Un’operazione editoriale davvero importante quella svolta da Orthotes con la pubblicazione delle Lezioni di sociologia di Émile Durkheim e questo per almeno due motivi: il primo riguarda il fatto che la suddetta “opera” aiuta a comprendere al meglio la complessa esperienza di pensiero di uno dei padri della sociologia; il secondo concerne il fatto che si tratta davvero di lezioni importanti dal punto di vista teorico e che riescono a rendere conto della potenza innovativa che, sulla riflessione politica occidentale, può avere avuto l’impatto della neonata “scienza” sociologica. Prima di cercare di delineare i contenuti più importanti – il “cercare” è d’obbligo, data la ricchezza di spunti – può essere utile definire qual è la prima impressione che si ha leggendo le lezioni che compongono questo libro e, di riflesso, l’importanza che ha avuto questa “prima” sociologia: innanzitutto, l’allontanamento da ogni forma di pre-giudizio che può venire dal senso comune, con la messa in discussione teorica di tutti i principi che sembrano essere “dati” e che “dati”, si dimostra, non sono; in secondo luogo, il ruolo che le strutture sociali giocano nella costruzione della riflessione e, ancor di più, nella possibilità stessa di una prassi collettiva; infine, l’idea che la teoria, difficilmente, può slegarsi nell’immediato dalla sfera dell’azione, cioè il fatto che essa stessa è (e, si può aggiungere, deve essere) prassi – non si può non notare una tensione davvero profonda nei confronti della crisi della modernità, che andava avvertendosi già a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Ne viene fuori il ritratto di un positivista “poco ottimista” nei confronti del progresso (anche se nelle conclusioni si abbandona a un “ottimismo” di maniera), nonché un critico acuto della moderna società capitalistica, il tutto giocato all’interno di una tensione (a tratti – quasi – emotiva) tra struttura e storia (come direbbe Lévi-Strauss). Come spesso è accaduto – da quando grossomodo con la modernità matura la “filosofia” e, in generale, la riflessione teorica si gioca soprattutto nelle aule delle università – la pubblicazione di lezioni e corsi non serve soltanto ad “arricchire” la percezione di un autore, ma a farne conoscere molteplici sfumature: queste Lezioni, infatti, spesso trascendono la “prudenza” del saggio e aprono squarci di grandissimo interesse. Insomma, sembra che Durkheim intenda davvero osare molto e osare di più.Non si può che concordare con i curatori dell’edizione (nonché autori di un’ottima e articolata Introduzione) che sottolineano come queste lezioni, per la loro radicalità, possano essere paragonate ai più grandi classici del pensiero politico moderno e occidentale da Hobbes a Hegel, passando per Rousseau e Kant: «i concetti centrali del pensiero politico moderno, si tratti dell’“individuo” e della “libertà”, dello “Stato” e della “società”, della “proprietà” e del “contratto”, del “diritto” e della “giustizia”, o ancora della “solidarietà” e del “cosmopolitismo”, sono qui oggetto di una critica teorica tanto più radicale quanto più mette in questione gli assunti di quelle stesse opere, cercando di spingere più a fondo la sovversione del senso comune con cui i moderni pensano e praticano la politica» (p. 9). Rinviando, per quanto concerne la storia della pubblicazione di queste Lezioni, all’Introduzione, il primo punto sul quale soffermarsi riguarda l’impostazione mediante la quale Durkheim passa in rassegna e ri-mescola i concetti-chiave della filosofia morale e politica occidentale. Il punto di partenza è sempre l’azione: una definizione che si possa dire “sociologica” della morale e della politica non può che passare attraverso l’analisi delle differenti sfere d’azione all’interno del quale ogni singolo individuo si trova a muoversi all’interno della “società”; ancor di più: per comprendere il funzionamento della società moderna, nei suoi dispositivi fondamentali, non si può non passare attraverso un’analisi socio-storica che mostra come una serie di procedure e istituzioni siano nate e abbiano (e abbiano avuto) una configurazione complessa all’interno dell’arena della Storia. Quando si studia Durkheim, una vulgata piuttosto diffusa vuole che il sociologo francese sia una sorta di antesignano naïf dello strutturalismo: troppo dedito allo studio delle forme elementari da negare la potenza plasmatrice della storia. Ebbene, leggendo queste Lezioni – strettamente connesse alla prima, fondamentale, opera di Durkheim, La divisone del lavoro sociale – a essere tematizzata è spesso proprio la differenza della modernità, la soglia che ha prodotto l’ingresso in società della solidarietà organica sempre imperfetta e perfettibile: leggendo queste pagine, si ha la sensazione che Durkheim voglia scavare proprio in una faglia che separa il “moderno” dalle epoche precedenti, partendo dal presupposto che i meccanismi debbano essere comunque riconoscibili. Insomma, il conflitto tra struttura e storia in una tensione continua e ravvisabile in ogni pagina.Quello che va tematizzato, poi, è la modernità assoluta di queste pagine, soprattutto se si analizzano due dispositivi di pensiero che vi entrano in gioco: innanzitutto, un innovativo modo di leggere il problema della “giustizia” – in queste pagine, viene riformulata tutta l’impostazione giuridica moderna che vede come primo momento l’individuo e poi la scansione attraverso il diritto di proprietà e il contratto, il tutto grazie a un’analisi socio-storica davvero spiazzante, mediante la quale si scopre non solo l’origine di tutti questi dispositivi giuridici (la Entstehung in senso foucaultiano), ma, attraverso di essa, il perché del loro funzionamento; in secondo luogo – e qui arriviamo davvero al cuore del problema – centrale non è l’individuo nel discorso morale (il confronto con Kant è, ovviamente, costante e molto “eterodosso”) ma le relazioni produttive di pratiche molteplici e istituzioni di ogni genere. Insomma, centrali sono le pratiche, centrali sono le istituzioni che da queste pratiche vengono fuori, centrale, anche nella riflessione sullo Stato moderno (anch’essa singolarmente spiazzante), è la maniera mediante la quale “si pensa”, si producono rappresentazioni collettive: sì, perché per Durkheim fondamentale è comprendere l’origine delle rappresentazioni collettive – concetto tra i più criticati dell’intera sociologia durkheimiana – e non soltanto la maniera mediante la quale il soggetto si muove al loro interno, ritraducendole nella propria esperienza singolare. Semplificando al massimo, si tratta di analizzare tutte le forme possibili che possono assumere le differenziate sfere d’azione che calano dall’alto mediante la traduzione di una determinata rappresentazione collettiva (perlopiù inconscia) nell’azione individuale: insomma, si tratta di definire quanto nei pensieri e nelle azioni c’è di “già pensato” e di “già agito” – se allo strutturalismo prima e al post-strutturalismo poi si è affibbiata l’etichetta ambigua di anti-umanismo, è chiaro che quelle esperienze di pensiero non si sarebbero potute avere senza questi tentativi complessi di narrare la dimensione morale e politica senza bisogno di un’impostazione che muova semplicemente dal “soggetto del pensiero” e dal “soggetto dell’azione”.E così gli spunti di riflessione sono davvero molto vasti e difficili da tenere insieme nei limiti di una recensione. Si hanno intuizioni – a nostro avviso importanti – come quando Durkheim, ad esempio, afferma che la vera origine dello Stato moderno non è in relazione al territorio o alla popolazione, ma in connessione con un’accresciuta divisione del lavoro che impone un’autorità per regolare le relazioni tra i differenti gruppi secondari che compongono la dimensione sociale – del resto si spiega anche l’origine per cui tendiamo a pensare che «la società di cui siamo membri è per noi anzitutto un territorio definito» cioè «da quando non è essenzialmente una religione, un corpo di tradizioni che le sono proprie o il culto di una dinastia particolare» (p. 127); tutto questo capovolgendo l’immaginario comune che vuole, insieme con un accresciuto individualismo connesso alla divisione del lavoro, una minore “importanza” dello Stato o addirittura un processo di esaurimento dello stesso – è come se Durkheim ci dicesse che lo Stato minimo invocato dal liberismo e dal neoliberismo non è altro che la sua evoluzione più “naturale” e che, di controverso, lo Stato non scomparirà certo per mano dell’individualismo e del neoliberismo. Oppure, quando si parla dell’origine del diritto di proprietà, arricchendo e giustificando approfonditamente la famosa espressione “la proprietà è furto”, ma andando, ovviamente (e, comunque, prudentemente), ben oltre: «il nostro problema è sapere in che cosa consista il legame che unisce la persona e gli oggetti che le sono esteriori e che non fanno naturalmente parte di essa […] il diritto di proprietà è il diritto che un soggetto determinato ha di escludere dall’uso di una cosa determinata gli altri soggetti individuali e collettivi […] Ne risulta, infatti, che la cosa appropriata è una cosa separata dal dominio comune. Ora questa caratteristica è anche quella di tutte le cose religiose e sacre […] consacrare è un modo di appropriare; e, in effetti, che cosa significa consacrare se non attribuire la proprietà di una cosa a un dio o a un personaggio sacro, cioè render sua questa cosa? […] Originariamente, la proprietà è fondiaria, o, almeno, i caratteri della proprietà fondiaria si estendono anche ai beni mobili a causa della loro minore importanza; e questi caratteri, in virtù della loro natura religiosa, implicano necessariamente il comunismo. Questo è il punto di partenza. Poi, un duplice processo della proprietà collettiva fa emergere la proprietà individuale. Da una parte la concentrazione della famiglia, da cui è derivata la costituzione del potere patriarcale […] D’altra parte, l’individualizzazione della proprietà fu dovuta al fatto che i beni fondiari persero il loro carattere sacrosanto, che fu assorbito dall’uomo e al fatto che i beni che non avevano in se stessi questo carattere si svilupparono abbastanza da crearsi un’organizzazione giuridica distinta e diversa» (p. 201; p. 222; p. 229; pp. 247-248). Insomma, Durkheim intende dimostrare alcune proposizioni: la proprietà è sempre innanzitutto collettiva; la proprietà privata sorge quando un individuo, mediante la perimetrazione dell’oggetto, è capace di sacralizzare il rapporto tra sé e le cose; la proprietà privata è sempre una forma di sottrazione dall’ordine delle cose collettive di un qualcosa, sottrazione che va comunque ripagata (tra l’altro, in questo senso, si trova un’inaspettata analisi “religiosa” della fiscalità); il sorgere “storico” della relazione tra proprietà e lavoro (dunque: non strutturale), come è stata svolta da Locke in poi, passando per l’economia politica classica, e, ovviamente, attraverso Marx – sottolineando che in Durkheim il problema non è soltanto il fatto che si ritenga che il lavoro sia alla base della proprietà privata o collettiva, ma la questione che sia proprio il richiamo al lavoro a essere la fonte di ogni legittimità di appropriazione.Non possiamo aggiungere altro che questo: Durkheim (ovviamente!) non ci svela la ricetta per uscire dall’impasse della modernità e dalle patologie della società capitalistica, dagli aspetti deteriori del suo individualismo e dalla dimensione di naturalizzazione dei suoi dispositivi: del resto, uno studioso scrupoloso può effettuare diagnosi acute, ma la prognosi non può che essere sempre “riservata”.
Delio Salottolo
S&F_n. 17_2017