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Réda Benkirane – La teoria della complessità – tr. it. a cura di A. Gusman, Bollati Boringhieri [Torino 2007, pp. 322, € 36]


«Gli scienziati conoscono un numero sempre maggiore di cose su un numero sempre minore di argomenti» (pp. 10-11): in La teoria della complessità, R. Benkirane contesta la crescente specializzazione nella ricerca, proponendo una serie di «conversazioni» con studiosi di varia provenienza scientifica, come I. Prigogine, G. Chaitin, F. Varela, E. Morin, accomunati dalla predilezione per un’analisi interdisciplinare e “multiprospettica” della realtà, che non si esime dal riconoscere l’importanza della riflessione filosofica per la scienza. La teoria della complessità non riguarda un settore preciso e circoscritto ma, come l’autore sottolinea, ci consente di spaziare dalla matematica alla biologia, dall’astronomia all’intelligenza artificiale, passando per la sociologia, in considerazione della multidimensionalità ed estrema complessità del tutto. Il saggio illustra con efficacia e chiarezza, senza scivolare nella banalizzazione divulgativa, le profonde divergenze tra le scienze della complessità e quelle tradizionali, in primo luogo per quanto riguarda la possibilità di comprendere e prevedere, quindi controllare, fenomeni sia naturali che umani.

Il fulcro delle problematiche affrontate da Benkirane è che, nella fisica classica, la natura era ritenuta fondamentalmente semplice e ordinata: i cicli lunari, il moto del sole e dei pianeti, le maree, inducevano a credere che il mondo fosse stabile, prevedibile, forse persino un po’ monotono, decifrabile attraverso un numero ristretto di principi generali. Il determinismo meccanicistico, in particolare, «pretendeva di desumere perfettamente le condizioni finali a partire dalla conoscenza delle condizioni iniziali di un sistema» (p. 187), cosicché «ragionare» significava «dedurre meccanicamente le conseguenze» (p. 218) necessarie a partire da leggi assolute. La scienza, specialmente la matematica, in tal modo sembrava edificata su solide fondamenta, lineare, completa e graniticamente certa.

Eppure, con le geometrie non euclidee, apparse alla fine dell’Ottocento, scopriamo, inaspettatamente, che quanto siamo stati costretti a imparare da bambini è soggetto a contraddizione: «due rette parallele possono incontrarsi e la somma degli angoli interni di un triangolo può essere maggiore o minore di 180°» (p. 238). La crisi dei fondamenti della matematica è poi culminata nei teoremi di incompletezza di Kurt Gödel, che hanno minato alla base il progetto di Hilbert di produrre un sistema che fosse «completo» e «consistente» allo stesso tempo (p. 217). Gödel ha trasformato la matematica in una sorta di religione, perché similmente caratterizzata da proposizioni indimostrabili che ne inficiano il rigore logico, rendendola sempre meno certa. E se produce dubbi persino la matematica, da sempre porto sicuro e rassicurante in grado di sottrarci ai flutti e ai tormenti della vita quotidiana, di cosa si può ancora essere sicuri? «Il secondo scienziato ad aver fatto tremare le fondamenta della matematica è stato Alan Turing» (p. 219), con i suoi teoremi di incalcolabilità; più recentemente, Gregory Chaitin ha segnalato il ruolo del caso nel mondo della matematica.

Anche nella concezione del tempo si sono verificati cambiamenti estremamente significativi, dalla teoria della relatività di Einstein alla scoperta dell’entropia, la quale afferma che l’universo si evolve verso un disordine crescente, infrangendo l’idea della reversibilità temporale, che viene soppiantata così dalla «freccia del tempo» (p. 214).

Il principio di indeterminazione di Heisenberg, inoltre, ha inferto un duro colpo al determinismo tradizionale, per cui l’indeterminazione e l’aleatorietà sono divenute cifre caratteristiche della nuova scienza, tutta quanta imperniata sull’importantissima teoria del caos deterministico, scoperto dal matematico Henri Poincaré. Il caos deterministico e la fisica quantistica ci parlano di un mondo complesso, dunque non contrassegnato semplicemente dall’assenza di ordine, ma dalla compresenza di determinismo e impredicibilità, nel senso che la più piccola variazione nella condizione iniziale di un sistema risulta considerevolmente amplificata nei risultati, che di conseguenza sono imprevedibili. Un evento apparentemente insignificante può avere ripercussioni incalcolabili, in virtù della sensibile dipendenza dalle condizioni iniziali, come esemplifica «la metafora della farfalla che, con un solo battito di ali, può scatenare una tempesta all’altro capo del mondo» (p. 185).

Nelle scienze della complessità, esploriamo quindi un universo non più ritenuto statico e immutabile, ma dinamico e in continua espansione, decisamente instabile e lontano dall’equilibrio. Come afferma Prigogine: «Adesso è il divenire, non l’essere, a risultare fondamentale dal punto di vista ontologico» (p. 40).

Si pone in evidenza che l’evoluzione della natura non procede in modo lineare, come sosteneva Linneo, ma per via di “salti infiniti”, come dimostrano l’autopoiesi e l’emergenza, che segnalano la capacità dei sistemi fisici dotati di una certa complessità di riorganizzarsi, in senso adattativo o innovativo, dando luogo a proprietà nuove. Queste proprietà di “alto livello” non sono spiegabili semplicemente sulla base dei livelli fisici sottostanti, come se costituissero un livello virtuale, una totalità, non più riducibile alle sue componenti materiali. In un sistema complesso, infatti, «il tutto è maggiore della somma delle parti» (p. 9), in contrapposizione al principio di semplificazione, secondo il quale «la conoscenza di un insieme di elementi o di un tutto viene ridotta alla conoscenza delle singole parti, senza capire che il tutto possiede qualità che non si trovano nelle singole parti» (p. 23). In un sistema autopoietico, inoltre, Il tutto è in grado di agire sulle singole componenti: «A produce B, che a sua volta produce A» (p. 125). Esemplifica Morin: «Gli individui producono la società, la quale a sua volta produce l’individuo» (p. 24). Varela chiosa che l’organismo in grado di autoprodursi è allo stesso modo in grado di autodistruggersi, come avviene nel caso delle malattie autoimmuni.

L’autorganizzazione ci consente di interrogarci innanzitutto sull’origine della vita, con l’autocostituzione cellulare, ma l’idea dell’autonomia, dell’indipendenza degli organismi, trova applicazione anche nel campo dell’intelligenza artificiale, con la realizzazione di robot autonomi, vale a dire senza nessuna programmazione.

Le scienze della complessità, che rifiutano l’analogia cervello-computer, distinguendo tra la complicazione dei sistemi artificiali e la complessità dei sistemi naturali, ristabiliscono la fondamentale unità di scienze umane e scienze naturali. A. Linde afferma: «Secondo me lo studio dell’universo è prima di tutto uno strumento per la comprensione di noi stessi. L’universo è la nostra casa cosmica. Si può immaginare di capire qualcosa di un amico osservando in che modo è fatta la sua casa. Il mio obiettivo finale non è quello di capire l’universo, ma la vita» (p. 264). Dall’universo traspare infatti una complessità paragonabile a quella umana, come se mente e natura, res cogitans e res extensa, convergessero. La scienza si accosta alla poesia: «Il nostro vocabolario scientifico dovrebbe somigliare un po’ a quello poetico. […] Dobbiamo capire in che modo utilizzare il linguaggio non lineare come i poeti. […] Questa sarebbe la vera scoperta scientifica. Siamo tutti tentati dalla poesia; gli scienziati la utilizzano, in una maniera o nell’altra» (p. 121). Nella natura si riscontrano adesso libertà, fantasia creatrice e imprevedibilità, così come nelle scienze “esatte” si insinuano l’incertezza, la precarietà e le irriducibili contraddizioni dell’esistenza umana.

Una logica complessa riesce a «tessere insieme» (p. 19), «dialogicamente» (p. 20), idee e predicati contrastanti in riferimento allo stesso fenomeno, rinviando a «soglie critiche» (p. 9), «strette vie» (Prigogine), sfumature, disconosciute dalla logica classica, binaria, aristotelica. La contraddizione non è più considerata il campanello d’allarme che «segnala un errore di pensiero» (p. 24), come sosteneva Hilbert. Egli era convinto che la coerenza fosse condizione necessaria e sufficiente per la correttezza e validità del ragionamento, prima che Gödel affermasse l’esistenza di teorie coerenti false. Si verifica così il recupero delle inconsistenze e dei paradossi. Persino il microscopico, infatti, può rivelarsi poliedrico e pieno di contraddizioni, come dimostrato dalla scoperta da parte di N. Bohr della duplice natura delle particelle, insieme corpuscolare e ondulatoria, materiale e immateriale (p. 24). Il linguaggio della complessità è solito affiancare nozioni comunemente considerate antitetiche, come nei giochi di parole di Morin, tra cui «summum ius, summa iniuria» (p. 29), invito a un’applicazione elastica delle leggi, che andrebbero sempre interpretate in considerazione del contesto specifico. Non a caso, le scienze della complessità «ci avvicinano alla singolarità» (p. 279) e alle eccezioni, che l’assolutezza delle norme deterministiche neutralizzavano. Osserva M. Serres: «Quando ero giovane […] si insegnava che non c’era altra scienza se non quella del generale» (p. 287), mentre adesso «iniziamo a considerare un fenomeno come particolare, singolare, e non» soltanto «nella sua generalità» (p. 288).

La teoria della complessità, insomma, riabilita e pone al centro innumerevoli aspetti del reale tradizionalmente marginalizzati, così ora essi «si muovono verso il cuore dell’attività scientifica» (p. 10). Ne sono esempi ulteriori l’irrazionale (tanto nella versione psichica dell’inconscio che in merito all’impredicibilità degli eventi); lo pseudoproblema; il non senso e il patologico.  Benkirane puntualizza che, con la teoria delle biforcazioni e delle catastrofi, si formulano ormai previsioni soltanto in termini di probabilità, non più di certezza, nella constatazione che «Dio», a dispetto di quanto sosteneva Einstein, «gioca a dadi» (p. 225), in fisica come in matematica. Del resto, «la parola “caso” […] significa “probabilità”: era un gioco di dadi che veniva praticato nella Spagna musulmana» (p. 195). Molto significativa è anche l’espressione «dittatura del mercato» (p. 187), in riferimento all’impossibilità di prevedere le fluttuazioni della Borsa. «Constatiamo», tuttavia, «un grande paradosso: è l’incognita, l’imprevisto, il non pianificato a essere più costruttivo. […] Spesso è il caso stesso ad essere fonte di creatività. Spesso è l’imprevisto a modificare maggiormente il comportamento di un essere vivente, e di conseguenza è proprio ciò che fornisce l’apporto maggiore» (p. 74). «Gli insetti non hanno progetti», eppure «costruiscono cattedrali» (p. 76). Nell’assenza di fondamenti, di un “punto archimedico” nella conoscenza, matura in noi l’idea di un futuro non più riduzionisticamente inteso come semplice compimento dei nostri piani e dei nostri calcoli, ma come apertura al nuovo, allo sconfinato, all’indefinito, alle più diverse possibilità, non conoscibili a priori. «È l’immagine del poema di Machado che dice che non esiste un cammino già segnato, ma che esso si costruisce nel camminare» (p. 132). La vertigine della ragione privata dei suoi assoluti ci insegna a vivere nell’insicurezza e nell’instabilità, a fare i conti con l’ignoto e l’imprevedibile. Assistiamo a una generale e destabilizzante «fine delle certezze» (Prigogine) in cui si delinea una scienza che ha perso definitivamente la qualifica di episteme, adesso che il dubbio e l’incompletezza hanno preso il posto delle “idee chiare e distinte” di un tempo, nella consapevolezza che «i problemi più profondi ci sfuggono» (p. 22). L’incertezza e la confusione ci consegnano a un destino di sofferenza, perché non sappiamo che cosa fare, dove aggrapparci, siamo come inghiottiti dalle sabbie mobili. Eppure, esse ci preservano dall’irrevocabile disperazione che travolge chi, al pari di Javert, l’irreprensibile servitore dell’ordine stabilito, veda scompaginate le proprie convinzioni all’insorgere di fatti inattesi. Se «nella visione classica e deterministica l’universo è ordinato, e il disordine è dovuto all’ignoranza» (p. 24), dinanzi allo sgretolarsi di tutti gli assiomi che formavano i punti d’appoggio della sua vita, Javert comprende che «l’irregolare, l’inaspettato, il disordinato spalancarsi del caos» non sono «patrimonio […] dei miserabili» (V. Hugo, I miserabili, tr. it. di E. De Mattia, Newton, Roma 2004, pp. 869-876). L’aver messo in luce i limiti della ragione non porta al fallimento della scienza, riducendola a mera opinione, perché ogni limite può segnare il confine di un universo di discorso per aprire la strada a universi altri e ancora tutti da esplorare. In fin dei conti, la probabilità può rappresentare un arricchimento, anziché una perdita, nel solco di un’esistenza che converte l’inquietudine che la pervade nella ragione della sua forza, come riconosce Prigogine: «Il probabile, il possibile e il virtuale» sono «più ricchi del reale» (p. 40).

Marina Manzo

S&F_n. 6_2011

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