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Aldo Masullo – Il tempo e la grazia. Per un’etica attiva della salvezza [Donzelli, Roma 1995, € 18]


Essere filosofi significa in gran parte saper cogliere e comprendere il tempo come «fenomeno originario primario, quello che in sé contiene la possibilità di tutti gli altri» (p. 20), come struttura e concetto dentro il quale l’essere si dispiega nella pluralità dei suoi significati e nell’unità del suo senso. Il tempo è infatti anche cognizione, è un dato misurabile ed esperibile ma è soprattutto una trama di vita, di perdita, di apertura e di passione. È, nel linguaggio di Masullo, il patico. Le manifestazioni di tale radicato dolore e del suo riscatto sono tra le più importanti forme del vivente: il desiderio, l’amore, la morte, il nuovo, la grazia.Desiderio è non un darsi contingente della volontà ma è il costante lavoro con il quale i viventi cercano di reintegrare ogni loro perdita in modo che essa non distrugga l’intero. Il cibo, l’aria, la luce, la socialità, gli affetti, costituiscono gli ambiti nei quali si produce una continua perdita e nei quali il desiderio tenta quindi ogni volta e daccapo di colmare il vuoto con altri pieni. «Il desiderio risulta allora il gemello siamese del “tempo”» (p. 86). Tra le innumerevoli espressioni del desiderio, la più potente è l’amore. La perdita dell’oggetto amoroso è infatti perdita di una parte di sé, la migliore, quella che ci apre al futuro e rende il presente una festa. La perdita amorosa significa dunque sperimentare da vivi il morire, il cui timore e tremore è quello di una differenza radicale, quella che dissolve ogni raggiunta identità. «La “paura della morte”, la “paura assoluta”, disegna il pathos originario dell’incessante perdita di sé. Il tempo non è che questa passione assoluta» (p. 47). Ogni novità ha per gli umani il sapore dell’inedito, del futuro che si apre, ma anche l’inquietudine di una destabilizzazione del presente che prepara, indica e significa la perdita finale che inevitabilmente il futuro porterà con sé. È per questo che gli umani desiderano e temono ogni novità. Filosofare significa anche trasformare il timore in desiderio, accogliendo il futuro per ciò che esso è diventato qui e ora, per il suo essere kairos, grazia splendente dell’ora e del sempre.È dunque chiaro che «la vita, non come sequenza di posizioni “spaziali” sostituentisi le une alle altre “nel tempo”, ma appunto come vita vissuta, non è “nel tempo”, non è una sequenza cronologica, bensì è “il” tempo» (p. 15). La vita è infatti sempre pienezza e fuga. Pienezza del presente che siamo e fuga del presente che va, il quale mentre è si dissolve nelle pieghe del divenire e nella sostanza della materia che muta. Il significato metafisico dell’entropia sta qui, sta nell’aver restituito misurabilità all’irreversibile e piena realtà al divenire, contro ogni immobilismo eleatico o fisico.In quanto stasi e divenire, nuovo e ripetuto, perdita e desiderio, il tempo è Differenza e Identità. «Se infatti il passare non fosse che il fluire dell’identico, pura continuità d’essere, non si darebbe vera innovazione, non ci sarebbe divenire. Perché divenire ci sia, occorre che l’identico ceda alla differenza e dunque la continuità d’essere si rompa» (p. 45). Il tempo consiste anche nel rimanere identico di qualcosa che cambia e nel mutare di ciò che permane. A cominciare dall’ente che dice “io”. Il linguaggio esprime sempre tale dinamica. E tuttavia il linguaggio, il pensare e il vivere implicano una tensione continua verso la potenza del tempo che non riescono a dire, a pensare e a vivere. Noi abitiamo in questa tensione ed è anche per questo che «la dimora propria dell’uomo è il tempo» (p. 125). Una dimora che è il dolore degli umani i quali sanno di dover morire e in ogni perdita anticipano il proprio dissolvimento, ma una dimora che è anche il loro privilegio, quello di chi conosce la struttura del mondo e in esso dunque si immerge come il pesce nelle acque che gli danno vita. Il tempo è pertanto «non cambiamento bensì “ritmo”, “misura” affettiva del cambiamento, senso della destabilizzazione, “patire” come pena per la vita che, ogni volta, si perde, e come desiderio di riaverla tutt’intera, per sempre al riparo dal cambiamento. Dimorare nel tempo dunque non è un illusorio scampare alla rapidità del cambiamento, trovando riposo in una magica immobilità, ma il calarsi a fondo nell’e-sistere, ossia nella destabilizzazione stessa, incessantemente vissuta. Tutti gli enti naturali sono immersi nel cambiamento, anzi sono cambiamento, e l’uomo come ogni altro. L’uomo, però, pur pervaso dal cambiamento, può “dimorare” nel tempo. Solo scegliendo di abitare il tempo, l’uomo si trova finalmente presso di sé» (p. 125).Ecco perché essere filosofi significa in gran parte saper cogliere e comprendere il tempo, significa – di più – riconoscere che la temporalità che siamo è la grazia stessa dell’essere.

Alberto Giovanni Biuso

S&F_n. 14_2015

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