L’ultimo libro dato alle stampe da Adriano Pessina, L’io insoddisfatto. Tra Prometeo e Dio, si interroga sulla comprensione della soggettività, interpretata a partire dalla categoria ontologica dell’insoddisfazione. Gli sviluppi tecnologici e biotecnologici, nello specifico la tecnologia informatica e le pratiche mediche e farmacologiche legate al grande tema del dibattito bioetico attuale, quello dello human enhancement, tracciano il campo su cui Pessina sofferma il suo sguardo, per operare una analisi non certo anodina del profilo che l’«io» assume nella contemporaneità. Recuperando le categorie metafisiche e teologiche, il nostro Autore indaga l’identità del soggetto che, «come un fiume carsico» (p. 22), entro la riflessione bioetica, ogni tanto emerge, ogni tanto resta sullo sfondo, ma tuttavia permane. La domanda focale dell’indagine speculativa proposta è: chi è questo «io» che le scienze sperimentali tentano di smontare, che il mercato cerca di plasmare e che la società vuole superare? «L’uomo sperimentale», soggetto e oggetto dello scritto di Pessina Bioetica. L’uomo sperimentale, Mondadori, Milano 1999, ritorna ora in questione sotto le spoglie di un «io» che, fuori dall’astrattezza dell’ampia nozione di uomo e dentro la concretezza dell’individualità, continua a essere esplorato come modello antropologico che agisce e che è agito nelle teorie e nelle prassi delle scienze sperimentali. Un «io» osservato e conosciuto a partire dalle immagini riflesse dagli specchi (società, mercato, medicina, informatica, desideri…) in cui esso si immette. Lo sfondo ontologico, antropologico e sociale da cui muove l’analisi è quello dell’insoddisfazione, che non è «[…] come la depressione, ossia un malessere interiore che ci rende incapaci di agire, ma, al contrario, è ciò che ci spinge ad aumentare l’azione e a moltiplicare le esperienze: è la convinzione che manchi infatti ancora qualcosa da fare, che non si sia “fatto abbastanza”, e che ci manchi qualcosa» (p. 6).In una cornice speculativa intessuta di nomi che vanno da Agostino ad Aristotele, da Sloterdijk a Guardini, da Sartre a Anders a Han, fino ad alcuni tra i maggiori protagonisti del dibattito bioetico, quali, ad esempio, Dworkin, Buchanan, Harris, la trattazione si sviluppa intorno a due figure teoriche: l’io dell’immanenza e l’io della trascendenza. Il primo è chiuso in se stesso, pronto a salvarsi da sé, con ciò che egli stesso produce; esso è l’archetipo dell’insoddisfazione, dell’inadeguatezza che accompagna l’«io» in una società che tende verso un ideale di perfezione, lungo un cammino in cui ogni traguardo raggiunto è un nuovo limite da superare. Il secondo, invece, si apre alla relazione con gli altri, con l’Altro, sottraendosi a una ricezione passiva degli stimoli provenienti dall’ambiente circostante, distaccandosi dagli standard che la società diffonde, imponendoli, per affermarsi come identità critica, forte e consapevole della propria individualità.La ricerca medico-scientifica si pone in linea con l’orientamento socio-culturale votato alla produzione di perfezione: si fa sempre più labile il confine tra cura, guarigione e potenziamento delle facoltà umane, nonché superamento dell’umano stesso. La normalità è uno stato obsoleto: alla società non basta che gli uomini siano normali, essa abbisogna di individui perfetti. Le tecniche di bio-potenziamento, che consentono di intervenire su corpo e mente, migliorare le capacità, plasmare le generazioni future, portare a perfezione l’uomo, rappresentano terreno fertile su cui far attecchire la ricerca e la costruzione di identità originali, molteplici, differenti. In vista della perfezione, il soggetto è proiettato «in un mondo artificiale che gli presenta un’immagine irraggiungibile perché sempre altrove» (p. 121). L’altrove delle «nuove perfezioni» (p. 52) è schiacciato nel presente e sul presente; nonché concentrato in uno spazio evanescente, che le tecnologie informatiche ben rendono, infecondo di identità reali, vissute (pp. 87-111). Se l’io corporeo è il luogo in cui si manifesta la durata del vivente, la maturazione della sua identità, la possibilità di relazionarsi all’altro, al prossimo, e se le tecnologie agiscono proprio sulle dimensioni corporea e relazionale dell’identità, alterandole, allora, il soggetto si rannicchia sull’immanenza e si identifica come io nichilista (pp. 113-121). L’«io» contemporaneo non vuole, infatti, se non ciò che è desiderato dalla sua volontà, che pone e distrugge i prodotti, in un flusso di elaborazione mai concluso, in cui rischiano di consumarsi il soggetto e il senso della sua esistenza.Su questo punto interviene Pessina, proponendosi di ritrovare il soggetto, definirlo nella sua identità a partire dall’esplicitazione dell’errore commesso sia dai bio-progressisti (trans-umanisti e post-umanisti) sia dai bio-conservatori. Essi dimenticano che oggetto delle loro contese non può essere la generica e generale concezione di natura umana, bensì la definizione e il riconoscimento di ciascun «io». La mossa teorica che egli compie consiste nel rileggere l’argomentazione creazionista, ritrovando in essa il prezioso suggerimento che deriva dalla categoria della relazione trinitaria, emblema di ogni relazione interpersonale (pp. 155-170). Fuori da interrogativi o approfondimenti strettamente teologici, il nostro Autore evidenzia la centralità nell’atto di creazione della dimensione interpersonale tra creatore e creato, rinvenendo qui la risposta al bisogno metafisico di ritornare a sé, riconoscersi come datum esse, per soddisfare la ricerca di senso di sé e così trasformare le insoddisfazioni in una valutazione metafisica. Ciò consente di trascendere la chiusura immanentistica dell’io in se stesso, per trovare, nell’incontro con l’altro, le radici e lo spazio di riconoscimento dell’identità. Aprirsi all’altro vuol dire sottrarsi all’oggettivazione di sé da parte del potere degli altri e dei suoi stessi prodotti, per riflettersi nello specchio autentico dell’«io»: la contemplazione (pp. 171-189). Non più un soggetto che deve realizzarsi, ma un soggetto che deve innanzitutto comprendere se stesso, recuperare spazio e tempi propri rispetto all’effetto omologante dell’io sociale, per potersi affermare nella propria identità. Solo fuori dall’omologazione e dentro l’apertura al riconoscimento dell’altro e da parte dell’altro, è possibile la relazione come incontro costruttivo di e tra identità diverse. «L’io, ogni io, nelle sue relazioni con l’altro, diventa, suo malgrado, nel bene e nel male, testimone della sua identità, che non è una pura coincidenza con sé, ma una storia intessuta di relazioni […] in questo senso l’io della trascendenza si oppone all’io dell’immanenza perché il primo non cerca soltanto dentro di sé la verità della propria condizione: la perfezione resta, per questo io, qualcosa che ha a che fare con la relazione, con sé, con gli altri, con il mondo» (p. 212). Sarà l’altro lo specchio che più fedelmente restituisce l’immagine dell’io.
Lorella Meola
S&F_n. 16_2016