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Michele Cometa – Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria [Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, pp. 428, € 33]


Grazie al nuovo volume di Michele Cometa, l’Italia aggiunge un nuovo importante tassello all’insieme di ricerche che s’interrogano sul ruolo della narrazione per l’essere umano.Sebbene non sia trascurabile l’apporto di altri autori nel passato, tra tutti Giuseppe Longo, il libro di Cometa rappresenta una novità grazie al confronto che svolge con le due maggiori scuole di pensiero oggi esistenti, il Literary Cognitivism e il Literary Darwinism. L’impresa è ardua e complessa, visto che, come scrive lo stesso Cometa, «le attività umane che prevedono l’uso delle storie – dal “far finta che” dei bambini alle preghiere dell’estrema unzione – sono virtualmente infinite, tanto che si potrebbe dire che le narrazioni entrano in gioco ogni qualvolta attiviamo i nostri circuiti cerebrali, cioè sempre» (p. 25). In tal senso la letteratura, ma forse sarebbe meglio dire la narrazione, è necessaria. Di più: è una necessità di carattere biologico indispensabile «nel quadro dell’evoluzione della specie» (p. 50).Ma andiamo con ordine e partiamo dal secondo capitolo, “Archeologia del sé”, il più importante. In questa parte del libro, Cometa affronta la questione dei “fossili” del comportamento narrativo; problema senz’altro centrale se si pensa che per dimostrare il carattere evolutivo di un comportamento/tratto bisogna essere in grado di ricostruirne la dimensione filogenetica. A oggi, l’impossibilità di ricomporre, appunto, la storia filogenetica del comportamento narrativo è ciò che non permette di affermarne in maniera totalmente fondata l’origine evolutiva. Ebbene, Cometa, sulla scorta degli studi pioneristici di André Leroi-Gourhan, cui hanno fatto seguito le ricerche ormai classiche di Merlin Donald sulle quattro forme di coscienza/memoria, di Steven Mithen sulla fluidità cognitiva e, in generale, di tutta l’archeologia cognitiva degli ultimi anni, trova nelle operazioni manuali creatrici di utensili la preistoria dello storytelling. Secondo l’autore, «già gli utensili […] presuppongono abilità narrative, soprattutto nella fase della loro creazione, ma anche nel loro uso sociale, come dimostra l’esistenza di chaîne opératoire prestabilite e trasmesse culturalmente attraverso l’imitazione». E, a ben vedere, tutte le superfici su cui l’uomo ha lasciato la propria impronta, «dalle prime notazioni non-figurative sino alle pitture rupestri, passando dall’inesauribile produzione di portable art, testimoniano dell’esistenza di un impulso narrativo o quantomeno delle facoltà che presiedono alla narrativa» (p. 66). Sebbene non esaurisca l’intera nozione di narrazione, qui a essere fondamentale è il concetto di chaîne opératoire. Trattasi semplicemente della sequenza di gesti e operazioni che portano alla realizzazione dell’oggetto; una sequenza che, quindi, presuppone una narrazione – un prima-durante-dopo – in prima battuta “interna” e quasi inconscia che, in un secondo momento, quello dell’insegnamento, diventa “esterna” e perfettamente conscia. La chaîne opératoire diventa così il giusto percorso per comprendere le prime strutture della mente narrativa, «giacché le sequenze operative sono una forma di sintassi senza il linguaggio» (p. 71). La ricostruzione del pensiero narrativo parte, allora, dai precipitati materiali delle pratiche narrative. Precipitati materiali che, continua Cometa, si basano sulle facoltà, ugualmente narrative, del decoupling e della simulazione. Tali facoltà, che consistono nella possibilità di “staccarsi” dalla realtà per immergersi in una dimensione altra – quella del controfattuale, della finzione, dello sganciamento dell’azione mentale da quella fisica – hanno l’obiettivo di «esercitare un controllo sulla realtà, anche se questo controllo non segue per nulla il principio di realtà: una non-verità o un non-fatto […] ottengono risultati di gran lunga più significativi del pensiero razionale» (p. 98).Ma di più: secondo Cometa, la relazione tra gesti, utensili e narrazione ha un ruolo anche per la costruzione del sé; un Sé che, come precisa giustamente lo stesso autore, è sempre però cronologicamente successivo a quello primitivo, minimale o, come direbbe Damasio, nucleare: «la nascita del Sé dal gesto, dalle sequenze operative, si deve a una seppur embrionale sequenza narrativa, intesa come coscienza di un prima, durante e dopo». Il riferimento all’archeologia cognitiva permette infatti di «radicare la nascita della coscienza nel suo giusto ambiente, naturale e sociale» (p. 147). Si badi bene al fatto che il Sé narrativo, come è inteso da Cometa, si affida fortemente alla teoria della mente estesa. In tal senso, è giusto far notare che è possibile ricostruire la narratività del Sé partendo anche da basi diverse, quali ad esempio quella del Sé “inesistente” di Daniel Dennett o, più semplicemente, quella del Sé centra(lizza)to tradizionale. Tali versioni del Sé sono prese in considerazione anche dallo stesso Cometa e rifiutate in base ad argomenti che, vista l’importanza della questione, avrebbero forse meritato più spazio nel volume.Le ultime quaranta pagine del capitolo trattano la costruzione del sé narrativo dal punto di vista filo e ontogenetico e riprendono i risultati delle ricerche del teorico della letteratura John Paul Eakin e dello psicologo Dan P. McAdams. Com’è noto, Eakin radica la teoria narrativa del sé nella psicologia dello sviluppo del bambino e nelle interazioni tra neonato, mamma e gli altri adulti. McAdams, invece, ricostruisce la “scrittura” autobiografica per tutto il ciclo di vita del soggetto, distinguendo delle vere e proprie fasi nello sviluppo (narrativo) degli individui e mostrando il cambiamento e l’evoluzione della percezione di sé che provoca, automaticamente, una sempre diversa (ri)costruzione autobiografica: «il Sé crea una storia e la storia condiziona lo sviluppo del Sé e crea “nuovi sé”» (p. 160). Dal canto suo, Cometa continua estendendo il discorso della narrazione al mindreading. Qui, l’autore fa sua la Narrative Practice Hypothesis di Daniel D. Hutto, il quale «intrepreta il mindreading come il prodotto, piuttosto che il presupposto, delle capacità narrative sviluppate nell’interazione madre-neonato» (p. 174). La NPH critica la “visione spettoriale dell’interpretazione” che caratterizzerebbe tutte le prospettive tradizionali sul mindreading e ne propone una in cui si comprendono gli altri innanzitutto attraverso strategie viscerali che escludono la coscienza in toto. Tali strategie sono quelle della cosiddetta folk psychology, “psicologia del senso comune”, «attraverso la quale interpretiamo, per lo più immediatamente, i desideri e le credenze degli altri» (p. 178). Queste strategie, ecco il nucleo della tesi di Hutto ripresa da Cometa, verrebbero acquisite attraverso l’incontro con le «pratiche narrative che caratterizzano le nostre interazioni durante lo sviluppo e anche in età matura» (p. 179). Le storie, che presentano sempre soggetti che operano con fini razionali, ci permettono fin da piccoli – si pensi alle favole, per esempio – di costruire la nostra facoltà di leggere gli altri, una facoltà che ha la forma di un knowhow incorporato. Per dirlo con le parole con le quali Cometa chiude il secondo capitolo, «è il mindreading a essere l’effetto finale di un esercizio narrativo cui il cervello del neonato viene sottoposto sin dai primi mesi di vita» (p. 186).Il terzo capitolo descrive le abilità cognitive protagoniste della produzione e della ricezione di prodotti narrativi: blending, mindreading ed empatia. Il blending è l’operazione mentale che abbina elementi di diversi scenari creandone uno completamente nuovo – l’esempio classico è quello della chimera. Secondo Mark Turner, il maggior sostenitore della teoria del conceptual blending, tale facoltà caratterizzava anche la mente dei nostri progenitori quando, ad esempio, nella costruzione di utensili univano l’aspetto funzionale a quello estetico e, probabilmente in un secondo momento, a quello religioso/mitico/rituale. La valenza adattiva del blending è evidente: esso semplifica la vita permettendoci di creare nuove idee abbastanza complesse da permettere una maggiore padronanza della realtà e, allo stesso tempo, abbastanza “maneggevoli” da poter essere portate mentalmente in giro pronte per essere espanse e/o potenziate. Ma le funzioni del blending non si limitano a questo. Come rileva Cometa, Turner e Fauconnier attribuiscono a questa facoltà altre due funzioni: «da un lato essa è essenziale per capire chi siamo e che storia abbiamo (autobiografica), cioè come costruiamo il nostro Sé mescolando, appunto, presente e passato, luoghi diversi ecc» (p. 216); dall’altro, tale capacità sarebbe fondamentale, in forma avanzata, nella lettura degli altri.Il mindreading è, come accennato, il secondo protagonista del capitolo. Nel richiamare le ricerche sulla teoria della mente di Liza Sunshine, sulla punizione altruistica di William Flesch e sull’intelligenza machiavellica di Blakey Vermeule, Cometa commette, però, l’errore di restringere il suo campo visivo solo alla pura letteratura, dimenticando (o confondendola con) la narrazione in generale. Questo è in realtà un problema che caratterizza l’intero capitolo in questione e anche quello successivo. Se infatti l’intento del volume è affermare l’origine evolutiva dello storytelling, ciò non può essere fatto intendendo con “storytelling” la sola letteratura, perché la letteratura è viceversa la proiezione di un’abilità narrativa più viscerale e primitiva; abilità sulla quale ci si deve concentrare. È quello che si trova, ad esempio, nelle ricerche degli psicologi Keith Oatley – che lo stesso Cometa cita a fine capitolo – e Raymond Mar che usano, sì, la letteratura come strumento d’indagine, ma partendo da concezioni di fiction e di narrazione più ampie.Il capitolo conclusivo, il quarto, prendendo spunto dalle considerazioni prodotte dall’antropologia filosofica tradizionale – qui Cometa accomuna autori quali Gehlen, Blumenberg e Marquard – cerca di studiare la relazione tra narrazione e ansia tenendo sempre un occhio rivolto al ruolo che quest’ultima avrebbe nell’evoluzione psichica e fisica dell’uomo. In particolare, l’autore mette in relazione la narrazione con concetti quali esonero e compensazione. La base di partenza è l’idea per la quale «impotenza e incertezza sono i due fenomeni esistenziali che hanno caratterizzato l’evoluzione umana» (p. 277). La prima ha ovviamente a che fare con i «deficit istintuali accumulati durante l’evoluzione» (p. 278), mentre la seconda caratterizza l’uomo in quanto unico animale che «possiede una storia e ne è consapevole, e dunque è costantemente sospeso tra passato e futuro, entrambi forieri di incertezza e instabilità esistenziali» (p. 280). Ora, secondo Cometa, la narrazione è legata all’ansia, e quindi alla compensazione e all’esonero, perché «appare immediatamente chiaro che ciò che sappiamo dell’esonero – anzi tutta la nostra esperienza dell’esonero – deriva direttamente dalla nostra capacità di sospendere narrativamente la realtà attraverso la fiction (pretend play, illusione, make-believe), le varie forme di offline thinking e la possibilità di “fare esperienza” attraverso simulazioni che implicano un distacco dalla realtà quotidiana» (p. 272). L’idea di Cometa è che la narrazione «come antidoto dell’ansia» (p. 280) ristabilisce o inventa i nessi di causa ed effetto la cui essenza provoca, appunto, ansia. Esempio massimo sono i miti e le religioni (p. 281). Per comprendere meglio questa sorta di “narratologia dell’ansia”, come la definisce lo stesso Cometa, si può citare un passo di un volume di uno dei massimi ispiratori dell’opera dell’autore italiano, Useful fictions. Evolution, anxiety and the origin of literature di Michael Austin, riportato a pagina 293: «in questo libro voglio seguire la seguente linea di pensiero in modo da illustrare il ruolo che l’ansia ha nell’evoluzione della letteratura: 1) la cognizione umana è inestricabilmente legata alla creazione di narrazioni che inquadrano le nostre percezioni sensoriali; 2) quando noi sperimentiamo l’ansia ci sentiamo costretti a combatterla e questa lotta spesso comporta l’invenzione di una narrazione; 3) le narrazioni che generiamo non devono essere sempre vere per rispondere efficacemente all’ansia – in molti casi narrazioni controfattuali funzionano meglio della verità; le “finzioni utili” che l’uomo ha creato in risposta all’ansia fanno parte del design cognitivo in cui sono sviluppate la fiction, la narrazione e le altre storie che chiamiamo “letteratura”».In particolare, Cometa elenca quattro forme d’ansia per le quali la narrazione rappresenta una cura, o comunque un precario rimedio: «1) l’ansia che deriva dalla nostra condizione altriciale, dall’essere cioè affidati per una fase piuttosto lunga della vita alla cura degli altri, a cui si aggiunge la consapevolezza dei nostri limiti istintuali e del fatto che essi devono essere colmati, e ciò avviene per lo più attraverso strategia culturali e in particolare estetiche […];2) l’ansia che, a sua volta, deriva dalla costante consapevolezza di non essere in grado di controllare queste protesi culturali, sempre più complesse e affidate a media esterni al corpo e al cervello;3) l’ansia che deriva dalla consapevolezza – un unicum dell’evoluzione umana – della morte e dell’incertezza che di conseguenza permea tutta la nostra esistenza, nonché l’ombra che questa consapevolezza getta su tutto il nostro sviluppo, facendo dei cambiamenti e delle svolte fisiche ed esistenziali una tappa spesso traumatica;4) infine, l’ansia che sta alla base di tutte le altre e che deriva dalla nostra impotenza e soprattutto incertezza rispetto alle minacce che arrivano dall’ambiente, siano esse i predatori, come nella savana ancestrale, o gli “altri”, cioè i nostri conspecifici con cui siamo costretti a competere per la sopravvivenza» (pp. 303-304).Rimanendo in ambito “curativo”, l’ultima parte del libro si occupa della cosiddetta medicina narrativa. Come scrive Cometa, «[…] ogni cura del Sé [passa] e in qualche modo [deve] ripartire da una ricostruzione narrativa del Sé, anche con l’aiuto esplicito della letteratura e soprattutto dei generi più implicati nel Sé come l’autobiografia, i diari, le confessioni, ecc.» (p. 327). Quest’ultima sezione del libro è quindi volta a enucleare le caratteristiche delle terapie narrative che riscuotono i maggiori successi clinici: la terapia narrativa (narrative therapy) di Michael White e David Epston, la terapia narrativa dell’attaccamento (attachment narrative theory, ANT) di Rudi Dallos e la terapia di esposizione narrativa (narrative exposure therapy, NET) di Maggie Schauer (sviluppata per la cura dei distrurbi post-traumatici da stress).Nonostante qualche oscillazione semantica che avviene tra letteratura e narrazione (e, seppur in misura minore, arte), questo di Cometa merita di essere considerato uno dei migliori libri sul ruolo fondamentale della narrazione per l’essere umano. Soprattutto il tentativo di ricostruire la storia filogenetica nel secondo capitolo è stimolante e convincente. Resta problematica la questione, centrale, dell’origine evolutiva del raccontare. Secondo Cometa, lo storytelling può avere valore adattivo in quanto rimedio dell’ansia oppure per altri motivi (o magari anche per questi motivi): «per la sua universalità […], per il suo essere un repertorio di informazioni essenziali (e facilmente trasmissibili) per la sopravvivenza in società complesse e in ambienti ostili […], l’essere una forma specifica del making special […], il suo significato di raffinato gioco mentale […] che sviluppa la fluidità cognitiva dell’Homo sapiens, l’essere una perfetta incarnazione del mind reading […] e persino il suo significato per la selezione sessuale» (p. 294). Forse, però, attribuire così tante funzioni a un tratto/comportamento in chiave evolutiva potrebbe risultare un’operazione che scopre il fianco a critiche di carattere metodologico – è la stessa presunta criticità che è rinvenibile, ad esempio, in Brian Boyd, l’esponente più famoso del Literary Darwinism. Per dimostrare il carattere evolutivo di un tratto è richiesto infatti un approccio metodologico complesso, capace di ricostruire non solo la funzione (= la causa ultima) del tratto, ma anche il come (chimicamente, fisiologicamente, ecc.) tale tratto si presenta (= la causa prossima), senza dimenticare la dimensione ontogenetica e filogenetica.Chiarito questo, in definitiva, il lavoro di Cometa rappresenta senza dubbio un contributo innovativo per l’indagine sul fenomeno della narrazione in ottica antropologica. 

Salvatore Cifuni

S&F_n. 18_2017

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