesimale, e tuttavia incolmabile, lo scarto irriducibile che esiste tra il corpo, vissuto e “centrico”, dell’essere prematuro e neotenico, e il linguaggio, in terza persona ed “eccentrico” che gli è imposto dall’Altro.

Per spiegarmi meglio, cito a questo proposito alcuni passi illuminanti di Daniel Stern: «Il linguaggio apre la strada (sia in senso topografico che in senso potenzialmente dinamico) all’inconscio. Prima del linguaggio tutti i comportamenti hanno la stessa importanza, per quanto concerne il senso di “proprietà”. Con l’avvento del linguaggio alcuni acquisiscono una condizione privilegiata sotto questo punto di vista. I molti messaggi trasmessi dai molti canali vengono frammentati dal linguaggio e disposti in un ordine gerarchico lungo la dimensione responsabilità/ritrattabilità»[14]. Il bambino comprende molto presto che «la sua vocalizzazione, più che il suo gesto, è considerata l’atto di cui è responsabile»[15]. E in tal modo, sembra concludere Stern – in questo scarto tra ciò che è ritrattabile e ciò di cui siamo ritenuti responsabili, nello spazio metaforico, pre-verbale del gesto espressivo, transensoriale e multimodale dei sensi e del corpo – s’insedia l’inconscio.

Ma c’è, continua Stern, «anche un altro tipo di scarto fra esperienza e parole, che merita di essere nominato. Alcune esperienze del Sé, quali la continuità della coesione, il “continuare a esistere” di un Sé non frammentato, fisicamente integrato, rientrano in una categoria analoga a quella del battito cardiaco e del respiro. È raro che queste categorie vengano fatte oggetto di attenzione e richiedano la verbalizzazione. E tuttavia periodicamente giunge alla coscienza una sensazione transitoria di tali esperienze, per qualche motivo inspiegabile o tramite la psicopatologia; l’effetto sconvolgente è quello di un’improvvisa rivelazione del fatto che il Sé verbale e il Sé esistenziale possono essere distanti anni luce, e che il Sé è inevitabilmente scisso dal linguaggio»[16]. E infine un’ultima citazione che apre la strada alla mia conclusione. «Molte esperienze del “Sé con l’Altro”, afferma Stern, rientrano in questa categoria non verbalizzata; guardandosi negli occhi senza parole ci si rivela. E rivelatrice è anche la sensazione che abbiamo degli effetti vitali caratteristici di un’altra persona, le peculiarità del suo fisico, che vengono sperimentate nello stesso modo in cui il bambino sperimenta una macchia di luce sulla parete [cioè in maniera transmodale]. Tutte queste esperienze sono ineluttabili, e ciò che ne risulta è un ulteriore distanziamento fra la conoscenza personale sperimentata in parole e pensieri. (Non stupisce che abbiamo tanto bisogno dell’arte per gettare un ponte tra queste due parti di noi)»[17].

In conclusione, il linguaggio «produce una scissione nell’esperienza del Sé e sposta l’esperienza della relazione dal livello immediato, personale, tipico degli altri campi, al livello impersonale, astratto, intrinseco al linguaggio stesso»[18]. La miglior prova dell’esistenza dell’inconscio è fornita dunque dal fatto che esiste un différend irreducibile tra il corpo e il linguaggio che fa sì che ci sia sempre dell’impensato, e che l’essere umano non possa mai pretendere di essere Uno, completamente corpo vissuto fenomenologico, analogico e “privato”, o completamente linguaggio, intersoggettivamente codificato e discreto. Io credo che psicoanalisti come Daniel Stern o Hans Loewald[19] abbiano mostrato, con modalità e esiti diversi, esattamente questo fatto. Anche Lacan, si potrebbe obiettare, concorderebbe su questa discontinuità tra biologia e cultura, tra corpo e linguaggio. La differenza sta tuttavia nel modo in cui si concepisce il linguaggio: da un lato struttura opposizionale di differenze fonetiche e semantiche organizzate in una rete di significanti, dall’altro voce sensibile, autopercepita e autoprodotta[20], che si radica nei rimandi intersensoriali e comunicativi tra i sensi, i gesti e le azioni, sovraccaricata di contenuti sinestesici sperimentati nel commercio prelinguistico con l’Heteros e con l’Allon[21]. Da un lato, struttura simbolica che dinamizza metaforicamente e metonimicamente l’inconscio, e si erge come legge che impone in modo irreversibile la sua azione di castrazione al desiderio, dall’altra il linguaggio come «arma a doppio taglio». Il linguaggio è infatti al contempo tecnica o strategia che ci consente di «partecipare più facilmente agli altri le nostre esperienze, permette a due persone di dar vita scambievolmente a nuovi significati prima sconosciuti e che non potevano esistere fintanto che le esperienze relative non erano esprimibili a parole [...] e che consente al bambino di cominciare a costruire una narrazione della propria vita»[22]. Ma è anche istanza che separa il processo primario dal secondario (Loewald) e che fa sì che parti scisse della nostra esperienza «divengano più difficilmente comunicabili a noi stessi e agli altri»[23]. In questa prospettiva l’inconscio non è strutturato come un linguaggio, bensì è l’arma a doppio taglio del linguaggio che s’inserisce come un «cuneo fra due forme simultanee di esperienza interpersonale: quella vissuta e quella verbalmente rappresentata. L’esperienza che ha luogo nei campi di relazione emergente, nucleare e intersoggettiva, e che prosegue indipendentemente, non può essere fatta rientrare se non in modo molto parziale nel campo di relazione verbale. E, nella misura in cui agli eventi che hanno luogo nel campo di relazione verbale viene attribuito un valore di “realtà”, ne risulta un’alienazione delle esperienze che hanno luogo negli altri campi, [le quali possono quindi divenire] i campi sommersi dell’esperienza»[24], in altre parole l’inconscio.

È su questo tema della natura del linguaggio che la differenza tra Lacan e queste correnti del pensiero analitico post-freudiano, in gran parte trascurate in Francia, emerge nel modo più netto, anche nel modo di intendere la cura psicoanalitica. Il paradigma psicoanalitico relazionale, così come è stato messo a punto da psicoanalisti come Hans Loewald o Stephen Mitchell, permette infatti di dialettizzare il paradigma ancora in parte “stratigrafico” di Stern, e portare a compimento quell’inversione del vettore in cui risiede secondo Althusser la grande scoperta di Lacan. Tale paradigma relazionale ci insegna che l’incontro con l’Altro contribuisce a strutturare il nostro inconscio ben prima che il linguaggio si conchiuda in struttura simbolica autosufficiente e completa, che detta la sua legge edipica al soggetto: nel vivente neotenico umano «la cultura precede fin da sempre la natura». La psicoanalisi relazionale ci mostra tuttavia che ben prima della fase dello specchio c’è la relazione di rispecchiamento e sintonizzazione multisensoriale (Stern, Anzieu), più o meno riuscita e felice, con l’Altro. Anziché indurre il soggetto a rinunciare a tutte le sue identificazioni immaginarie per riconoscere e accettare l’imperio del significante linguistico sul proprio inconscio, compito della psicoanalisi è piuttosto quello di riattivare possibilità neoteniche congelate al di sotto della scorza imposta all’esperienza dal processo secondario del linguaggio intersoggettivamente codificato, rivitalizzando quelle relazioni comunicative iscritte nei sensi e nel corpo tramite cui si è strutturato fin dai primi giorni di vita il nostro rapporto con noi stessi e con l’Altro. È in questa matrice relazionale che si struttura il rapporto del soggetto con se stesso, e non nella fase immaginariamente surdéterminée dello specchio. Ma se, da un lato, le figure della coscienza infelice: stoica, scettica, nevrotica, narcisistica, ossessiva, psicotica etc. che ne derivano, dischiudono alla psicoanalisi un orizzonte politico e di critica delle funzioni ideologiche veicolate dal linguaggio, d’altro lato esse riconducono la psicoanalisi nei pressi della Cariddi filosofica, dialettico-hegeliana, più di quanto la rottura epistemologica althusseriana avrebbe forse concesso e desiderato.

 


Livio Boni

L’insight althusseriano nella psicoanalisi: elementi per una lettura meta-analitica

 

  1. Il chiasmo Althusser/Lacan

Vorrei proporre qualche breve considerazione a margine e come supplemento a quanto ho già tentato d’articolare nella prefazione a Psicoanalisi e scienze umane, cercando di evitare la pura e semplice ripetizione e di offrire qualche spunto ulteriore per la discussione.

Nel mio saggio introduttivo ho tentato di mettere l’accento sul chiasmo Althusser/Lacan, il quale non si riduce al puro e semplice movimento di Althusser in direzione di Lacan, del tutto evidente a metà degli anni ’60, ma che genera a sua volta anche una serie di contro-movimenti e di introiezioni in Lacan stesso (ed è innanzitutto su questi ultimi che ho cercato d’attirare l’attenzione nella prefazione).

Da poco trasferito il proprio seminario e il proprio sito d’enunciazione all’École Normale e ricevuto asilo presso Althusser e i suoi allievi, Lacan ha infatti cura di dar luogo a un movimento controtrasferenziale, che prende in contropiede il riconoscimento da parte di Althusser della rottura epistemologica freudo-lacaniana introducendo una nuova rottura, questa volta interna al lacanismo stesso, corrispondente all’introduzione delle categorie di soggetto della scienza e di jouissance (godimento), nozioni-chiave del cosiddetto «secondo Lacan». Come ho ricordato nella prefazione, è infatti già nel dicembre del ’65, appena arrivato all’École Normale, che Lacan introduce il soggetto della scienza nel suo seminario, in una seduta talmente cruciale da figurare in seguito come chiosa agli Scritti, con il titolo «La scienza e la verità», unica stenografia del seminario che figuri negli Scritti (1966), e testo concepito all’origine per il primo numero (gennaio 1966) dei Cahiers pour l’analyse, luogo d’incontro e di messa alla prova del sodalizio tra lacanismo e althusserismo.

L’introduzione del concetto di «soggetto della scienza», e il conseguente recupero di Descartes che ne deriva, con il cogito cartesiano considerato addirittura “archi-condizione” per l’emergenza del soggetto dell’inconscio, rappresentano qualcosa di più che uno smarcamento rispetto alle posizioni assunte da Althusser tra il ’63 e il ’65, ma configurano un vero e proprio spostamento di prospettiva epistemica, e inaugurano una nuova strategia ideologica, che non mancherà di sconcertare Althusser, il quale si rifiuterà di seguire Lacan in questa nuova direzione, tornando anzi a Freud, questa volta contro il lacanismo, o comunque, prendendo le distanze da quest’ultimo (vedasi l’affaire di Tiblisi e il testo La scoperta del dottor Freud, in seguito ritirato da Althusser dopo gli avvisi negativi di alcuni suoi allievi lacaniani, in particolare Elisabeth Roudinesco e Jacques Nassif, ma pubblicato a suo discapito).

Il lavoro incompiuto Tre note sulla teoria dei discorsi costituisce in questo senso un documento eloquente del tentativo non finalizzato, da parte di Althusser e dei suoi allievi, di rispondere al contro-transfert lacaniano, e come tale mi sembra che andrebbe riletto. A partire da questo tentativo incompiuto di rispondere alla svolta imboccata da Lacan, la strada intrapresa da Althusser nel suo confronto con la psicoanalisi si affrancherà sostanzialmente dal divenire della riflessione di Lacan, e Althusser realizzerà in seguito un’appropriazione autonoma e idiosincratica della psicoanalisi lacaniana nella teoria dell’interpellazione dell’individuo in soggetto nel dispositivo dell’ideologia.

Questo era il primo punto che m’interessava mettere in esergo: come la crisi del transfert tra il marxismo althusseriano e il lacanismo sia stata in qualche modo inaugurale, pur continuando a produrre degli strascichi da entrambe le parti. Si può infatti sostenere che, dopo aver realizzato questo smarcamento inaugurale, o questa sottrazione, rispetto al transfert althusseriano, Lacan tornerà più tardi a utilizzare a suo modo alcuni elementi provenienti dalla proposta elaborata da Althusser e dai suoi allievi intorno al ’65. Ad esempio la famosa tesi, enunciata nell’ottobre ’68, secondo la quale Marx sarebbe l’inventore del sintomo, in quanto scopritore del segreto del «plusvalore» che restava implicito nell’economia classica. Si può in effetti leggere questo assioma lacaniano come una trasposizione della tesi althusseriana della lettura sintomale come metodo prefigurato da Marx stesso e in Marx stesso. La stessa teoria dei «Quattro discorsi», elaborata da Lacan dopo il ’68, può esser letta come una risposta al tentativo, che menzionavo or ora, d’elaborare una teoria generale dell’economia dei discorsi da parte di Althusser e dei suoi allievi. E, più in generale, il ricorso sui generis a Marx da parte di Lacan tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 sembra avere il senso di un riassorbimento del marxismo althusseriano nel momento stesso in cui quest’ultimo entra in crisi, sembrando in qualche modo, per dirla con il Derrida di Spettri di Marx, «out of joints».

In breve, e senza entrare nei dettagli, credo che la pubblicazione di queste conferenze inedite debba incoraggiarci a percorrere una pista critica meno battuta, quella degli effetti paradossali e differiti del transfert althusseriano sull’itinerario di Lacan medesimo, e su una certa introiezione di alcuni motivi althusseriani in Lacan, introiezione che al tempo stesso non preclude affatto un lavoro di trasmutazione di questi stessi temi (come nel caso della teoria dei «Quattro discorsi», che non è una teoria epistemologica, ma una teoria delle funzioni transferenziali del discorso).

Credo, insomma, che la riflessione sul rapporto tra Lacan e Marx non possa fare l’economia – come invece suggeriscono alcuni studiosi lacaniani vicini al marxismo (penso a Pierre Bruno) – della complessità della triangolazione introdotta dalla mediazione althusseriana. Lacan non è in una splendid isolation nel suo confronto con Marx, il suo dispositivo teorico non è del tutto sovrano e libero da ogni dimensione congiunturale, ma al contrario reagisce “controtrasferenzialmente” a una serie di sollecitazioni, appelli e investimenti esterni, operando in maniera analitica, vale a dire disattendendoli, fornendo risposte che non assecondino ma trasformino la domanda iniziale, in un misto tra estrema ricettività e sordità che è proprio alla posizione analitica, anche quando questa si situa al livello dello scambio della produzione intellettuale.

Questo era il primo punto che m’interessava enucleare e argomentare nella prefazione e che ho qui ricapitolato in maniera estremamente sintetica[25].

 

  1. La rimozione della differenza sessuale

Il secondo punto riguarda l’approccio alla psicoanalisi e a Freud quale emerge dal testo di queste conferenze, a prescindere dal loro contesto e dalle complicazioni del chiasmo Althusser/Lacan.

La domanda può esser formulata in termini alquanto drastici: in che misura queste conferenze possono costituire una buona introduzione al rapporto filosofia/psicoanalisi, o a quello tra scienze umane e psicoanalisi, o addirittura una buona introduzione a Freud e alla psicoanalisi tout court? O, per dirla nei termini di Alberto Gualandi, che impressione si ricava da questi testi allorché non li si legga né more lacaniano, né more althusseriano, ma come testi d’introduzione alla psicoanalisi e al freudismo?

Vorrei fare una premessa, che ho tralasciato nella mia prefazione, ma sulla quale non mi sembra inutile rivenire in quest’occasione: un elemento che colpisce alla lettura di queste due conferenze, che pure per più versi costituiscono un’introduzione critica lucida ed efficace ad alcune operazioni fondamentali realizzate da Freud e dalla psicoanalisi, è l’assoluta assenza della questione della differenza sessuale. Non vi è traccia, in effetti, in queste conferenze, né in altri scritti di Althusser sullo stesso argomento, del fatto che la psicoanalisi muova i propri primi passi a partire dal corpo delle isteriche, dal cosiddetto problema della conversione isterica. Il personaggio clinico-concettuale che domina la narrazione teorica althusseriana non è la donna, non è l’isterica, ma è il bambino, nella fattispecie Victor, l’enfant sauvage studiato dallo psichiatra Itard, precursore della psichiatria infantile, cui Althusser dedica pagine appassionate nella seconda conferenza. Come se la priorità di Althusser in questo suo primo corpo a corpo con la psicoanalisi fosse quella di estorcere a quest’ultima un’antipedagogia, un approccio irriducibile a ogni psicologia dell’adattamento, del condizionamento, dell’apprendimento attraverso una conformazione strumentale tra linguaggio e bisogni. Insomma, un approccio roussauviano alla psicoanalisi, che traspare nella rilettura althusseriana del caso di Victor...[26]. Comunque sia, l’immagine del bambino è ricorrente e privilegiata nei testi althusseriani sulla psicoanalisi. Penso alla parte finale dell’articolo Ideologia e apparati ideologici dello Stato, in cui il battesimo e l’identificazione dell’infante, attraverso l’attribuzione di un nome proprio, vengono addotti come esempi d’interpellazione ideologica originaria; o ancora all’inizio dello scritto su Freud e Lacan, in cui Nietzsche, Marx e Freud sono presentati come enfants terribles che non erano previsti dalla storia, come punti di eccesso rispetto a ogni prefigurazione ideologica preventiva.

Insomma, credo ci sia materia sufficiente per interrogarsi su questa centralità della questione pedagogica in Althusser, e su quest’idea che la psicoanalisi possa funzionare come una contro-pedagogia, una decostruzione dell’alienazione indotta dall’educazione, sebbene Althusser non indulga mai all’idea freudo-marxista di una liberazione vera e propria dai vincoli repressivi dell’educazione, ma pensi piuttosto a un décalage, uno spostamento. Freud sostiene da qualche parte che la psicoanalisi sia una «ri-educazione», nel senso di un’educazione ulteriore, che disfi i nodi, i complessi e le inibizioni indotte dall’educazione familiare, scolastica e socialmente riconosciuta. Forse Althusser non è così lontano da una simile prospettiva.

Da qui la posizione frontale assunta da Althusser contro il post-freudismo incarnato da Anna Freud e Mélanie Klein, che egli considera regressivo e conformista. Non si dimentichi che uno degli elementi fondamentali del post-freudismo ortodosso di Anna Freud, così come di quello eterodosso di Klein, è proprio l’allargamento della psicoanalisi alla psicoanalisi infantile. L’infans, e persino il neonato, diventano il soggetto centrale, e il rapporto madre-bambino il luogo decisivo della psicogenesi analitica postfreudiana. Mi sembra che la virulenza althusseriana contro una simile prospettiva non sia dovuta solamente alla sua adesione convinta alla critica della psicologia dell’Io già avanzata da Lacan, o contro la psicologia dell’adattamento, ma all’idea che, se si aderisce alla prospettiva post-freudiana, allora la psicoanalisi come «contro-educazione», come contro-pedagogia, non è più veramente possibile, nella misura in cui tutto si gioca ormai nelle prime fasi dell’esistenza, nei rapporti fantasmatici originari, nelle esperienze “archi-originarie” di soddisfacimento, di frustrazione e di riconoscimento. In una simile prospettiva, la psicoanalisi prenderebbe sostanzialmente congedo dalla vis pedagogica, o anti-pedagogica (in un certo senso è la stessa cosa), della filosofia, per non parlare dell’inservibilità politica, o metapolitica, di questa psico-genealogia radicale indotta dal post-freudismo.

È quindi significativo il fatto che sia il duo Anna Freud/Mélanie Klein a incarnare questo rischio regressivo – malgrado la rivalità arcinota tra le due donne e le posizioni da esse incarnate. Come se il femminile, “forcluso” nella ricostruzione althusseriana della scoperta analitica, tornasse poi in forma fantasmatica, come spettro di un riassorbimento regressivo, di una negazione radicale di qualsiasi destino eroico del bambino e dell’uomo, fagocitato dal rapporto arcaico con la madre. Non vorrei essere oltranzista nell’avanzare quest’impressione analitica che mi sembra di poter ricavare dalla lettura di queste due conferenze – ma anche di altri testi althusseriani sulla psicoanalisi – l’impressione che il femminile, rimosso dalla presentazione dell’evento freudiano e dalla sua disamina antropologica ed epistemologica faccia poi ritorno in forma di fantasma della madre castratrice. Resta il fatto che qualcosa del genere traspare dalla parola althusseriana, a tal punto che, per quattro o cinque volte, egli commette dei lapsus, condensando i nomi di Anna Freud e di Mélanie Klein («Mélanie Freud»), o confondendo la prima con la seconda (come attestato dalla registrazione a partire dalla quale è stabilito il testo delle conferenze).

 

  1. Oltre la critica della psicologia

Un’ultima osservazione, importante, per rispondere parzialmente alle analisi di Alberto Gualandi, che sottoscriverei in gran parte, pur essendo i miei riferimenti culturali e filosofici alquanto diversi dai suoi. Sono d’accordo sul fatto che si trascuri troppo spesso il fatto che Lacan usi una certa biologia contro il biologismo freudiano, e che vi sia una notevole parte di fraintendimento o di pigrizia intellettuale nel continuare a reiterare l’idea di una rottura e un’emancipazione radicale di Lacan da ogni riferimento alle scienze della natura, ecc. (si pensi all’importanza dell’etologia nell’opera pubblicata e nei Seminari di Lacan). Non credo però che Lacan si possa ridurre al cosiddetto “primo Lacan”, al Lacan dell’«inconscio strutturato come un linguaggio», al Lacan anni ’50 del primato epistemologico della linguistica e del simbolico. La vitalità attuale del lacanismo è essenzialmente incentrata sul cosiddetto «secondo Lacan», quello del paradigma del «godimento», del primato del Reale. Mi pare che una nozione come quella di lalangue ( la «lalingua»), avanzata all’inizio degli anni ’70, indichi chiaramente che il linguaggio s’inscrive toujours-déjà nel corpo, che il linguaggio (o piuttosto la lalingua, neologismo che rinvia alla lallazione infantile e a momenti primigeni di appropriazione del linguaggio da parte del neonato in interazione con la madre o con chi ne faccia le veci) non è solo un thesaurus di significanti concatenati da un phallus; non è solo il luogo in cui si è parlati dall’Altro, ma è il luogo in cui prende forma prematuramente il godimento, forma sempre-già articolata al corpo, sempre-già incistata in esso, alienata alla corporeità e non solo alla riserva simbolica rappresentata dal grande Altro della «linguisteria». Attraverso una nozione come quella di lalingua, al limite tra l’onomatopea e il gioco di parole, Lacan procede a un’autocritica parziale del proprio logocentrismo residuale, del sovrainvestimento del linguaggio come logica. «Il y a dans le langage quelque chose de trop conceptuel, de trop logique», scriverà sul numero 6/7 di Scilicet. «Il linguaggio è quel che si cerca di sapere a proposito della funzione della lalingua», ribadirà nel seminario XX, Ancora. Questo non significa che la lalingua traduca d’ora in avanti l’inconscio. Lacan non cede mai a una mistica dell’incarnazione enigmatica e indicibile, l’inconscio «non può che strutturarsi come linguaggio»[27], definirsi cioè rispetto a un andirivieni tra codificazione e decodificazione, ma questo linguaggio possiede tuttavia un versante incarnato, incorporato, intricato al godimento, che rinvia a una forma di appropriazione pre-speculare del linguaggio stesso da parte del piccolo d’uomo, al rapporto bambino-madre (o al rapporto con un ersatz della madre), cioè a un versante «reale» sul quale il linguaggio stesso non può che formulare, dirà Lacan, che una serie di ipotesi (è qui che ritroviamo il différend linguaggio/corpo, rivendicato da Gualandi, come luogo di produzione d’inconscio).

Ci sarebbero ancora tanti punti da abbordare, che non ho trattato nella mia prefazione: per esempio sarebbe utile tornare sulle ragioni per le quali Lacan considererà, nello stesso esatto periodo di queste due conferenze althusseriane, la nozione d’inconscio fondamentalmente incompatibile con qualsiasi ontologia, congedando Spinoza nel momento stesso in cui Althusser lo rilancia come anti-Descartes[28]. Ma preferisco concludere con una considerazione d’ordine più (meta)politico: se è vero che l’insight althusseriano nella psicoanalisi, nutrito da un forte transfert con l’opera e la figura di Lacan, si fonda su una lettura parziale di quest’ultimo, ignorando il Lacan “post-strutturalista” del godimento e del primato del Reale sul Simbolico; se è vero ugualmente che una serie di malintesi (come quello circa il soggetto della scienza) presiederanno al divenire del rapporto althusseriano con il lacanismo e con la psicoanalisi, resta il fatto che l’equazione althusseriana fondamentale Io = Immaginario = Ideologia, già presente per più versi in queste conferenze, produrrà un effetto di lunga durata non solo nella ricezione della psicoanalisi da parte del marxismo e della filosofia, ma in un certo senso in seno alla psicoanalisi stessa. Un tratto distintivo della cultura analitica freudo-lacaniana, soprattutto nel contesto francese, consiste infatti nel considerare la psicoanalisi come una critica implicita dell’ideologia, o meglio come un lavoro di sottrazione del soggetto rispetto alle identificazioni ideologiche che ne sovradeterminano una parte consistente di produzione desiderante e sintomatica. Detto in altri termini, la mediazione althusseriana ha concorso potentemente a una certa inflessione del freudismo, il quale non si contenta più di rivendicare una postura a-ideologica, non rimuove la questione dell’ideologia in nome di un ideale scientista di neutralità, lasciandosi in tal modo la possibilità di operare corrosivamente nei confronti dell’ideologia, considerata un travestimento e una capitalizzazione del disagio della civiltà.

 


Stefano Pippa

 

Althusser senza Lacan. Prospettive a partire dalle Due conferenze

 

  1. Il chiasmo marxismo/psicoanalisi

Se dovessimo porci la domanda circa l’importanza che possono avere oggi le due conferenze pronunciate da Althusser nel 1963-64[29] tra le mura dell’École Normale, potremmo addurre innanzitutto l’esigenza di portare a conoscenza del pubblico italiano un testo postumo che ancora non era stato tradotto e che, del resto, è ormai introvabile anche in francese. In secondo luogo, si potrebbe tentare di fornire una risposta più “althusseriana”. Si tratterebbe, in questo secondo caso, di provare a chiarire in che modo il contenuto di queste due conferenze sulle psicoanalisi possa avere un effetto sulla concettualizzazione del chiasmo marxismo/psicoanalisi. Va da sé che questa seconda ragione ci impegna in una presa di posizione circa il modo in cui l’intervento althusseriano di intersezione di marxismo e psicoanalisi continua a produrre effetti teorici nelle modalità odierne di effettuazione di una tale intersezione.

Per quanto concerne la congiuntura attuale, è evidente che oggi il chiasmo marxismo-psicoanalisi è ben lontano dalla “stagione eroica” degli anni ’60 del secolo scorso. Nondimeno il duplice riferimento a questi due campi continua a essere un punto imprescindibile per buona parte del pensiero critico contemporaneo, in autori come Badiou e Žižek, ad esempio, ma anche Butler e in altri autori della scuola di Lubiana come Dolar, Zupančič, Močnik. In questa congiuntura, che si richiama sia a Althusser che a Lacan, direi che la funzione di Althusser si può definire come quella di una convocazione e di un rifiuto. Nel discorso critico contemporaneo (dominato dalle figure di Badiou e Žižek), Lacan prende nettamente il sopravvento su Althusser. Ma non solo: Althusser è sovente letto esclusivamente nei termini della filosofia di Lacan, cosicché la specificità dell’operazione althusseriana di intersezione di marxismo e psicoanalisi va sovente perduta, o trascurata. In questo senso, le due conferenze, rappresentando il primo passo di Althusser nel dominio della psicoanalisi lacaniana, sono utili per tentare una riconsiderazione del rapporto di Althusser con la psicoanalisi e della strategia teorica che viene messa in moto per dare consistenza a un tale rapporto.

Esse fanno parte, come è noto, del periodo più strettamente teoricista di Althusser: è evidente in esse un approccio nettamente epistemologico, volto a stabilire con cura le “frontiere” tra discipline afferenti al generico campo delle scienze umane. Ma l’interesse maggiore sta secondo me altrove. Sta precisamente nell’intreccio emergente in esse tra il marxismo althusseriano – allora in piena gestazione – la psicoanalisi e l’apporto di Spinoza. Questa triade fornisce la triangolazione primaria sulla quale Althusser tenterà di forgiare il suo marxismo e i propri strumenti filosofici ed epistemologici, ma è anche una triangolazione assai instabile – e questa instabilità appare evidente fin dall’inizio, cioè appunto fin da queste conferenze. Ciò che intendo dire è che il valore principale di queste conferenze è forse nel metterci di fronte a una certa problematicità che fin dall’inizio marca l’avvicinamento di Althusser a Lacan; ed è questa problematicità che rende difficile, a mio avviso, avallare la tesi di una fascinazione teorica di Althusser verso Lacan.

 

  1. Sulla presunta rottura epistemologica lacaniana

Per questo motivo mi sembra interessante soffermarsi in profondità sugli elementi di divergenza che emergono in queste conferenze nei confronti di Lacan. Ma facciamo un passo indietro, e chiediamoci: che cosa rappresenta, innanzitutto, l’incontro di Althusser con Lacan? La specificità di queste due conferenze rispetto ad altri testi scritti da Althusser su Lacan è che esse insistono molto sull’aspetto della rottura, direi proprio sull’effetto di rottura che Lacan produce in Althusser rispetto a una idea di psicoanalisi ben determinata: quella di Politzer. Il ruolo giocato da Politzer nella formazione di Althusser lungo gli anni ’50 è stato sovente trascurato dalla critica: di norma il rapporto di Althusser con la psicoanalisi si fa cominciare con gli anni sessanta. Ma in realtà, per comprendere la funzione svolta da Politzer per il pensiero di Althusser è necessario tenere conto che Althusser intuisce fin dal 1948 l’importanza della psicoanalisi freudiana e la possibilità di un suo utilizzo per una teoria delle ideologie, e mostra già una buona conoscenza delle opere di Freud. Nella tesi di laurea del 1948, Freud viene mobilitato per descrivere l’origine del mito e dell’ideologia nella repressione della categoria di realtà, prima nel Sollen kantiano e poi nelle opere post-fenomenologiche di Hegel (in particolare la Filosofia del Diritto e le Lezioni sulla filosofia della storia)[30]. Negli anni successivi, la relazione di Althusser nei confronti della psicoanalisi va incontro al veto pronunciato dalle istituzioni comuniste ufficiali nei confronti dell’opera freudiana. Ma vari documenti per lo più inediti – appunti di lettura e note di lavoro, oltre che trascrizioni di corsi all’École – mostrano una attenzione di Althusser verso la psicologia – in particolare di Piaget – cui si accompagna sempre più una critica di tipo epistemologico[31]. È in questo contesto che, come spiega Althusser in queste due conferenze, egli si rivolge a Politzer e arriva a quella “sintesi paradossale” che individua nell’inconscio l’oggetto della psicologia. Sintesi insostenibile per lo stesso Althusser, ovviamente, ed è in questa tensione tra l’esigenza di una valorizzazione dell’opera di Freud e l’insistenza sul “concreto” che proveniva dalla psicologia sovietica (di cui però Althusser rifiuta il riduzionismo, come mostrano altre note depositate all’archivio Althusser dell’IMEC), che l’opera di Lacan si inserisce come una possibilità e una via di uscita. Del resto bisogna notare anche che, se ci atteniamo a quanto ne dicono autorevoli esponenti di quell’epoca fervida, fu proprio la critica di Politzer avanzata da Laplanche e Leclaire nel loro articolo L’inconscient: une étude psychanalytique[32], a produrre in Althusser quella rottura personale con la sua sintesi impossibile di psicologia e inconscio[33]. Questo articolo, presentato nel 1960 – quindi appunto prima delle due conferenze – a Bonneval, rappresentò per molto tempo il testo di riferimento per la nuova concezione della psicoanalisi di ispirazione lacaniana, in mancanza degli Écrits, che come è noto verranno pubblicati solo nel 1966; ma è anche l’unico testo “lacaniano” che prende le misure degli “errori” di Politzer, che più tardi Althusser definirà “geniali”. Questo apparente ossimoro, come ha notato giustamente Balibar, dà nella sua fulminante brevità l’idea del complicato rapporto che Althusser ha intrattenuto con l’opera di Politzer.

Ma per tornare all’articolo di Leclaire e Laplanche: che cos’è che i due autori criticano in Politzer? Due punti, essenzialmente. Il primo aspetto è l’idea di “prima persona”, introdotta da Politzer nella sua critica alla metapsicologia freudiana. Per Politzer, infatti, Freud sarebbe caduto in contraddizione con se stesso, prima introducendo un metodo di analisi del sogno come “atti in un dramma in prima persona”, per poi alla fine sostituire a questo “dramma” una spiegazione “impersonale”, un “meccanismo” che non riesce a mantenersi al livello della soggettività. Leclaire e Laplanche obiettano a Politzer che voler ridurre l’inconscio a una scena di un “dramma” in prima persona impone una notevole restrizione alla scoperta freudiana, poiché uno dei cardini della dottrina di Freud è che il processo onirico può presentarsi appunto «nella forma alienata della seconda o della terza persona»: «quando ça parle nell’inconscio, noi troviamo per l’appunto l’unità drammatica così cara a Politzer, ma questo dramma non ha necessariamente la forma di una prima persona»[34]. Questo punto è uno dei punti cardine della critica di Althusser, che non smetterà di attaccare Politzer per il suo uso del concetto di “prima persona” e di “dramma”. Ma la seconda obiezione di Leclaire e Laplanche è ancora più importante, e qui si innesta in effetti con maggior pregnanza il discorso di Althusser. I due autori infatti mostrano che la critica di “realismo”, che Politzer rivolge a Freud, si basa su un presupposto essenzialmente di natura fenomenologica, che cerca di pensare il significato del testo del sogno come una traduzione di gesti, emozioni, intenzioni del soggetto stesso, che non ha trovato possibilità di esprimerli in altra maniera. Ora, Politzer senz’altro prende posizione contro la trasparenza del cogito cartesiano; tuttavia questa opacità dà luogo a una duplicità di livello del tipo significante e significato, in cui l’inconscio diventa una riserva di significati. Qui l’obiezione di Leclaire e Laplanche è netta: questa ipotesi, di tipo schiettamente ermeneutico, non rende conto dei dati dell’analisi. Proprio il collegamento di Politzer con la fenomenologia, soltanto accennato nell’articolo, sarà sviluppato da Althusser, e diventerà in fondo la base per ogni sua critica seguente alle interpretazione “ermeneutiche” dell’opera freudiana.

A questa linea di “rottura” con – si potrebbe ben dire – la propria precedente coscienza filosofica, non si associa però una completa adesione di Althusser al progetto lacaniano. Anzi, proprio in due queste conferenze Althusser avanza elementi di critica all’opera di Lacan che non si trovano nel celebre Freud e Lacan[35], scritto dopo queste conferenze ma con scopo particolare: esso fu scritto, come ricorda Boni nell’introduzione, per accreditare la psicoanalisi presso il mondo comunista e per aprire una breccia nel silenzio da cui l’opera di Freud era all’epoca circondata. Di contro a quello scritto le due conferenze presentano una analisi meno marcata dall’immediata finalità pratica di intervento congiunturale; in esse emergono pertanto già in maniera più netta gli elementi di dissenso verso l’impresa di Lacan, che costituiscono, a ben vedere, una sorta di “dissenso originario” su cui Althusser non cambierà mai idea. Non sorprenderà, di conseguenza, che due testi apparentemente distanti come queste due conferenze e le Tre note sulla teoria dei discorsi[36] contengano di fatto lo stesso nucleo tematico fondamentale, e anzi che le seconde si presentino come sviluppo e continuazione di ciò che all’interno delle prime è soltanto annunciato.

 

  1. Cogito (cartesiano-lacaniano) vs immaginario (spinoziano-althusseriano)

Questo nucleo è da individuarsi in due punti precisi: il primo è una critica epistemologica di Lacan; il secondo, l’opposizione Cartesio-Spinoza attorno al concetto di “immaginario”. Per quanto riguarda la critica epistemologica, l’obiezione che Althusser solleva qui è la questione circa la fondazione, da parte della psicoanalisi, del proprio statuto di scienza. Althusser scrive infatti:«può la psicoanalisi, di per se stessa, modificare la topologia del campo [delle scienze umane], cioè cambiarne la natura e le divisioni interne? […] Lacan pensa in effetti che la psicoanalisi possa ristrutturare il campo nel quale sorge. Ma la cosa è forse al di là delle sue possibilità»[37]. Il secondo punto cruciale è l’inserimento del riferimento a Spinoza nella parte finale della seconda conferenza, già di per sé meritevole di attenzione, in quanto costituisce forse il primo testo in cui Althusser si dilunghi su Spinoza e sulla sua concezione dell’immaginario, che diventerà poi, come è noto, il riferimento cardine del “materialismo dell’immaginario” con cui Althusser cercherà ristrutturare la teoria marxista dell’ideologia. Qui Althusser introduce una prospettiva anticartesiana a partire da una genealogia storica della psicologia come disciplina che fa sintesi di elementi eterogenei: una nozione biologica e sociale di individuo, una nozione di soggetto come soggetto di imputazione morale e politica, un ego come operazione di sintesi trascendentale dell’oggettività[38]. Ma quello che interessa maggiormente qui è che Althusser individua nel cogito di Cartesio esattamente l’opposto di ciò che Lacan, nel 1965, vedrà in esso, e cioè l’istanziazione storicamente capitale del soggetto della scienza. Per Althusser il soggetto cartesiano è sì una (ri)fondazione della scienza, che l’epistemologo contemporaneo può rileggere oggi come il necessario intervento di ripensamento del campo teorico nel momento cruciale della nascita della “nuova scienza”; ma il problema, per Althusser, è piuttosto: perché questa rifondazione ha preso la forma di una filosofia del soggetto e del giudizio? La risposta di Althusser si colloca su un livello che rimane estraneo al pensiero di Lacan, su un piano assieme storico-ideologico ed epistemologico. Essa è da ricercarsi nel misconoscimento da parte di Cartesio della coupure (storica) tra verità ed errore, misconoscimento che è reso possibile dal recupero di questa stessa coupure nei termini di un semplice partage tra verità ed errore nella forma di una filosofia dell’ego e del giudizio. Il risultato dell’operazione cartesiana è duplice: da un lato, egli misconosce il problema del rapporto complesso tra verità ed errore; dall’altro pensa il rapporto del soggetto con la verità, e quindi la costituzione dell’oggettività, secondo la categoria giuridico-morale dell’imputazione[39]. Anche se non è possibile qui entrare nei dettagli di questa lettura, è necessario rimarcarne la più importante conseguenza. La ricaduta capitale dell’operazione cartesiana è per Althusser che essa rende impossibile pensare l’immaginario altrimenti che come errore, e quindi come una “inconsistenza”. Di fronte a questa riduzione, Althusser introduce Spinoza, avanzando l’audace ipotesi che la rinuncia di Spinoza al cogito offra allo stesso tempo la possibilità di rivalutare anche il soggetto psicologico in senso non soggettivistico, ovvero di operare il passaggio dall’immaginazione come facoltà di un soggetto all’immaginazione “come mondo”. Questa prospettiva è per Althusser fondamentale, in quanto apre alla possibilità di concettualizzare l’immaginario in senso “transindividuale”, come istanza oggettiva dotata di una funzione all’interno della formazione sociale in cui essa esiste. Ora, quello che mi sembra cruciale è il fatto che il riferimento all’immaginario, in queste due conferenze, non passi affatto attraverso Lacan. Anzi, questo concetto di derivazione spinoziana si mostra incompatibile con l’immaginario lacaniano, che è sì luogo di un fondamentale misconoscimento, ma di un misconoscimento che è del tutto pre-politico[40]. La questione dunque che queste pagine althusseriane aprono è se sia in definitiva fondata l’idea che Althusser prenda da Lacan i concetti con cui pensare la sua teoria dell’ideologia – una questione che porta sovente alla conclusione che Althusser confonda, oscilli, o in definitiva tradisca i concetti di Lacan. Questa linea interpretativa, mi pare, dovrebbe invece fare i conti con il fatto che fin dall’inizio la riflessione sull’immaginario in Althusser è totalmente spinoziana, e la distanza dai concetti di Lacan si mostra proprio nel fatto che anche in queste conferenze, quando si tratta dell’immaginario, Lacan non è praticamente mai menzionato.

 

  1. Discorso dell’inconscio/Discorso dell’ideologia

Questi due assi di disaccordo, o sarebbe meglio dire di distanza tra Althusser e Lacan, riemergono d’altra parte con forza nel 1966 sia nelle Lettere a D. che nelle Tre note sulla teoria dei discorsi. Da questo punto di vista, dunque, le due conferenze sulla psicoanalisi possono essere lette come la premessa teorica della critica che in questi due gruppi di scritti, elaborati a breve distanza l’uno dall’altro in un arco di quattro mesi, verrà portata a un più alto livello di dettaglio. Sarebbe interessante vedere i diversi livelli su cui si articola la presa di posizione di Althusser e le implicazioni per la sua teoria dell’ideologia; in questa sede mi preme però rilevare che appunto i due assi principali sono la critica epistemologica concernente la fondazione epistemologica della psicoanalisi all’interno del campo delle scienze umane, e di nuovo un ritorno sul problema del soggetto, ovvero una ripresa del problema Spinoza-Cartesio. Per quanto riguarda il primo punto, Althusser concede volentieri a Lacan di aver compreso l’importanza della linguistica come teoria che può fornire una base per rifondare la scientificità del campo psicanalitico, ma si mostra insofferente verso la riduzione del significante a significante linguistico. La critica all’“idealismo del significante” che ne segue ha di fatto due obiettivi complementari: da un lato intende criticare l’assolutizzazione del modello linguistico che per Althusser deriva da una impropria e non criticata valorizzazione di Lévi-Strauss, il cui strutturalismo è per Althusser uno strutturalismo riduzionista; dall’altro si propone di ampliare la nozione di significante distinguendo sia la struttura dei diversi tipi di discorso che sono presenti all’interno di una qualsiasi formazione sociale (Althusser ne analizza quattro: scienza, ideologia, discorso estetico e discorso dell’inconscio), sia il tipo di significante che pertiene a ognuno di essi. Se è chiaro che Althusser ha come proposito quella di costruire una teoria dei diversi discorsi, attenta alla specificità di ciascun discorso, il suo problema è anche quello di comprendere il modo in cui questi discorsi si articolano l’uno sull’altro. Ora, è qui che di nuovo emerge il problema del soggetto. Althusser infatti parte dall’idea che ogni discorso produca un “effetto-soggetto”, assunto la cui conseguenza è che esistono diversi effetti-soggetto prodotti dai diversi tipi di discorso. Ma ben presto risulta chiaro che è il discorso ideologico a essere il discorso primario, quello che di fatto rappresenta l’elemento su cui si articolano tutti gli altri. Questo discorso ideologico, che coincide con l’immaginario transindividuale di Spinoza, diventa infatti (nella terza nota) l’unico discorso a produrre un effetto-soggetto mediante l’operazione di “interpellazione”, possibile grazie alla struttura centrata e speculare di questo discorso[41]. Qui Althusser è molto più chiaro di quanto non sia nei testi sugli apparati ideologici di stato: il discorso ideologico non coincide affatto con l’inconscio, e il discorso ideologico non è inconscio se non nel senso descrittivo, come non-conscio. Il discorso dell’inconscio propriamente detto, invece, è per Althusser subordinato a quest’ultimo, nel senso che per Althusser produce i suoi effetti sempre e solo a partire dalle “formazioni vissute” in cui l’individuo si viene di volta in volta a trovare. Ma qui appare anche una precisazione fondamentale della teoria althusseriana dell’ideologia. La distinzione tra i due discorsi gli permette infatti di pensare una articolazione (contingente) dell’uno sull’altro, introducendo l’idea che il rapporto tra il discorso dell’inconscio, il quale “cerca” di esprimersi, può (come può non) “fare presa” e quindi “parlare” (o no) nel discorso ideologico, andando – nel caso di una “presa”– a rafforzare il riconoscimento/misconoscimento implicito nella costituzione dell’individuo in soggetto ideologico, introducendo nel discorso ideologico un “effetto-libido”[42]. D’altra parte, Althusser critica proprio l’idea, che trova in Lacan, di un troppo rapido schiacciamento del discorso ideologico sul discorso dell’inconscio, poiché per Lacan esiste ancora un soggetto dell’inconscio, ovvero l’inconscio è ancora organizzato come soggetto. Difficile sottrarsi all’impressione che qui Althusser ponga a Lacan la stessa domanda che aveva posto a proposito di Cartesio: perché ripensare la rottura freudiana mediante la categoria di soggetto, per quanto certamente rinnovata? È interessante vedere come nello svolgersi frammentario di questa critica[43], Althusser trovi in Lacan elementi con cui egli stesso aveva fatto i conti molti anni prima, e cioè l’idea del vuoto come soggetto. Ciò che Althusser critica è infatti l’idea lacaniana che la Spaltung sia a sua volta soggetto; che la mancanza, il vuoto di soggetto, sia soggetto. Proprio questa idea del vuoto come soggetto è al centro del confronto di Althusser con Hegel nella tesi di laurea scritta molti anni prima, in cui Althusser prendeva il vuoto come l’essenza della coscienza e poi come il motore della storia. Si può sostenere, quindi, che Althusser veda nell’attaccamento di Lacan al soggetto, pur vuoto, un attaccamento persistente alla dialettica hegeliana nella sua versione antropologica, cioè kojèviana? Io credo di sì, e questo è confermato, mi pare, dalle fugaci ma eloquenti allusioni all’utilizzo di Lacan di espressioni come “la verità come causa”, o da riferimenti ai passi in cui Lacan si serve di Heidegger per descrivere l’inconscio come “memoria”, concetto che per Althusser richiama immediatamente l’Erinnerung hegeliana e fa pertanto scivolare il discorso teorico su un versante idealistico. Certamente la prospettiva di Althusser non è esente da problemi, e la sua proposta di articolazione tra ideologico e inconscio rimane percorsa da incertezze.

Tuttavia, rimane il fatto che i punti “caldi” su cui Althusser dissente da Lacan trovano una netta anticipazione nelle due conferenze, e a partire da esse è possibile provare a tracciare una interpretazione della teoria dell’ideologia di Althusser che si pone come alternativa, a dispetto di una terminologia talvolta affine, rispetto a quella di Lacan. In questo modo potrebbe forse essere possibile leggere le categorie althusseriane senza ricorrere necessariamente alla sovrapposizione di una griglia lacaniana, per provare a testare fino in fondo l’ipotesi che la strada presa da Althusser possa condurre a una concettualizzazione diversa del problema del soggetto, invece di misurarne la consistenza solo in rapporto a ciò che essa “manca” rispetto al tentativo lacaniano. Questo non significa certamente sostenere che si possano in questo modo risolvere le difficoltà legate a una teoria materialista del soggetto; non si sta cioè sostenendo che Althusser rappresenti per forza la chiave per una tale impresa. Tuttavia, una lettura di Althusser autonoma dalle categorie lacaniane è forse auspicabile quantomeno per testare la percorribilità di una strada alternativa a quello che rimane a oggi il filone dominante del pensiero critico contemporaneo. Che poi questo sentiero porti effettivamente da qualche parte, questo è ciò che va dimostrato – e non c’è altra possibilità che mettersi in cammino[44].

 


Pietro Bianchi

La lettera tra scienza e psicoanalisi

 

  1. Badiou tra Althusser e Lacan

Nelle brevi note che seguono interrogheremo il rapporto tra Althusser e Lacan attraverso una figura peculiare che, quanto meno negli anni del “transfert di lavoro” di Althusser nei confronti di Lacan, si dimostrò emblematica per la vicinanza del loro rapporto: Alain Badiou. Nel farlo proveremo ad articolare la relazione tra tre termini centrali per il pensiero di Badiou, Althusser e Lacan: scienza, psicoanalisi e lettera. Sono questi gli anni che vanno dalle prime conferenze di Althusser sulla psicoanalisi del 1963, incluse nel volume Psicanalisi e scienze umane, fino al termine dell’esperienza dei Cahiers pour l’analyse[45], la rivista che per un pugno di anni provò a far dialogare il marxismo strutturalista althusseriano e la psicoanalisi lacaniana sotto l’egida dei saperi logico-formali. I Cahiers interromperanno le loro pubblicazioni nel 1969 – anche se il gruppo di lavoro cessò di fatto di esistere già nel 1968 – ma non è tuttavia peregrino rilevare come le conseguenze di quell’incontro e di quel milieu teorico andranno ben al di là delle ragioni, per certi versi contingenti, di quella rottura. La riflessione filosofica di Badiou, ad esempio, che dopo il 1968 per una quindicina d’anni si concentrò quasi esclusivamente su temi d’ordine politico, ricominciò a partire dagli anni Ottanta[46] a confrontarsi con molte delle questioni lasciate in sospeso a metà degli Sessanta: tra queste il ruolo della matematica, le pratiche di formalizzazione e una dottrina del soggetto che esplicitamente si richiama a Lacan. Allo stesso modo lo sviluppo del pensiero althusseriano, come ricordato nella prefazione di Livio Boni, continuerà il proprio confronto con la psicoanalisi con una serie di testi degli anni Settanta che per certi versi riconsidereranno l’iniziale fascinazione lacaniana della prima metà degli anni Sessanta[47], così come Lacan non poté non confrontarsi con il pensiero di Marx a ridosso degli eventi del Sessantotto francese nei seminari D’un Autre à l'autre (1968-1969) e L’envers de la psychanalyse (1969-1970). Ma è nostra convinzione che sia soprattutto Badiou a rendere possibile, ben oltre i confini degli anni Sessanta, un incontro tra il pensiero di Althusser e quello di Lacan, che quanto meno a partire dal seminario L’objet de la psychanalyse (1965-1966) si interruppe bruscamente. Se l’incontro tra Althusser e Lacan è stato storicamente per molti versi un incontro mancato o solo parzialmente riuscito, è tuttavia vero che molti di quegli spunti teorici sopravviveranno in altre forme negli anni e verranno per certi versi anche sintetizzati in modi originali e inediti.

Tra il 1966 e il 1968 Badiou è nel pieno del suo periodo althusseriano. Lo dimostrano i testi pubblicati nei Cahiers pour l’analyseMarque et manque: à propos de zéro del 1967, che in realtà viene dato alle stampe solo nel 1969 e La subversion infinitésimale del 1968[48] – oltre al suo primo vero e proprio libro di filosofia, Il concetto di modello[49]. Ma lo si vede soprattutto da una recensione a Per Marx e Leggere il Capitale che viene pubblicata su Critique nel 1967 (in realtà scritta nel 1966): Le (re)commencement du matérialisme dialectique. In questo testo dove Badiou tesse le lodi della novità dell’approccio althusseriano allo studio di Marx e del materialismo storico, viene sviluppata una dettagliata analisi del concetto di ideologia e di scienza. Nonostante sia nota l’articolazione di questi concetti nel pensiero di Althusser, è bene ripercorrere il filo dell’argomentazione non solo per chiarire la definizione di pratica scientifica – un concetto centrale, vedremo in seguito, anche per comprendere la pratica psicoanalitica – ma anche per mettere in luce la distanza tra il modo con cui Badiou definisce la scienza e quello di Althusser.

 

  1. La scienza e i suoi oggetti

Scienza e ideologia – sostiene Badiou in questo articolo – non devono essere opposte l’una all’altra, come se appartenessero a due sfere antitetiche dell’esperienza: l’una fedele alla realtà, e l’altra presa in una sorta di fantasmatica mistificazione; l’una appartenente alla struttura, l’altra alla sovrastruttura. Per riuscire a comprendere la portata dei concetti di ideologia e di scienza in Althusser, bisogna per un momento dimenticarsi del loro significato corrente, e cercare di ridurle semplicemente alle loro definizioni esplicite che ci vengono date. Badiou ci dice che l’ideologia è un processo attraverso cui viene istituito un complesso sistema di “rappresentazioni”, dove cioè viene creato quello sfondo apparentemente neutrale dove nelle scienze empiriche avviene l’incontro tra un oggetto (isolato e irrelato dalle relazioni che lo circondano) e un soggetto conoscente. L’ideologia parte dal vissuto del soggetto conoscente, e da come egli si approccia a un mondo fatto di oggetti già costituiti e isolati gli uni dagli altri che nel processo di conoscenza non possono che venire “rappresentati” e astratti dalla loro concretezza. In questo processo di rappresentazione l’ideologia non produce alcuna nuova conoscenza [connaissance], ma semmai solo un effetto di riconoscimento [reconnaissance]: non produce concetti, ma semmai solo nozioni. Esattamente come nell’immaginario lacaniano – su cui il concetto di ideologia pare mutuato – nel processo di conoscenza ideologica è il soggetto che si limita a ri-conoscersi nel processo di conoscenza e nel farlo si costituisce in quanto tale: come oggetto tra gli oggetti empirici del mondo; come Uno tra gli Uni. Lacanianamente la reconnaissance non può che essere una méconaissance. L’ideologia dunque ha soprattutto l’effetto di creare un “posto” per il soggetto nel mondo. Non stupisce dunque che all’altezza di questi anni Badiou erediti da Althusser quello scetticismo nei confronti della categoria di soggetto che manterrà fino a Théorie du sujet del 1982: ma è bene chiarire che negli anni Sessanta il termine “soggetto” è in tutto e per tutto equiparabile con ciò che Lacan definisce come individuo. Quando Badiou inizierà a elaborare una teoria rigorosa del soggetto, si tratterà di un concetto visibilmente diverso.

Che cosa fa invece la scienza? La scienza, come abbiamo detto, non è da opporre all’ideologia: semmai agisce su di essa producendo quello che Badiou chiama un “effetto di sapere,” che non è nient’altro che la “produzione regolata di un oggetto” essenzialmente diverso dall’oggetto empirico dato e presupposto, e quindi anche diverso dall’oggetto reale. Laddove l’ideologia innesca solo processi di ripetizione e di rappresentazione, la scienza produce una trasformazione e dei concetti. La pratica scientifica è dunque vista innanzitutto come una produzione di qualcosa di nuovo, mentre l’ideologia è la riproduzione continua dei presupposti dati dall’intuizione immediata. Rappresentazione e produzione sono le due azioni essenziali che si producono nel campo dell’ideologia: la prima statica, la seconda dinamica.

Il problema per Althusser (e anche per Badiou) non è allora tanto quello di una divisione del campo della realtà tra ciò che è scientifico e ciò che è ideologico – divisione che non può che essere statica e dunque non può che prendere per vera la struttura presupposta dell’ideologia. Non si tratta dunque di distribuire patenti di scientificità o d’ideologia. Sarebbe infatti questa un’operazione astratta e secondo i termini di Althusser eminentemente filosofica, attraverso cui nella realtà indistinta costituita dalle ideologie si ritiene che sia possibile tracciare una linea di separazione tra ciò che è scienza e ciò che è ideologia. La scienza produce invece una rottura epistemologica nel campo ideologico: un concetto che non va inteso come un evento puntuale, ma semmai come una pratica immanente di produzione; un movimento continuo di separazione dall’intuizione immediata e presupposta. Ma che cosa caratterizza la pratica scientifica quando agisce nel campo dell’ideologia? Quali sono concretamente le sue operazioni? È qui che Badiou emenda la teoria dell’ideologia althusseriana con una più rigorosa definizione di scienza. La scienza è infatti per Badiou ciò che smonta e supera dall’interno l’oggettualità dell’intuizione, quella per cui il soggetto si ri-conosce attraverso un processo di categorizzazione rappresentativa dell’oggetto che ha davanti a sé e che è presupposto all’atto conoscitivo (il Badiou degli anni Ottanta avrebbe detto che l’oggetto nel campo ideologico è già stato sottoposto all’operazione del conto-per-Uno).

La definizione di pratica scientifica viene di fatto mutuata dall’assiomatica hilbertiana e cantoriana che si oppone esplicitamente alla tradizione epistemologica anglo-sassone delle scienze empiriche e naturali. Non è un’eccessiva semplificazione dire che, all’altezza di questi anni, quando Badiou parla di ideologia, ha in mente soprattutto le scienze naturali e il positivismo logico e, quando parla di scienza, ha in mente soprattutto le matematiche assiomatiche e le logiche formali. La questione è quindi prettamente epistemologica: l’ideologia parte dalla presupposizione di un oggetto da conoscere e di un soggetto che lo deve rappresentare a sé; la scienza invece non ha alcun oggetto al quale si possa riferire al di fuori dell’immanenza della propria pratica formalizzante. L’iscrizione scritturale delle lettere matematiche non deve quindi rappresentare degli oggetti empirici reali, ma sottrarsi a ogni possibile riferimento all’intuizione e fare riferimento solo alle proprie costruzioni concettuali. Come dice Maurice Loi nella prefazione agli scritti di Lautman, una delle caratteristiche fondamentali della matematica moderna è che

le entità matematiche sono introdotte da vere e proprie definizioni creatrici che non sono affatto la descrizione di un dato empirico [...] Liberando la matematica dal compito di descrivere un dominio intuitivo e dato, si attuò una vera e propria rivoluzione, le cui conseguenze scientifiche e filosofiche non sono sempre apprezzate nel loro giusto valore. Una tale concezione della matematica che la avvicina ad altre attività produttive umane pone in termini nuovi il problema dei suoi rapporti con il reale, dell’oggettività e della soggettività. Gli empiristi moderni oppongono volentieri la scienza al soggettivismo e al volontarismo. Ora l’oggettività non è mai un dato ma una conquista i cui punti estremi sono l’assiomatica e la matematica formale. È un compito umano che esige lavoro e sforzo, precisavano Herbrand e Lautman[50].

 

L’oggettività della matematica non è dunque un presupposto, ma semmai il risultato di una costruzione assiomatica rigorosa, che fa riferimento soltanto alle proprietà esplicite del proprio sistema di riferimento. La pratica scientifica si definisce quindi esplicitamente come pratica di assiomatizzazione che sebbene parta da un presupposto ideologico dato – l’oggetto empirico concreto – è tuttavia in grado di metterlo sempre più a distanza fino a renderlo superfluo; a sottrarsi completamente dalla sua influenza. Il processo di assiomatizzazione va dunque distinto da quello di astrazione dal concreto, che invece caratterizza l’ideologia della rappresentazione empirica. Nella specificazione delle proprietà di un sistema assiomatico, le analogie con l’intuizione, che spesso vengono utilizzate per chiarire alcuni concetti (ad esempio quando definiamo un insieme come “insieme di elementi” prendendo a prestito il termine dal suo uso nel linguaggio naturale) finiscono pian piano per non essere più sufficienti e richiedono invece di essere esplicitate solamente tramite una scrittura formale e letterale. Nei Fondamenti della geometria, scritti nel 1899, Hillbert riesce ad assiomatizzare le geometrie euclidee senza dover far riferimento ad alcuna definizione presupposta. L’idea ad esempio di definire un “punto” come ciò che è “privo di estensione” viene completamente rifiutata. Il problema non è quello di stabilire che cosa siano i singoli elementi attraverso dei presupposti che siano esterni e fondativi del sistema assiomatico, ma di limitarsi a definire le proprietà delle loro relazioni. Un sistema assiomatico è quindi privo di un elemento esterno, che escludendosi da esso, lo possa fondare (come invece avviene nella logica della struttura significante lacaniana, così come viene esposta da Jacques-Alain Miller in Sutura). Per provare a spiegare come possa avvenire questa “presa di distanza” dal regno dell’intuizione e dell’esperienza nella costruzione di un sistema assiomatico, Gabriele Lolli, utilizza questo esempio, che sebbene non abbia il rigore della scrittura formale crediamo possa rendere efficacemente e intuitivamente l’idea:

Si incominciano a usare rozze analogie prese da domini conosciuti, magari dal mondo fisico: per esempio, per riferirsi alle nozioni topologiche inventate da Cantor, cosa può voler suggerire la parola “denso” riferita alla distribuzione dei punti di un insieme? Vuol dire che i suoi punti si “toccano”? Ma i punti non si toccano, anche se sono molto vicini. Si può dire che ce ne sono tanti in poco spazio, ma in verità bisognerebbe dire che ce ne sono infiniti, e poi non basta. Ispirandosi alla vita comune e alla distribuzione della popolazione per illustrare la densità, si può pensare di dire che ci sono abitanti in ogni isolato, e non basta, che in ogni appartamento ci sono inquilini, e non basta, che in ogni locale c’è almeno una persona, e non basta, che per ogni metro quadrato c’è una persona, per poi far tendere l’area a zero. Alla lunga bisogna staccarsi dall’analogia con le popolazioni reali. L’infinità impone condizioni che vanno al di là di ciò che si può confrontare con il mondo finito. Man mano che si precisano le definizioni, queste sono sufficienti a esprimere le proprietà che interessano, e la natura degli elementi studiati non viene più presa in considerazione. Si forma una nozione che dipende solo dalle caratteristiche esplicitate, e non dalle altre non menzionate [corsivi nostri][51].

 

Questo processo di specificazione interna delle proprietà di un sistema assiomatico, che faticosamente riesce a sottrarsi all’intrusione confusiva dell’intuizione per riuscire a elaborare un’oggettualità di tipo nuovo è per Lautman un vero e proprio atto di creazione sottrattiva. L’oggettività cessa di essere l’opposizione inerte e passiva al soggetto conoscente, ma diventa il prodotto di un processo di produzione immanente alla pratica di formalizzazione che lungi dall’avere il soggetto come origine, ne prescrive semmai la sua totale sparizione. Badiou lo annuncia in modo spregiudicato e tuttavia inequivocabile in un passaggio di Marque et manque: à propos de zéro:

Non c’è soggetto della scienza. Stratificata all’infinito, regolatrice dei suoi passaggi, la Scienza è lo spazio puro, senza rovescio né marca o posto di ciò che essa esclude. In quanto preclusione, ma di nulla, la si può definire psicosi di nessun soggetto. Dunque di tutti; universale a pieno diritto, delirio distribuito, basta aderirvi per non essere più nessuno, anonimamente dispersi nella gerarchia degli ordini[52].

 

Badiou si immagina qui un’idea che Althusser non ha mai voluto fino in fondo abbracciare: un dominio della scienza completamente ripulito e sottratto da presupposizioni ideologiche. Se immaginiamo una scienza formale ideale nel suo punto di massima emancipazione dall’intuizione e dal dominio dell’ideologico, queste sarebbero le sue fattezze: una psicosi generalizzata; una totale eclissi del soggetto immaginario della conoscenza. Il campo ideologico non è infatti solamente il regno degli oggetti empirici separati e irrelati gli uni dagli altri, ma anche quello dei soggetti della conoscenza. La scienza per Badiou deve essere anche una pratica di sparizione del soggetto dell’immaginario. Il processo di assiomatizzazione sarà dunque anche un processo di de-immaginarizzazione oltre che di de-ideologizzazione. Ma come è possibile concretamente produrre questa pratica assiomatica a partire dal campo ideologico nel quale ci troviamo? Come può un soggetto dell’immaginario, preso nella méconnaissance del campo ideologico mettere in pratica la propria auto-cancellazione? Chi può farsi portatore di questo processo di formalizzazione? La risposta questa volta non ci viene da Badiou né da Althusser, ma ci pare che possa essere rilevata implicitamente dal pensiero di Lacan: la psicoanalisi.

 

  1. Il materialismo della lettera

Se è vero che per Badiou e Althusser, questa dottrina della pratica scientifica centrata sull’assiomatica, debba essere definita come materialistica, lo è in un senso molto peculiare: ovvero nel senso di un materialismo della lettera. Che cosa vuol dire lettera? In che cosa sarebbe materialistica? E quale sarebbe la differenza tra la lettera e la catena significante? Se prendiamo una definizione non assiomatica come quella data da Euclide di punto come “elemento privo di estensione” ci troviamo di fronte a una certa connessione tra un significante (punto) e una serie di altri significanti (elemento privo di estensione). Una definizione è dunque un processo di significazione, che come tale non può che risiedere su un minimo effetto metaforico dato da una verticalizzazione della catena significante. In una definizione noi facciamo dunque esperienza della capacità della catena significante di produrre un senso, o se si vuole, di dare un’interpretazione. La psicoanalisi ci ha tuttavia insegnato che ogni processo di significazione ha sempre un resto, dato che il significato non riesce mai a essere esaustivo delle mille altre possibilità di articolazione della catena significante che aleggiano minacciosamente anche nei casi di significazione e di comunicazione più riusciti. L’effetto metaforico di verticalizzazione si accompagna sempre a uno scivolamento orizzontale metonimico. Lo si vede bene in analisi quando una certa connessione significante viene aperta alla sua possibile interpretazione (effetto metaforico) fino a che le sue possibili ri-significazioni e re-interpretazioni non prendono il sopravvento mettendola nuovamente in discussione (effetto metonimico). Il percorso d’analisi non è nient’altro che l’attraversamento della diverse possibili significazioni e interpretazioni, di un significante o di un sintomo. L’interpretazione – lo strumento attraverso cui viene metaforizzato un sintomo in una seduta d’analisi – ha uno statuto affatto precario nella pratica analitica: può durare giusto il tempo sufficiente affinché un’altra interpretazione prenda il sopravvento producendo ulteriore materiale analitico. Questa struttura caratterizzata da un’apparente cattiva infinità è una diretta conseguenza della natura stessa del significante, che si definisce proprio attraverso il principio della sua eterna sostituibilità. Inutile provare a fermarlo, un significante è destinato a essere sempre alla rincorsa di sé stesso, proprio perché il suo essere è dato da “ciò che non è” prima che da “ciò che è”.

Ma se il significante è destinato a una costante ed eterna transitività, la lettera si costituisce esattamente sul principio contrario: è intransitiva; non è nient’altro che se stessa; non significa nulla. È pura materia riluttante a ogni rappresentazione, proprio come nella matematica dove la lettera non è inserita in un nessun legame negativo-differenziale di una struttura. Tuttavia come è possibile convertire la transitività della catena significante nell’intransitività della lettera? È possibile ridurre la costante metonimia del linguaggio a un nocciolo non più ulteriormente significabile? È quello che Jacques-Alain Miller definisce l’ “osso di un analisi”: quando il significante attraversato da mille significazioni e ri-significazioni viene ridotto dopo molti anni di analisi a un osso riluttante a ogni ulteriore interpretazione. La lettera è quella struttura di inerzia data dalla resistenza a ogni ulteriore possibile significazione. È materia non ulteriormente significabile. Sono quelli che Lacan chiamava i detriti lasciati dal passaggio della catena significante[53].

È forse qui che è possibile comprendere l’origine della lettera matematica: in quella pratica di isolamento di un “osso” che rimane dopo che ogni possibile significazione è stata attraversata. Una volta Badiou lo disse in una conferenza all’Università della California di Los Angeles, rispondendo a una domanda di uno studente che si lamentava della difficoltà dell’uso della matematica nei suoi libri: «la matematica non è difficile – disse Badiou – è semmai troppo facile. Sono solo lettere che non vogliono dire nulla. Il problema è sostenere la posizione di un discorso che non vuole dire nulla»[54]. Il problema della produzione assiomatica della lettera matematica, del suo isolamento dell’intuizione del campo ideologico, sta allora proprio qui: nella sua riduzione a pura materia che rifiuta il doppio-fondo del linguaggio naturale dove un significante è sempre ricondotto a un’eterna catena di connessioni. La lettera è la materia di cui è fatta l’assiomatica. Il problema sarà dunque quello di riuscire a isolare questo resto: sostenere questa in-immaginaria semplicità; produrre un soggetto (in senso proprio, non immaginario) che possa dare corpo alla semplicità di questa pratica di formalizzazione materialistica.

 


[1] L. Althusser, Psicoanalisi e scienze umane (1996), tr. it. Mimesis, Milano 2014.

[2] Cfr. A. Gualandi, Quale Bachelard? Una controversia ancora aperta, in R. Dionigi, Gaston Bachelard. La filosofia come ostacolo epistemologico, Quodlibet, Macerata 2001.

[3] L. Althusser, op. cit., p. 61.

[4] Ibid., p. 41.

[5] Ibid., pp. 60-61.

[6] Ibid., p. 72.

[7] Ibid., p. 74.

[8] Ibid., p. 83.

[9] S.J. Gould, Un riccio nella tempesta (1987), tr. it. Feltrinelli, Milano 1991; Id., Ontogenesi e filogenesi (1977), tr. it. Mimesis, Milano 2013, pp. 146-154. Su questo tema, cfr. anche, F.J. Sulloway, Freud biologist of the mind, Basic Books, New York 1979; S.A. Mitchell, Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi (1988), Boringhieri, Torino 1993, p. 71; A. Gualandi, Psicoanalisi, neotenia e comunicazione, in A. Cavazzini, A. Gualandi, M. Turchetto, F. Turriziani Colonna, L’eterocronia creatrice, Unicopli, Milano 2013.

[10] L. Althusser, op. cit., p. 49.

[11] Cfr. a tal proposito, F. Fruteau de Laclos, Meyerson, Les Belles Lettres, Paris 2014, pp. 145-159.

[12] E. Melandri, Zoon Politikon. Bolk e l’antropogenesi, in «Che fare», 3, 1968, ora in «Carmilla Online». Cfr. anche A. Gualandi, “La neotenia è il veicolo di ogni rivoluzione”. Gould e la rifondazione delle scienze dell’uomo, in A. Cavazzini, A. Gualandi, M. Turchetto, F. Turriziani Colonna, L’eterocronia creatrice, cit.

[13] J.-F. Lyotard, Le différend, Ed. de Minuit, Paris 1983.

[14] D. Stern, Il mondo interpersonale del bambino (1985), Boringhieri, Torino 1987, p. 187.

[15] Ibid., p. 186.

[16] Ibid., p. 187.

[17] Ibid.

[18] Ibid., p. 169.

[19] H. Loewald, Riflessioni psicoanalitiche (1980), tr. it. Masson, Milano 1999; S.A. Mitchell, Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività (2000), Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. 21-47.

[20] D. Anzieu, L’enveloppe sonore du soi, in «Nouvelle Revue de Psychanalyse», 13, 1976; Id., Le moi peau, Ed. Dunod, Paris 1995.

[21] Sulla distinzione tra l’alterità dell’Heteros e dell’Allon, cfr. E. Straus, Il vivente umano e la follia. Studio sui fondamenti della psichiatria (1963), tr. it. Quodlibet, Macerata 2010.

[22] D. Stern, op. cit., p. 169.

[23] Ibid.

[24] Ibid.

[25] Per una mappatura più dettagliata dei luoghi del chiasmo Althusser/Lacan, che s’articola lungo più di un decennio (dal 63 al 74), cfr. L. Boni, Al di là della congiuntura: l’impronta di Althusser sulla ricezione della psicoanalisi, prefazione a L. Althusser, Psicoanalisi e scienze umane, cit. Tale mappatura non è esaustiva, e potrebbe senza dubbio essere arricchita. Maria Turchetto, durante la discussione che ha seguito la tavola rotonda, notava ad esempio come lo stesso «Corso di filosofia per scienziati», organizzato tra l’autunno del ’67 e il maggio del ’68, possa esser riletto nel quadro di una risposta all’introduzione del «soggetto della scienza». Si potrebbe parlare di contro-contro-transfert da parte di Althusser, ricordando tuttavia che: (1) Lacan è sempre stato profondamente critico nei confronti della nozione di «controtransfert», operatore fondamentale di una concezione intersoggettiva dell’analisi che Lacan intende destituire, opponendo in fine alla nozione di controtransfert quella di «desiderio dell’analista». (2) Althusser, dal canto suo, enuncerà in più occasioni l’idea di un «primato del controtransfert» sul transfert stesso, posizione alla quale pervengono le note Sul transfert e il controtransfert (1973). Tuttavia queste ultime – che Althusser attribuisce parodisticamente al proprio analista, René Diaktine – fanno parte dei testi “autoanalitici” di Althusser , e, in quanto tali, restano difficili da prendere in conto da un punto di vista prettamente teorico (cfr. P. Bruno, Lacan, passeur de Marx, érès, Toulouse 2010, pp. 101-116). In queste «piccole incongruenze portatili», Althusser mette in scena la difficoltà dell’analista a pensare e accettare la fine della cura, a separarsi dall’analizzando, ma lo fa in vece dell’analista, dando luogo a una spirale nella quale non si sa più bene chi sia il soggetto del contro-transfert, se l’analista o l’analizzando. Comunque sia, è chiaro, alla lettura di queste note, che Althusser non si interessa all’idea lacaniana del «desiderio dell’analista», e che il suo tentativo di recupero sui generis della logica del controtransfert accompagna la sua presa di distanza più generale da Lacan.

[26] Lascio questo punto in sospeso, magari per chi conosca meglio di me il rapporto tra Althusser e Rousseau, ma la mediazione di Rousseau è forse «spontanea» per chi pervenga al freudismo provenendo da Marx, non solo in contesto francese. Mi viene in mente una delle rare note sulla psicoanalisi nei Quaderni gramsciani, in cui il freudismo è sospettato d’essere una nuova forma di roussauvismo. In merito alle note gramsciane su Freud e la psicoanalisi mi permetto di rimandare alle voci “psicanalisi” e “Freud” da me curate per il Dizionario Gramsciano 1926-1937, a cura di G. Liguori e P. Voza, Carocci, Roma 2009.

[27] Cfr. P.-L. Assoun, Lacan, Puf, Paris, 2003 p. 45.

[28] Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1973), tr. it. Einaudi, Torino 2003, seduta del 29-6-1974. Sul tema, vedasi l’eccellente saggio di José Attal, La non-excommunication de Jacques Lacan. Quand la psychanalyse a perdu Spinoza, L’unebévue, Paris 2010.

[29] L. Althusser, Psicoanalisi e scienze umane (1996), cit.

[30] Cfr. L. Althusser, Il contenuto in Hegel, tr. it. Mimesis, Milano 2015, pp. 42 e sgg.

[31] In proposito si vedano le note del corso sulla psicologia che si trovano in É. Jalley, Louis Althusser et quelques autres, L’ Harmattan, Paris 2014, pp. 37-57.

[32] J. Laplanche e S. Leclaire, L’inconscient: une étude psychanalytique, in H. Ey (a cura di), L’ inconscient. VI colloque de Bonneval, Desclée de Brouwer, Paris 1966.

[33] Cfr. P. Hallward, Strong Structuralism, Weak Subject: an Interview with Yves Duroux, in P. Hallward and K. Peden (a cura di), Concept and Form, vol. 2, Verso, London 2012, pp. 189-202; e la prefazione di E. Balibar a A. Pardi, Il sintomo la rivoluzione, Manifestolibri, Roma 2007.

[34] J. Laplanche e S. Leclaire, L’inconscient..., cit.

[35] L. Althusser, Freud e Lacan, ora in Sulla psicoanalisi, cit., pp. 15-39.

[36] L. Althusser, Tre note sulla teoria dei discorsi, in Sulla psicoanalisi, cit., pp. 101-154. Su questo testo cfr. i recenti interessanti lavori di V. Morfino, L’ articolazione dell’inconscio e dell’ideologico in Althusser, in «Quaderni Materialisti», 10, 2011, pp. 31-43, e di F. Bruschi, Le sujet entre inconscient et idéologie. Althusser et la tentation du freudo-marxisme, in «Meta: Research in Hermeneutics, Phenomenology, and Practical Philosophy», VI, 1, 2014, pp. 288-319.

[37] L. Althusser, Psicoanalisi..., cit., p. 68.

[38] Ibid., p. 83.

[39] Ibid., p 89.

[40] Su questo si veda B. Ogilvie, Lacan. Le sujet: la formation du concept de sujet, 1932-1949, PUF, Paris 2005, p. 112 e sgg.

[41] L. Althusser, Sulla psicoanalisi, cit., p. 121.

[42] Su questo punto, cfr. V. Morfino, op. cit., p. 40 sgg.

[43] Cfr. in part. L. Althusser, Sulla psicoanalisi, cit., p. 60.

[44] Interessante su questa linea il recente libro di P. Macherey, Les sujets des normes, Éditions Amsterdam, Paris 2014.

[45] Una selezione di testi dei Cahiers pour l’analyse è stata recentemente pubblicata in inglese per i tipi dell’editore Verso insieme a diversi saggi che a distanza di anni si confrontano con quell’esperienza. Vi sono altresì incluse diverse interviste a molti dei protagonisti (Alain Badiou, Jean-Claude Milner, Jacques Bouvresse, Alain Grosrichard, Jacques Rancière) che ricostruiscono in modo preciso ed esaustivo il dibattito che caratterizzò la rivista e i motivi del suo scioglimento: cfr. P. Hallward and K. Peden (a cura di), Concept and Form, cit. Tutti gli articoli originali dei dieci numeri della rivista sono invece reperibili in francese sul sito http://cahiers.kingston.ac.uk/. In italiano alcuni dei saggi più importanti dei Cahiers (compresi quelli di Badiou e di Miller) vennero tradotti da Rodolfo Balzarotti in un volume collettaneo di Bollati Boringhieri che uscì pochi anni dopo la loro pubblicazione in Francia: Cahiers pour l’Analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 1972.

[46] In particolare A. Badiou, Théorie du sujet, Seuil, Parigi 1982 e A. Badiou, L’essere e l’evento (1988), tr. it. Il Melangolo, Genova 1995.

[47] L. Althusser, Apparati e Apparati Ideologici dello Stato (1970), in L. Althusser, Freud e Lacan, ed. it. Editori Riuniti, Roma 1981; e L. Althusser, Sulla psicoanalisi, cit.

[48] Entrambi inclusi in Cahiers pour l'Analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza, cit.

[49] A. Badiou, Il concetto di modello (1969), tr. it. Jaca Book, Milano 1972.

[50] M. Loi, Introduzione in A. Lautman, Essai sur l’unité des mathématiques et divers écrits, Union générale d’éditions, Paris 1977, pp. 8-9.

[51] G. Lolli, Dagli insieme ai numeri, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 23.

[52] A. Badiou, Marca e mancanza, in Cahiers pour l’Analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza, cit., pp. 130-131.

[53] J. Lacan, Lituraterra, in Altri scritti, tr. it. Einaudi, Torino 2013.

[54] A. Badiou, Lacan and Philosophy (conferenza tenuta al Dipartimento di Letterature Comparate a UCLA, il 27/5/2010).

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