Messa alla tortura la natura tace.
(J.W. Goethe)
In un’epoca come l’attuale, dominata dall’insicurezza e, finanche, da un estroflesso e più che mai crescente sentimento di timore per-esistentivo in conseguenza di un modello politico-economico-esistenziale decisamente in crisi qual è quello occidentale di impronta capitalistica (post-fordista, globalizzato e qualsiasi altra etichettatura si voglia), non poteva non tornare prepotentemente d’attualità il tema dell’ecologismo. Spinto e sospinto da una certa retorica istituzional-mediatica sguazzante negli orrori dei gorghi di un nichilismo in cui il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi in ragione e in nome di una scienza che avrebbe abolito qualsiasi frontiera valoriale, il ritornante ecologismo fa leva proprio sull’instabilità esistenziale di cui prima e, giocoforza, su quella che, un trentennio fa, Hans Jonas aveva stabilito essere un plausibile criterio orientativo per un’etica (per-existentiva e dunque assoluta) a venire del genere umano: l’euristica della paura. Coscienza che l’uomo ha del limite ma, prima ancora, coscienza che il non-limite, l’illimitato prometeico, porta in sé il pericolo per l’uomo dell’auto-estinzione, stanno progressivamente facendo crescere attese proto-messianiche e, elemento forse ancor più deprimente, sacche e risacche di “eticuccie” d’occasione che con la serietà del cimento scientifico, la fatica del da pensare hanno ben poco a che fare.
Nell’epoca dell’insicurezza tutto (o quasi) può andar bene purché serva a tenere distante l’oppressione e l’asfissia dell’angoscia esistenziale. E questo, tutto o quasi, sovente si traduce in un mortificante trionfo del dilettantismo, quando non addirittura di un qualunquismo imbellettato da presunta (e quindi presuntuosa) seriosità sapienziale.
È forse d’uopo considerare, invece, nella riattualizzazione di questioni così cruciali e che hanno a che fare indefettibilmente con il qui e ora e domani dell’uomo, volgere lo sguardo a fonti e strumenti di conoscenza che, oltre a sottrarsi alla ciarla gazzettiera, siano anche in grado di squadernare la complessità della materia in oggetto.
È il motivo per il quale può esser utile, quale passo preliminare per entrare poi nel vivo di discussioni tanto stimolanti almeno provvisti di una necessaria «cassetta-attrezzi» conoscitiva, rispolverare la lettura di un volume edito qualche anno fa da Nicola Russo, Filosofia ed ecologia. Idee sulla scienza e sulla prassi ecologiche.
Articolato in due sezioni, Genealogia della scienza ecologica ed ecologismo scientista e Filosofia dell’ambiente e genealogia della scienza ecologica, il libro di Russo – così come ha costatato nella Prefazione il fisico-chimico Enzo Tiezzi – è «importante, profondo, dettagliato, ricchissimo di bibliografia e di analisi filosofiche interessanti» (p. 9) e presenta, in un scenario filosofico desolante per più di un aspetto, una panoramica ampia delle molteplici e moltiplicantesi forme di pensiero cui, anche oggi, si riferiscono le sfiancate diciture «ecologia», «crisi ecologica», «eco-sostenibilità», «eco-compatibilità», etc. Nel suo complesso iter Russo fa riferimento e si occupa dell’ecologia non in un senso «ristretto e specialistico» (p. 22) quale branca della biologia, della botanica e della zoologia, ma l’assume come lo «strumento teorico più idoneo a interpretare nella loro globalità i segni della crisi ecologica» (ibid.). In definitiva è in detto salto di qualità che l’ecologia diviene degna di considerazione filosofica: «passando, infatti, da scienza particolare della natura a scienza della “crisi della natura” e del rapporto tra natura e società umana, l’ecologia assume dei significati metascientifici che la sottraggono alla specializzazione delle accademie naturalistiche e la fanno quanto meno apparire, se non essere, “la più umana delle scienze naturali”» (ibid.).
Nell’offrire la panoramica di cui si diceva – metodologicamente improntata a una vera e propria «genealogia», procedimento che permette di attraversare con chiarezza esemplare nodi e tappe della «storia della scienza» [sia consentito, a questo riguardo, segnalare le pp. 33-48 dedicate a Matematica, linguaggio e tecnica: la posizione di Werner Heisenberg, e il cap. III della prima sezione, La cibernetica, ovvero dalla macchina a vapore alla filosofia della caldaia (pp. 95-139)] – e nel far luce sull’armamentario concettuale e procedurale della scienza ecologica, l’autore conduce acute analisi tese a presentare una ecologia che si muove, sostanzialmente, in sintonia con lo sviluppo e il progredire delle moderne scienze della natura, «una scienza ecologica, dunque, che lungi dal rappresentare l’irruzione di un nuovo paradigma, si pone come inveramento delle tendenze dominanti il pensiero occidentale almeno da Cartesio in poi. […] Una radicalizzazione dei principi regolativi e metodici della “scienza newtoniana”» (p. 141), in altri termini. Ed è in questo solco che trovano collocazione, in larga parte, le critiche rinvenibili alle varie terapie ecologiche che hanno disatteso il loro compito primario, «quello di chiarire cos’è la crisi ecologica in quanto crisi culturale, come e perché si manifesta la crisi culturale ecologica e come una tale crisi della cultura mette in crisi la natura» (p. 204).
Non essendo animato da alcuna intenzione giusnaturalistica, ancor meno soggetto a facili ricadute in ottusi schemi pragmatistici, il progetto speculativo di Russo, sciolto da qualsiasi intenzione apologetica, da un lato, da fastidiosi richiami moralisticheggianti, dall’altro, si presenta, nel suo esser proteso verso un’interpretazione «prospettivistica» dei valori che non nutre, quindi, «fiducia nella possibilità di una fondazione definitiva, che sia metafisica od etica, degli scopi e dunque dei valori e rimane ferma al loro carattere non universalizzabile, storico e vitale, alla loro costitutiva finitezza e determinazione» (p. 223), come progetto morale in senso forte. Quanto mai decisive, giacché sorreggono la pars construens del discorso, le pagine dedicate al Pensiero heideggeriano in ecologia (pp. 253-305), pagine in cui è messa sapientemente «alla prova […] la facoltà del pensiero ecologico in generale a porre domande significative alla filosofia di Heidegger e la facoltà di questa a chiarire certe intenzioni fondamentali di quello stesso pensiero» (p. 265). È in definitiva dipinto un quadro interpretativo del percorso di pensiero heideggeriano, a partire dalla questione della tecnica, molto preciso e dal quale Russo stesso, maturamente scremando non poco, attinge in maniera proficua, in special guisa laddove è esplicitato, rimodulato e infine assunto quale filo del suo progetto speculativo l’heideggeriano «rapportarsi libero alla tecnica come accettazione-approfondimento» (p. 271 e sgg.), problematica indicazione di prospettiva in direzione di un neo-umanesimo ancora tutto da pensare ed edificare.
Ed è proprio come portato delle lucide considerazioni condotte a partire da Heidegger, o persino da Jonas – con il quale non c’è accordo «rispetto a buona parte della sua fondazione ontologica dell’etica» (p. 323), ma al quale è comunque riconosciuto di aver «impostato in maniera sostanziale il […] discorso, categorizzando una serie di intuizioni irrinunciabili» (ibid.) – che Russo (e in questo la conferma circa la struttura morale forte della sua proposta) ha potuto acutamente rilevare che l’etica «come antidoto al pericolo ecologico nelle sue dimensioni esclusivamente naturali e vitali non è intesa […] altrimenti che in un senso ancora radicalmente utilitaristico e tecnico, come mero “strumento spirituale” funzionale a una strategia di salvezza, come macchina dell’agire ecologicamente corretto, lavoro al cui scopo l’intero mondo delle virtù, dei valori e dei doveri diviene un fondo utilizzabile» (p. 317).
Nel non abbandonarsi all’enfasi o alla verbosità degli attardati tromboni assolutamente ignari di quelli che Thomas S. Kuhn avrebbe definito i «reali e attuali paradigmi scientifici», nel non consegnarsi al senso buono e buonista che domina il comune e anche il filosofico considerare su questi argomenti e, soprattutto, nel non cedere alla vertigine di sofisticati giochi intellettualistici, nel sostanziale equilibrio, nella coerenza interna, risiedono gran parte dei meriti di questo libro.
In tale luce vanno lette e prese in considerazione le rimodulazioni in atto in passaggi come quello in cui l’invito alla «sobrietà», alla «cultura della misura» vuole risolversi in «un’ascesi per», «per l’uomo e la sua civiltà e natura» (p. 373), «un’ascesi il cui limite è la misura e il cui scopo primario è la sovranità, un’ascesi che vive nel limite e nello scopo in quanto “disciplina della volontà” e il cui frutto è la “responsabilità” e che solo in funzione di tutte queste affermazioni può anche negare, può anche rinunciare» (p. 374).
«Bisogna dunque saper volere, ovvero sapere i limiti della propria potenza nel volere e dunque i limiti della nostra possibile libertà, il che è posto in Nietzsche – fonte inesauribile, perché intimamente strutturante, del percorso di Russo – sempre in stretta correlazione con la responsabilità» (p. 384): in questo l’affannosa ricerca di un peculiare canale atto a stimolare un surplus etico su cui far leva e che, proprio perché prevede uno sforzo – lo stare nella misura – senza premio, se non quello problematico di poter ancora provare a soggiornare, si configura come un’etica della precarietà. Ma proprio in questo, in un’epoca che senza alcun senso storico prova a elemosinare sicurezze tra le macerie di cattedrali metafisiche crollate da secoli, la sua forza e persuasività, nonché tragica in-attualità.
Gianluca Giannini
S&F_n. 2_2009