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L’immagine dell’uomo tra spirito e natura. Un conflitto irrisolto

Autore


Maria Teresa Speranza

Università degli Studi di Napoli Federico II

Dottoranda di ricerca in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. La crisi delle scienze e la svolta antropologica
  2. Le voci dell’antropologia filosofica
  3. Organismo e ambiente
  4. L’essere umano tra filosofia e biologia
  5. La controversia tra gli autori
  6. Uno iato incolmabile

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S&F_n. 12_2014

Abstract



There has been a close relationship between machines and biology since ages. Men have always produced automata in order to imitate nature, as well as to better know the secrets of life through the observation of machines. From Descartes’s automata to the new kind of machines, such as computers, the research in biology has been growing and has revealed that the border between natural and artificial, organic and inorganic is more and more fragile.

1. La crisi delle scienze e la svolta antropologica

Nei tumultuosi decenni tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, singolare fu il rapporto tra il sapere filosofico e le scienze della natura, le quali, nello stesso periodo, cominciavano a mettere in discussione le metodologie e le tecniche impiegate per analizzare e spiegare i fenomeni della vita. Il rigorismo legislativo e l’impostazione meccanicistica di matrice positivistica avevano dimostrato di non essere del tutto idonei alla comprensione dell’essere vivente. In particolare, a suscitare accesi dibattiti nel mondo delle scienze era la tendenza a ricondurre i fenomeni della vita entro i processi fisico-chimici propri della realtà inorganica.

Molti erano i dubbi sull’omogeneità tra la realtà vivente e il regno inorganico: essi, oltre a riflettere la molteplicità delle posizioni assunte in ambito scientifico, rappresentano la vivacità che animava in quel periodo il dibattito tra filosofia e biologia. Pur essendo favorevoli ai metodi delle scienze empiriche, numerosi scienziati erano scettici circa l’opportunità di una riduzione materialistica dei fenomeni della vita. La questione del rapporto tra l’organico e l’inorganico implicava quindi anche un ripensamento dei criteri epistemologici impiegati per lo studio dell’essere vivente, la cui imprevedibilità rendeva complessa la traduzione delle leggi di una certa categoria di realtà in quelle della scienza fisico-chimica. Fu proprio con l’affermazione del positivismo che la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito cominciò ad assumere un peso sempre più decisivo, fino a costituire il discrimine tra due settori disciplinari separati per principio. Mentre nel pensiero positivista era vivo il desiderio di applicare alle scienze dello spirito gli stessi metodi utilizzati nei settori delle scienze naturali, il sapere filosofico rivendicava la dignità statutaria di una metodologia di ricerca che, riflettendo costantemente sui risultati delle scoperte scientifiche, si proponeva di cogliere ciò che più specificamente ha a che fare con l’uomo: l’antropologia filosofica.

Posta tra scienza e filosofia, questa nuova corrente di pensiero fu terreno di accesi dibattiti e aspre polemiche, ma anche di edificazione di un sapere nuovo, in cui l’immagine dell’essere umano non è data una volta per tutte ma costantemente ricercata e costruita attraverso la sintesi e l’interpretazione dei più rilevanti contributi della ricerca scientifica. Scheler, Plessner e Gehlen, pur adottando orientamenti metodologici profondamente differenti, sono concordi nel riconoscere l’improrogabile urgenza della filosofia di confrontarsi con posizioni teoretiche diverse e distanti. Tentando di ricomporre un’immagine unitaria dell’essere umano, essi entreranno anche in conflitto tra loro, ma è proprio il profilo delle loro controversie a rivelare la complessità, la delicatezza e l’importanza del progetto filosofico da loro intrapreso: coniugare scienza e filosofia per costruire una nuova scienza dell’uomo, in cui venga concepito sia come sia come ente unitario (evitando quindi il secolare dualismo corpo-anima) sia come organismo che intrattiene con l’ambiente un rapporto di reciproco scambio di materia ed energia.

 

  1. Le voci dell’antropologia filosofica

Plessner sviluppa una fenomenologia dell’essere vivente capace di spiegare le caratteristiche specifiche dei diversi gradi della realtà organica e, in particolare, della natura umana a partire da un unico principio. Nell’opera del 1928, Die Sufen des Organischen und Mensch, l’autore presenta la “teoria dei modali organici”, o la “teoria aprioristica dei caratteri organici essenziali”, in cui elabora una deduzione delle categorie valide per interpretare le peculiarità della vita. Il 1928 è l’anno in cui viene pubblicato anche Die Stellung des Menschen im Kosmos di Scheler, testo che fonda l’antropologia filosofica sul concetto di spirito, un principio ontologicamente altro rispetto a qualsiasi forma di vita, fondamento delle cose stesse e cardine nella definizione di essere umano. Spirito è ciò che trascende la vita, che supera gli istinti e le pulsioni, che sa dire di no, che non è mai pago del presente ma, al contrario, è sempre desideroso di cose nuove. Spirito è il fondamento della persona in quanto centro di atti intenzionali, ossia di un dirigersi verso le cose anche solo per fini puramente speculativi. L’uomo è un essere spirituale in quanto sa elevarsi rispetto a ciò che è solo mondo, ricercando costantemente l’Assoluto. Spirito è però una categoria metafisica e spiegare l’eccezionalità dell’essere umano in base a questo concetto significa, secondo Gehlen, rinunciare a definirne le peculiarità in base a caratteristiche naturali. Perciò all’antropologia dello spirito Gehlen nel suo Der Mensch. Sein Natur und sein Stellung in der Welt, oppone l’antropologia della carenza, che costituirà, come vedremo, proprio il terreno della spinosa controversia con Plessner.

Quali sono allora le caratteristiche distintive dell’essere vivente? Che cosa differenzia il regno della vita rispetto a quello dell’inorganico? In base all’esperienza scientifica, è evidente che per definire le peculiarità dell’organico occorre considerarne non una singola proprietà, ma una molteplicità di caratteristiche e la loro reciproca interconnessione. In questo modo, sarà possibile descrivere le condizioni comuni agli esseri appartenenti al mondo biologico. I processi vitali che si svolgono nell’organismo sono sottoposti alle medesime leggi che regolano l’ordinamento generale della natura, intesa come una totalità che ingloba in sé, unificandole, le diverse manifestazioni della vita e della realtà inorganica. Il sistema organico però si distingue da quello inorganico per la sua autonoma attività e per la sua capacità di provvedere a se stesso mediante processi di ricambio e di accrescimento. Esso si dice “aperto” proprio perché è caratterizzato da un continuo scambio di energia con l’esterno, grazie al quale oltre a svolgere le sue funzioni vitali, conserva e ristabilisce se stesso nel caso in cui si verifichino fenomeni imprevisti o anomali. Inoltre, l’organizzazione dell’essere vivente prevede livelli morfologici di diverso grado, tra loro armonicamente ordinati in modo da formare un concatenamento gerarchizzato. Così, la vita si configura come una conformazione organica sempre condizionata dalle precedenti fasi del suo sviluppo e dai suoi presupposti morfogenetici, i quali costituiscono le diverse tappe della sua storia evolutiva.

 

  1. Organismo e ambiente

Richiamandosi espressamente ad alcune teorie biologiche contemporanee, Scheler costruisce una «gerarchia delle energie e delle facoltà psichiche nell’ordine in cui sono state via via poste in evidenza dalla scienza[1], al fine di individuare la posizione dell’uomo nell’universo organico. Eppure, proprio la definizione di “organico” non gli sembra di fondamentale importanza. Che tra il mondo organico e quello inorganico ci sia una distinzione essenziale e che l’uomo appartenga all’universo biopsichico risulta evidente già solo a partire dall’analisi dell’ultimo grado della gerarchia: l’intelligenza pratica, ossia la capacità di attuare comportamenti inediti per rispondere a situazioni nuove, mai precedentemente sperimentate. Anche se l’autore coglie la differenza specifica dell’essere umano in un «principio opposto a ogni forma di vita in generale»[2], ossia il Geist, del quale partecipa nella misura in cui la sua intera esistenza è condizionata dal suo essere “persona”, quindi “centro di atti intenzionali”, non ne nega l’appartenenza ontologica al regno della vita. Infatti, ne La posizione dell’uomo nel cosmo, la critica al meccanicismo e al neovitalismo ha per oggetto la concezione dell’essere umano, non la questione del rapporto tra l’organico e l’inorganico. Per Plessner invece è indispensabile affrontare questo problema, anche rispetto alle ultime scoperte scientifiche:

Stabilire cosa sia la vita e secondo quali forme essa si dispieghi nella realtà concreta del mondo è il momento decisivo a cui segue la necessità di elaborare una filosofia della natura come presupposto di qualunque ermeneutica dell’essere umano, ovvero di qualunque teoria antropologico-filosofica[3].

 

L’autore costruisce il proprio modello antropologico sul principio della posizionalità, da cui deduce la differenza gnoseologica e ontologica tra realtà inorganica e realtà organica e, all’interno di questa, tra mondo animale e mondo umano. Non l’antitesi tra filosofia e vita, né quella tra anima e corpo o tra pensiero ed estensione consente di comprendere l’essere umano, ma una riflessione intorno alle strutture che regolano la relazione tra l’organismo e l’ambiente. Nell’antropologia plessneriana l’uomo non è separato rispetto ai vari gradi dell’organico che lo precedono nella scala evolutiva, né vive l’opposizione dello spirito rispetto alla vita, come invece aveva sostenuto Scheler. Ma prima di tracciare la peculiarità specifica dell’essere umano, Plessner afferma la necessità di determinare a priori i caratteri essenziali del vivente: «Tutto ciò che è vivente sia staticamente sia dinamicamente presenta instabilità nella stabilità e stabilità nell’instabilità»[4].

Lo iato che si determina tra la forma dell’organismo e il processo reale che interessa la sua formazione costituisce l’essenza della vitalità. L’organismo tende sempre verso ciò che non è ancora: esso è in continuo divenire e il suo divenire fa sì che esso sia al contempo in se stesso e oltre se stesso. Proprio in questo momento di tensione si delinea lo iato tra forme stabili e forme soggette al mutamento, un mutamento volto al superamento costante del limite imposto dalla forma. La deduzione delle categorie dell’organico comincia proprio dal concetto di “realizzazione del limite”, che rimanda allo sviluppo autonomo del corpo organico, il quale realizza la sua delimitazione proprio attraverso il passaggio da ciò che è a ciò che non è ancora. Il processo ontogenetico dell’organismo ne dimostra l’indipendenza da qualunque riferimento a un “fuori”; esso, pur trovandosi in un rapporto di reciproco scambio con l’ambiente, si presenta come un ente a sé stante, un Für-sich-sein.

Per definire la particolarità di un simile modo d’essere, Plessner adopera il verbo setzen, ossia “porre”, il quale non solo indica una separazione tra la cosa posta e il contesto in cui è posta, ma ne denota anche lo stato di quiete, di stabilità. Il corpo organico, quindi, si distingue da quello inorganico per la sua posizionalità, ossia per il suo stagliarsi e insieme relazionarsi all’ambiente che lo circonda. La semantica della posizionalità comprende ogni forma di vita: vegetale, animale e umana. Plessner stabilisce una differenza “posizionale” fra i diversi regni della natura, da cui prendono origine, secondo una successione logica, i diversi livelli organici. Il primo grado dello sviluppo organico è quello vegetale, caratterizzato da una “forma aperta” ossia dall’impossibilità di distinguersi dal ciclo vitale cui appartiene, caratteristica che lo differenzia degli altri gradi dell’organico, caratterizzati da una “forma chiusa”. La “forma chiusa” infatti prevede un’interazione tra organismo e ambiente mediata da una struttura centrale che determina l’attiva immissione dell’animale nel suo habitat e interrompe quella circolarità priva di ostacoli in cui si realizza il ciclo biologico delle piante. Plessner presenta questo secondo grado del mondo organico con la metafora spaziale della “centricità”: «L’animale vive a muovere dal centro e a ritornare nel suo centro»[5]; è posto nel suo corpo vivente e si muove a partire dal centro che questo corpo rappresenta, ma senza che questo centro gli sia dato, senza che abbia coscienza del suo stesso modo d’essere. L’organismo centrico non è ancora un io, nonostante sia in grado di sapere e conoscere: «l’essere dell’animale è disposto all’interno dell’ambiente, la sua vita a muovere da un centro forma il sostegno della sua esistenza, ma questo non è a sua volta in nesso con lui, non gli è ancora dato. […] Vi è qui ancora una possibilità di realizzazione. La tesi è questa: tale possibilità rimane riservata all’uomo»[6].

 

  1. L’essere umano tra filosofia e biologia

Soltanto nell’essere umano si realizza la piena consapevolezza della riflessione su di sé, ossia l’autocoscienza. Pur appartenendo, come l’animale, al grado di organizzazione della “forma chiusa”, l’essere umano rappresenta il massimo livello di sviluppo del principio posizionale. La forma della posizionalità non varia, ma il grado sì, perché nell’essere umano il nucleo centrale dell’organizzazione vitale diviene esso stesso oggetto di riflessione. L’organismo, riflettendo su se stesso. prende le distanze da sé, ossia dal proprio centro, e in questo modo passa oltre se stesso, proiettandosi al di fuori di sé.

Se la vita dell’animale è centrata, la vita dell’uomo, che pure non può infrangere la centralità, è contemporaneamente fuori dal centro, è eccentrica. Eccentricità è la forma, caratteristica per l’uomo, della sua disposizione frontale nei confronti dell’ambiente circostante. Come Io, l’uomo non sta più nel qui ed ora ma si pone dietro di esso, in nessun luogo e in nessuno spazio temporale. La perdita dello spazio e del tempo viene vista come perdita del proprio essere esteriore, quindi si deduce che l’uomo non esiste solo per se stesso, bensì “in se stesso”, cioè come fondamento di se stesso[7].

 

Ciò che caratterizza l’essere umano e lo distingue da ogni altro essere vivente non è soltanto una particolare costituzione fisica, ossia la sua struttura centralistica, ma la capacità di superare questa struttura e di pervenire alla Exzentrizität. In questo grado posizionale, l’essere umano non solo può rivolgersi al suo corpo come qualsiasi altro oggetto mondano e considerarlo esclusivamente nella sua estensione spaziale, ma, al contempo, “è” il suo corpo, inteso come centro delle sue azioni, sensazioni ed esperienze psichiche. L’uomo è un corpo-vivo (Leib) e ha un corpo-oggetto (Körper), dunque non solo è in grado di gestire il proprio corpo e di dirigerlo nelle azioni intenzionali ponendosi autonomamente “di fronte” all’ambiente, ma è consapevole di questa sua condizione, ossia di questa sua separazione interiore e delle possibilità che ne derivano. Proprio questa scissione, questo iato qualifica l’essere umano come eccentrico e ne costituisce la complessa e autentica essenza. Nemmeno la coscienza di questa lacerazione consente la ricomposizione dell’unità, così l’essere umano rimane una creatura inquieta, sempre alla ricerca di una improbabile mediazione.

Quanto a questo l’uomo è inferiore all’animale, giacchè l’animale non avverte la propria chiusura di fronte all’esistenza fisica, non si vive come interiorità e come io, e di conseguenza non deve superare alcuna frattura tra sé e sé, tra sé e la propria esistenza fisica. Il suo essere corpo non si separa dal suo avere un corpo. Certo, l’animale vive in questa separazione: nessun movimento, […], sarebbe possibile senza di essa. Anche l’animale deve mettere in gioco il proprio corpo conformemente alla situazione, o non raggiunge il suo scopo. Ma il passaggio dall’essere all’avere e dall’avere all’essere, che l’animale compie continuamente, non gli è presente e di conseguenza non rappresenta per lui un problema[8].

 

Proprio confrontando il comportamento umano con quello animale Gehlen ne deduce le caratteristiche distintive. Mentre Scheler aveva individuato la differenza specifica dell’essere umano nel principio spirituale, che si contrappone a ciò che è solo “mondo” poiché lo supera e lo trascende, Gehlen sceglie di stabilire l’eccezionalità dell’essere umano a partire da facoltà naturali, senza ricorrere a un presupposto metafisico. Sarà l’analisi del suo comportamento a fornire la chiave per la risoluzione del problema. Previdente e attivo a un tempo, l’essere umano supera la propria incompiutezza biologica, ossia la mancanza di specializzazione organico-istintuale, attraverso i meccanismi esoneranti che si realizzano nelle sue esperienze senso-motorie.   

L’uomo si muove in movimenti ben riusciti, impegnabili in modo variabile, non pulsionali, all’interno di uno spazio allusivo popolato da cose familiari e accantonate; e inoltre nell’indipendenza di principio della sua vita percettiva e motoria dalle sue pulsioni[9].

 

Mentre in natura tutti gli esseri viventi assumono comportamenti determinati dai loro istinti e congeniali al loro spazio vitale, l’essere umano invece, difettando di una capacità istintiva ancorata in equilibrio naturale all’ambiente, si trova a dover modificare di volta in volta il suo comportamento a seconda delle condizioni in cui vive. La deficienza anatomico-organica e in particolare, l’inefficienza dei sensi, ossia la loro non specializzazione agli stimoli esterni espone l’uomo a una profusione di stimoli da cui sono esonerati gli animali, in quanto essi avendo ogni mezzo biologico necessario alla sopravvivenza, dispongono di sensi che selezionano solo gli stimoli esterni corrispondenti ai loro istinti.     La vita pulsionale dell’uomo deve essere invece orientabile, poiché egli agisce; è necessario quindi che le pulsioni varino con il variare delle condizioni che consentono il loro appagamento. Esonerandosi dalla sua carenza organica, l’uomo così mette a punto una dinamica di immunizzazione che tuttavia può realizzarsi unicamente se riesce a controllare la sua dotazione pulsionale, rinviando e al limite anche sopprimendo la soddisfazione di alcuni suoi impulsi, creando in tal modo uno iato, una distanza, tra essi e il proprio agire. Solo dopo aver conquistato la padronanza sui propri movimenti, che determina anche familiarità e dimestichezza con il mondo, l’essere umano può “agire”, ossia può pianificare e organizzare una serie di attività volte alla modificazione delle circostanze ambientali.

Se l’uomo non vivesse come un Prometeo, costretto a programmare ogni momento e aspetto della propria vita, la sua effimera esistenza sarebbe destinata all’estinzione. L’azione è dunque per lui la sola vera risorsa e la caratterizzazione dell’uomo come «essere agente» l’unica appropriata[10].

 

Mentre l’animale semplicemente “vive”, l’uomo “conduce” la sua vita, mentre l’animale “reagisce” agli stimoli ambientali grazie alla sua istintualità, tutta circoscritta e orientata entro l’ambiente cui è adattato per la sopravvivenza, l’essere umano “agisce”, ossia interpone uno iato tra le pulsioni e il comportamento. La distanza interposta tra impulso e azione costituisce uno spazio di libertà che rende possibile la scelta, l’organizzazione e la progettazione, presupposti indispensabili per un agire accorto e consapevole. Mentre la reazione è un comportamento automatico che segue immediatamente a uno stimolo, l’azione è mediata da ricordo e previsione, memoria e intenzionalità, ma soprattutto ha bisogno dei suoi tempi (dati dall’inibizione e dallo spostamento delle pulsioni) per essere adeguata, migliorabile e ripetibile. Proprio questo spazio di libertà costituisce la differenza essenziale tra l’essere umano e l’animale: la vita dell’animale è in ogni attimo schiava del peso dei suoi bisogni e dei suoi istinti, invece l’essere umano può interrompere la catena causalistica degli eventi, rompere la morsa della necessità e imporre in autonomia un nuovo corso delle cose.

 

  1. La controversia tra gli autori

La categoria dell’azione però, secondo Plessner, non costituisce un punto di forza nell’antropologia gehleniana. Nell’introduzione alla seconda edizione de I gradi dell’organico e l’uomo, avvenuta nel 1965, l’autore sferra un duro colpo all’originalità del pensiero di Gehlen, poiché sostiene che il modello biologico di spiegazione del comportamento umano sia da ascrivere al pragmatismo e al behaviorismo:

La proposta non è nuova neanche per Gehlen. Il pragmatismo americano conosce il tema chiave a partire da James e Schiller. Dewey gli ha di nuovo assegnato un significato centrale[11].

 

Inoltre, all’autore di Der Mensch Plessner contesta che il concetto di azione costringe il comportamento umano entro i limiti di uno schema univoco:

Il comportamento umano non si lascia ricondurre a uno schema, non a quello dei riflessi a catena, ma neanche a quello dell’agire indirizzato allo scopo. Quest’emancipazione del comportamento umano dall’agire biologicamente univoco, investigata dallo stesso Gehlen, e investigata tenendo fermo il punto di vista pragmatico, autorizza l’antropologia ad abbandonare proprio questo punto di vista raccomandato da Gehlen.

 

La categoria dell’azione, peraltro, non è idonea a svolgere la funzione assegnatale, ossia di oltrepassare, come auspicato dall’autore di Der Mensch, il fatale dualismo, al quale l’antropologia filosofica contrappone un modello ermeneutico fondato sull’unità dell’essere umano:

Sotto l’aspetto dell’azione, viene evitata la fatale scissione dell’essere dell’uomo in una regione corporea e in una incorporea. Se ci si gira attorno e se, in una certa misura, essa viene bandita dal campo visivo dell’analisi, è una questione a sé stante. Chi come Gehlen vuole essere empirista ha diritto a procedere in maniera siffatta[12].

 

Gehlen, quindi, avendo adottato una metodologia empirica, (anch’essa tra l’altro oggetto di controversie) si sarebbe limitato ad aggirare il problema della dicotomia cartesiana, invece di neutralizzarlo. La polemica plessneriana prosegue sostenendo che nemmeno il concetto di esonero deve la sua paternità a Gehlen, il quale sarebbe stato preceduto da Alsberg nell’applicazione di tale funzione alla teoria sull’uomo.

La Körperausschaltung di Alsberg non conterrebbe tanto semplicemente in nuce l’ Entlastung gehleniana, ma si identificherebbe con essa nella forma, nel contenuto e nel ruolo svolto all’interno della dottrina. Gehlen sarebbe, cioè, per nulla originale proprio in ciò che costituisce uno dei suoi maggiori motivi di orgoglio[13].

 

La Körperausschaltung, ossia il padroneggiamento strumentale del mondo tramite i mezzi materiali di esclusione del corpo, è un principio così affine all’Entlastung gehleniana da mettere in dubbio l’originalità dell’autore di Der Mensch, ma le fonti bibliografiche disponibili non consentono di provare eventuali accuse di plagio. Si è discusso, piuttosto, sul travisamento di Alsberg da parte di Gehlen e sulla presenza di fonti linguistiche e filosofiche comuni ai due autori, le quali potrebbero spiegare l’analogia tra i due principi antropologici. Alsberg viene citato da Gehlen in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, dove gli riconosce il merito di aver «presentato prima di Scheler il raffronto metodologico tra animale e uomo»[14]. Il senso di questa operazione era quello di ascrivere alle antropologie della carenza, e non a quelle dello spirito, l’uso moderno di questo metodo, retrodatandolo all’anno di uscita dell’opera di Alsberg, Das Menschheitsrätsel, ossia al 1922. Nel profilo tracciato da Gehlen della storia dell’antropologia filosofica, il ruolo di Plessner non viene riconosciuto, né dal punto di vita teorico, né da quello metodologico; solo nella quarta edizione di Der Mensch, quella del 1950, Gehlen cita Plessner in una menzione a margine che però non gli riconosce alcuna primogenitura né alcuna centralità nella vicenda dell’antropologia filosofica. Anche in altre circostanze Gehlen sminuisce l’originalità dell’antropologia plessneriana, riconducendo il concetto di eccentricità al Geist scheleriano. Lo spirito, per Gehlen, è eccentrico nella misura in cui si sottrae all’impeto e alla spinta del campo pulsionale: il distanziamento rispetto al proprio centro rifletterebbe il movimento dello spirito, il suo trascendere la mera realtà organica, il suo proiettarsi fuori di sé, il suo costante autosuperamento. Per questo motivo, sia Scheler sia Plessner si sarebbero mantenuti nel solco della metafisica, a cui soltanto l’antropologia dell’azione sarebbe stata in grado di contrapporre un modello alternativo per la costruzione di una nuova teoria dell’uomo. Né la spiritualità né l’eccentricità restituiscono l’essenza dell’umana natura, solo la capacità di agire e di trasformare la natura costituirebbe il proprium specifico dell’uomo, la cui immagine deve essere delineata unicamente attraverso un metodo autoptico, ossia dall’analisi di fatti o atti che si danno alla pura osservazione.

 

 

 

  1. Uno iato incolmabile

Le differenti posizioni assunte dagli esponenti dell’antropologia filosofica riflettono non solo il grado di complessità del compito che essa si prefigge, ossia la fondazione di una nuova immagine dell’essere umano, ma anche la difficoltà della filosofia a tracciare percorsi di ricerca volti alla riappropriazione del senso dell’essere. Difficoltà propria di un’epoca che dal progresso scientifico aveva tratto non solo la speranza di costruire un futuro migliore, ma anche l’inquietudine generata dalla crisi delle scienze stesse. Scettico e diffidente, il ventesimo secolo mette in discussione il paradigma della razionalità scientifica e tenta di afferrare la pienezza dell’esistenza al di là di Dio e Stato, Natura e Storia. In questo contesto, la proposta dell’antropologia filosofica offre una nuova prospettiva di indagine, la cui finalità consiste nella costruzione di un concetto unitario di essere umano e nel superamento del dualismo cartesiano, che, portato alle sue estreme conseguenze, aveva scisso l’essere umano in un corpo oggetto di studio dell’anatomia e in una psiche oggetto di studio dalla psicoanalisi. Infatti, «la mancata ricomposizione di “esterno” e di “interno”» fa sì che «morfologia e psicologia, corpo e psiche rimangono, in tutte le riflessioni sinora condotte, mondi estranei»[15]. L’indagine antropologica si propone proprio di ricomporre la scissione interna all’essere umano, poiché la separazione tra la realtà corporea e il mondo spirituale costituisce il maggiore ostacolo alla fondazione di una scienza dell’uomo. Una simile scienza «non si prefigge di superare la duplicità di aspetto in quanto fenomeno (inoppugnabile), ma di eliminare la sua fondamentalizzazione e la sua influenza sul modo di porre la questione»[16]. Un nuovo inizio è possibile solo se «si impedisce a questa duplicità di aspetto di costituire un principio che lacera il lavoro scientifico dividendolo tra scienze naturali, ovvero misurazione, e scienze della coscienze, ovvero autoanalisi»[17]. La fondazione del principio dell’indifferenza psicofisica, il quale afferma che «vi è un’unica e medesima vita che possiede una struttura che è fisica quando è esteriore, psichica quando è interiore»[18], mira proprio a ricucire questa lacerazione.

Eppure, dal confronto tra le diverse teorie antropologiche esaminate, emerge ancora più forte il dissidio interiore dell’essere umano. Spirito e vita per Scheler, centricità ed eccentricità per Plessner, impulso e azione per Gehlen riformulano i termini di questa dicotomia, ma non la superano.

Lo iato aperto dall’umana coscienza appare così incolmabile, la frattura dell’Io insanabile. Proprio il tentativo di conciliare i due ambiti del sapere, filosofico scientifico, e i due aspetti della natura umana, corporeo e spirituale, produce una nuova lacerazione del concetto di essere umano.

Individuando la sua caratteristica distintiva nell’autosuperamento degli impulsi (presupposto della teoria gehleniana dell’azione), nell’autocoscienza (fondamento dell’eccentricità per Plessner) e nella trascendenza dello spirito rispetto a ciò che è solo mondo (discrimine tra mondo umano e mondo animale per Scheler), gli autori dell’antropologia filosofica non hanno potuto evitare di imbattersi in quella relazione originaria dell’uomo con se stesso: l’autoriflessione fondante ogni principio dell’azione e del pensiero.

Riscrivendo i termini dell’opposizione di sé con sé, l’antropologia filosofica fonda un nuovo paradigma dialettico, nel quale l’essere umano giunge alla sua realizzazione partendo dalla propria realtà biologica e passando attraverso una mediazione. Una mediazione mai risolta e sempre aperta, come d’altronde è la questione dell’essere umano.

 


[1] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, tr. it. Armando, Roma 1997, p. 118

[2] Ibid., p. 143.

[3] V. Rasini, L’essere umano. Percorsi dell’antropologia filosofica contemporanea, Carocci, Roma 2008, p. 67.

[4] H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 151.

[5] Ibid., p. 360.

[6] Ibid., p. 289.

[7] Ibid., pp. 361-362.

[8] H. Plessner, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, tr. it. Bompiani, Milano 2000, p. 71.

[9] A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1983, p. 256.

[10] V. Rasini, L’essere umano, cit., p. 55.

[11] H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 16.

[12] Ibid.

[13] M. Marino, Da Gehlen a Herder. Origine del linguaggio e ricezione di Herder nel pensiero antropologico tedesco, Il Mulino, Bologna 2008, p. 155.

[14]A. Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, tr. it. Guida, Napoli 1990, p. 288.

[15] A. Gehlen, Prospettive antropologiche. L’uomo alla scoperta di sé, tr. it. Il Mulino, Bologna 2005, p. 38.

[16] H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 95.

[17] Ibid.

[18] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., pp. 160-161.

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