L’intero progetto filosofico che sostiene l’opera di Erwin W. Straus Il vivente umano e la follia risulta evidente dalle ultime frasi del testo, laddove l’autore afferma: «mi è parso necessario delineare innanzitutto la “situazione primaria”, comune all’uomo e all’animale, su cui si costruisce il mondo umano» in maniera tale da mostrare che «la medicina antropologica necessita di una propedeutica antropologica» (p. 106).
Il testo, il cui titolo originale è Philosophische Grundfragen der Psychiatrie II. Psychiatrie und Philosophie, ha come proprio scopo quello di connettere la filosofia alla psichiatria in maniera tale da rendere conto dell’una attraverso l’altra. Questo è forse uno degli aspetti più interessanti: Straus è convinto che per comprendere come sia possibile che il vivente umano possa “ammalarsi” nello “spirito” (la possibilità della follia come possibilità tutta umana) è necessario sottoporre a critica proprio il modo attraverso il quale noi poniamo il nostro sguardo interpretativo sul fenomeno umano. L’analisi dei “fondamenti della psichiatria” non è altro che un’analisi filosofica dei fondamenti della filosofia stessa, la possibilità della psichiatria si dà soltanto nel momento in cui l’analisi filosofica del fenomeno umano si libera di tutta una serie di scorie che le provengono dal passato lontano e vicino.
In primo luogo Straus liquida rapidamente ogni concezione medica che cerca la radice della “malattia dello spirito” in un organo (il cervello) ma non tanto per portare una critica a ogni forma di riduzionismo quanto piuttosto per definire la “difficoltà di definizione” della psichiatria stessa, per comprendere il luogo da cui la psichiatria parla (e deve parlare). Si può affermare, allora, che «mentre la pratica medica in generale è diretta verso l’uomo in quanto essere vivente, verso l’organismo e i suoi organi, lo psichiatra ha a che fare con l’uomo in quanto cittadino del mondo o dei mondi storici e sociali» (p. 4). Straus viene solitamente accomunato a Binswanger, von Gebstall e Minkowski all’interno della “scuola” fenomenologico-psichiatrica, la quale si interroga sull’umano confrontandosi con la nozione heideggeriana di esistenza e con la nozione husserliana di mondo della vita.
Però (e questo è il primo colpo di scena) Straus si confronta proprio con Heidegger (la cui analitica dell’Esserci per Binswanger è fondamentale per definire le basi della psichiatria) in maniera fortemente critica: da un lato l’analitica dell’Esserci non fa altro che creare una frattura insanabile nell’insieme dell’esistente riproponendo una centralità del fenomeno umano (in quanto Esserci) e non rendendo conto di quell’insieme di caratteristiche che manifestano l’uomo in quanto animale, dall’altro la stessa definizione di Esserci risulta essere un’astrazione: «la parola Esserci è un neutro, senza sesso; non ha plurale, è un termine astratto, impersonale, obbiettivante» (pp. 14-15) per cui se ci si vuole avvicinare alla possibilità di comprensione del fenomeno umano bisogna analizzarlo in maniera radicale, non cercandone il fondamento «nell’assolutizzazione dell’esistenza in opposizione alla vita» (p. 12). Ed è proprio questo un altro limite dell’analisi di Heidegger, quello di non aver trattato a sufficienza la questione della vita, riducendola a «ciò che soltanto-ancora-vive» (p. 17), e la questione della natura riducendola a “semplice-presenza”. In più quando Heidegger afferma che l’Esserci incontra il mondo originariamente come “utilizzabile” compie un vero e proprio capovolgimento tra mondo artificiale e mondo naturale: per Straus originariamente l’uomo incontra il mondo come natura e poi attraverso un meccanismo di specializzazione e di distanziamento produce il mondo artificiale degli enti utilizzabili e traduce in termini di utilizzabilità la stessa natura. Ma ciò che per Straus è indicativo dell’appartenenza di Heidegger alla tradizione di pensiero occidentale – quella della frattura insanabile tra “anima” e “corpo”, “interno” ed “esterno” – è il fatto che il corpo vivente dell’uomo (che effettivamente agisce nella realtà)non rientra nell’analitica dell’Esserci anzi «già l’espressione “gettatezza” rinvia al fatto che il corpo viene esperito come peso, limite, destino, appunto come quel “ci” [Da], in cui l’Esserci si trova gettato» (p. 20).
In poche parole per Straus l’analitica dell’Esserci e l’analisi esistenziale che da essa deriva hanno avuto un compito fondamentale nel momento in cui hanno strappato la psichiatria al dominio della scienza naturale e medica e alla sua fisiologia riduzionista, ma ora «resta ancora il compito di assegnare all’essere-nel-mondo un luogo gravitazionalmente ancorato al tutto della natura» (p. 21).
Il tentativo complesso di Straus consiste nel cercare il punto in cui è possibile illuminare quella relazione primaria che lega (ma in maniera oppositiva) l’uomo alla natura, per determinare la relazione tra la parte naturale e la parte culturale dell’uomo, tra vita ed esistenza. Questo progetto (che è pienamente filosofico) dovrebbe condurre alla definizione di ciò che l’uomo nella sua struttura originaria è e quindi permettere di comprendere il senso delle definizioni mediche di normale e patologico: soltanto la precisa definizione della norma permette di definire l’ab-norme. In questo senso Straus è pienamente convinto che attraverso un’utilizzazione radicale del metodo fenomenologico si possa raggiungere la definizione della struttura dell’umano, di quella struttura elementare «che sta alla base di tutte le varianti storiche e sociali» (p. 26).
La questione a questo punto è di cogliere questa struttura elementare e, per farlo, bisogna preliminarmente staccarsi da ogni concezione coscienzialistica del fenomeno umano che si inscrive nella sequenza Cartesio-Kant-Husserl. Insomma è ancora una volta “l’errore di Cartesio” a essere sottoposto a critica, è ancora una volta necessario sottolineare che la distinzione tra le res (ma anche la riduzione dei viventi a pure macchine estese), rappresenta da un lato la costruzione di un modello e metafisico e scientifico e dall’altro rappresenta il sintomo del male antropologico della modernità. Straus è radicale e critica nello stesso tempo la tradizione empiristica che parcellizza i vissuti in atomi psichici e i razionalisti che non rendono conto del fatto che l’uomo è “incarnato”. La dicotomia coscienza-mondo (ovvero la storia della modernità filosofica) è un falso problema.
Dunque: per uscire dall’impasse del moderno bisogna partire dalla motilità (questo il secondo colpo di scena); e bisogna partire da essa in quanto «l’uomo e l’animale sono così creati o, perlomeno, così costituiti da potersi ergere al di sopra di un suolo che li sostiene in quanto esseri sé-moventi, e potersi ad esso opporre in quanto individui auto-affermantisi» (p. 44); in questa affermazione che sembra avvicinare le riflessioni di Straus a quelle proprie dell’antropologia filosofica tedesca, è già contenuta la possibilità della coscienza: «col sollevarsi dal suolo giunge a compimento quella contrapposizione con il mondo che domina la struttura d’insieme di tutta l’esperienza» (p. 51).
Il vivente umano e animale (questo è un altro aspetto interessante: Straus partendo dalla motilità non opera una cesura ontologica tra umano e animale) nel suo atto di sollevarsi si rapporta al mondo in maniera da non sentirsi più pienamente parte di esso ma non sentirsi completamente indipendente da esso: questa relazione Straus la definisce attraverso l’espressione Allon.
Per Allon bisogna intendersi quella “situazione animale originaria” attraverso la quale si costituisce la possibilità di un’azione nel mondo, di produzione di quella “distanza” che attraverso il movimento e l’ergersi caratterizzano l’uomo e l’animale nei riguardi del mondo: un’appartenenza che non è più completamente tale, ma una separatezza che non è mai assoluta. Attraverso la nozione di Allon Straus tenta di rendere conto della relazione individuo-ambiente, definendo la possibilità stessa di una coscienza e di un mondo come un qualcosa che accade già all’interno del mondo; l’uomo-animale – ergendosi – costituisce se stesso come coscienza e soggetto e costituisce il mondo come ambiente e oggetto. Ma l’uomo non è mai un soggetto assoluto così come l’ambiente non è mai un oggetto assoluto: questa la questione antropologica primaria, questo l’Allon.
Lo studio della relazione Io-Allon può avvenire solamente attraverso un’estesiologia la quale – come nota Gualandi nell’ottimo saggio introduttivo – «dovrebbe […] ispirare un approccio al mondo dei sensi e del sentire che metta in luce tutta la ricchezza delle sue strutture e del suo senso pre-linguistici e pre-categoriali» per cui essa è una «descrizione delle strutture a priori incarnate nei sensi e nel corpo umano e animale» (p. XIII). Dunque: i sensi come vero e proprio a priori materiale.
E la follia? Essa sorge da una distonia di questa relazione originaria Io-Allon; si presenta nel momento in cui l’ergersi umano nei confronti dell’Allon non permette la costruzione dell’a priori materiale necessario per il dialogo con il mondo e con gli altri uomini; ma come si dà una tale possibilità? come sopraggiunge a un certo punto tale distonia? è un problema di sguardo? ma soprattutto: è culturale o naturale?
La follia non è un tema realmente trattato in questo testo se non nelle ultimissime pagine e in maniera rapida e rapsodica; se la psichiatria e la filosofia possono trovare i propri fondamenti nella rappresentazione della follia come limite, è chiaro che la follia stessa si pone ben al di là di questo confine; se l’osservazione della follia da un lato permette (per contrasto) di costruire il senso della ragione umana e i suoi fondamenti in vista di un funzionamento normale, dall’altro non può che fallire nel tentativo di definire i contorni della follia in quanto essa è ciò che sfugge a ogni definizione e ciò che non si “contorna”. L’ab-norme permette la comprensione della norma, ma non dell’ab che rimane ineffabile: è la definizione di una distanza, di un allontanamento “senza definizione”.
Delio Salottolo
S&F_n. 3_2010
S&F_n. 14_2015