Il 7 Aprile 1948 entra in vigore la costituzione dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS). L’obiettivo di quest’agenzia specializzata dell’ONU consiste nel promuovere la salute, definita non come una semplice assenza di malattia, bensì come uno «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale» (Costituzione dell’OMS, New York 1946).
La definizione introdotta dall’OMS è indicativa del cambiamento di prospettiva che si è avuto negli studi sulla salute nella seconda metà del Novecento. L’interesse, infatti, si è progressivamente spostato dalle singole alterazioni organiche capaci di compromettere l’integrità individuale, al benessere complessivo della persona che, nella sua totalità e unità, si dà sempre in un rapporto di influenza reciproca col suo ambiente circostante. In linea con questo cambiamento di prospettiva, nella Carta di Ottawa, presentata nel 1986 in seguito alla prima Conferenza internazionale per la promozione della salute, viene specificato che il problema della salute non rappresenta una questione di competenza esclusiva delle istituzioni sanitarie, ma «coinvolge coloro che compiono scelte politiche in tutti i settori e a ogni livello» (Rapporto della Prima Conferenza Internazionale per la promozione della Salute, Ottawa 1986).
In virtù di tali osservazioni il rapporto tra ambiente e salute rivela tutta la sua problematicità. Nel libro Ambiente e salute: una relazione a rischio Fabrizio Bianchi, Fiorella Battaglia e Liliana Cori si propongono di far luce proprio su questo complesso rapporto, avviando, a tal fine, un dialogo tra molteplici ambiti disciplinari. Il testo presenta un articolato percorso di riflessione che, supportato dall’analisi di casi studio di notevole rilevanza e attualità, mostra la necessità, avvertita in maniera sempre più viva, d’individuare un punto d’incontro tra ricerca scientifica, riflessione etica e prassi politica.
Le considerazioni degli autori muovono dagli sviluppi dell’epidemiologia, disciplina che assume un ruolo chiave in questo discorso poiché deputata a indagare le relazioni tra condizioni ambientali e stato di salute. All’interno di quest’ambito è stato possibile assistere nel corso del Novecento a un radicale mutamento dell’impostazione metodologica, dovuto al passaggio dallo studio delle malattie infettive a quello delle malattie tumorali e cronico-degenerative. Il presentarsi di tali forme di patologie ha messo in crisi il modello di spiegazione causale tradizionalmente adottato in medicina. La loro insorgenza, infatti, si mostra irriducibile a un lineare nesso causa-effetto, correlandosi, piuttosto, a una molteplicità di fattori possibili (pp. 5-9).
L’esigenza di adottare un approccio probabilistico e multifattoriale nelle ricerche epidemiologiche ha condotto, sul piano epistemologico, ad affrontare la questione relativa al rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza. L’abbandono del modello deterministico, infatti, comporta il decadere del pregiudizio naturalistico che vede la realtà oggettiva come sussistente in sé e scomponibile in elementi semplici e universalmente validi, tra i quali possono essere istituite connessioni legali. Tale pregiudizio cede il passo a una concezione del mondo come sistema complesso entro cui sono inseriti sia l’osservatore che la realtà osservata (p. 13). Il riconoscimento del rapporto di correlazione che sussiste tra soggetto e oggetto della conoscenza conduce alla consapevolezza che le osservazioni del ricercatore non sono mai neutrali, ma risentono sempre di una determinata prospettiva. Emerge, a tal proposito, la necessità di delineare il giusto contesto di osservazione. Solo in tal modo i risultati dell’indagine epidemiologica potranno tradursi in interventi mirati. Importanti indicazioni in merito possono essere ricavate dalle metodologie d’indagine adottate nelle scienze sociali, in particolar modo in quelle storiche. Queste ultime presentano due strumenti conoscitivi che possono risultare fondamentali per la ricerca epidemiologica: la comparazione, che consente di individuare le uniformità che si manifestano nei diversi fenomeni osservati, e la narrazione, mediante cui diventa possibile ricostruire la genesi e l’evoluzione della situazione indagata (pp. 11-12). È, dunque, a tali discipline che l’epidemiologia deve oggi far riferimento.
La prospettiva di un confronto tra l’epidemiologia e le scienze sociali implica un ripensamento del rapporto tra le scienze dello spirito e le scienze della natura. Nel corso della seconda metà del XIX secolo, in effetti, si è assistito a una progressiva autonomizzazione dei due orizzonti disciplinari in risposta alla cultura positivista di inizio secolo, che sosteneva il primato della forma di conoscenza scientifico-naturale. L’incomunicabilità che si è venuta a creare tra i due ambiti conoscitivi risulta particolarmente problematica per la medicina. Quest’ultima, essendo collocata per intero nell’ambito scientifico-naturale, ha aderito alla logica causale, ma, come è già stato possibile osservare in precedenza, ha risentito dei suoi limiti. Proprio alla luce di tali considerazioni, gli autori rilevano come risulti «sempre più necessario il dialogo tra i due versanti in cui la cultura si è sviluppata: quello delle conoscenze scientifiche e quello delle conoscenze storiche» (p. 62).
L’instaurarsi di un confronto tra ricerche scientifiche e comprensione storica pone di fronte alla consapevolezza del rapporto di influenza reciproca che intercorre tra la natura e l’essere umano. La valutazione dei rischi ambientali per la salute s’intreccia saldamente col riconoscimento dell’impatto che gli interventi umani hanno sulla natura. Si delinea, così, uno spazio di riflessione entro cui, come sostiene Piero Bevilacqua, «la conoscenza si congiunge con l’etica, l’agire umano si accorge di responsabilità nuove prima inavvertite» (P. Bevilacqua, L’utilità della storia. Il passato e gli altri mondi possibili, Donzelli, Roma 2007³, p. 123).
Nel corso dell’opera viene sottolineata l’urgenza di una riflessione etica sull’ambiente in un’epoca, la nostra, in cui lo smisurato progresso scientifico e tecnologico si presenta come una concreta minaccia all’equilibrio della Terra. Le odierne innovazioni tecniche, infatti, hanno assicurato all’uomo una notevole capacità di intervento sull’ambiente circostante, i cui effetti si estendono nello spazio e nel tempo, portando con sé il rischio costante di una compromissione definitiva dell’intero ecosistema e, con esso, del futuro del genere umano. Questo potere acquisito oggi dall’uomo fa sì che la natura entri a far parte del campo delle sue responsabilità (pp. 79-83). Procedendo in un accurato confronto col pensiero di Hans Jonas, gli autori mostrano come, in virtù delle sue nuove responsabilità, l’essere umano si trovi oggi a dover riflettere su una possibilità di azione che supera notevolmente il suo sapere previsionale (p. 109). A causa di questa asimmetria gli interventi dell’uomo risultano caratterizzati da una perenne incertezza. In questo scenario, il riconoscimento del limite del proprio sapere assume il carattere di dovere (cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica 1979, tr. it. Einaudi, Torino 1990, p. 12). Di fronte all’insicurezza che accompagna le azioni umane il principio di precauzione diventa un imperativo inaggirabile.
Il suddetto principio, tuttavia, incontra delle resistenze da parte di quanti ritengono che esso possa ostacolare lo sviluppo scientifico ed economico. In risposta a tale osservazione gli autori ribadiscono che «il principio di precauzione fornisce l’indicazione di incentivare la ricerca e in questo senso non può essere interpretato come un intralcio ad essa o come un soffocamento dell’innovazione» (p. 98), ma si presenta, piuttosto, come un utile strumento in grado di agevolare il progresso dell’uomo nel segno del rispetto dell’ambiente e della salute. Alla base della critica mossa al principio di precauzione vi è, in effetti, l’adesione a una visione utilitaristica dello sviluppo che comporta uno sfruttamento aggressivo dell’ambiente. Tale visione mostra chiaramente i suoi limiti, dal momento che conduce a non tener conto della disponibilità limitata delle risorse naturali, né dello scarto che sussiste tra quella piccola parte della società che trae profitto da tali risorse e l’intera popolazione mondiale che ne subisce gli effetti. Il limite intrinseco a questa concezione di sviluppo e le responsabilità che l’uomo ha nei confronti delle generazioni future, impongono oggi un ripensamento dei valori chiave del progresso umano.
A partire da tali considerazioni si fa strada nella scena politica l’idea di sviluppo sostenibile. Quest’ultima compare nel corso degli anni Ottanta col procedere dei lavori della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, la cui presidenza è affidata a Gro Harlem Bruntland e trova una definitiva formulazione nella Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Durante questa conferenza si specifica che «il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo da soddisfare equamente le esigenze relative all’ambiente e allo sviluppo delle generazioni presenti e future» (Dichiarazione della Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, Rio de Janeiro 1992).
Il riconoscimento del potenziale distruttivo di una concezione puramente economica di benessere induce a una valutazione negativa della logica consumistica propria delle società occidentali e invita a una gestione razionale delle risorse naturali, in modo da consentire anche ai paesi del Terzo mondo di accedere allo sviluppo senza compromettere l’ecosistema in maniera definitiva. Diventa chiaro, a questo punto, che la salvaguardia dell’ambiente passa per l’analisi degli squilibri sociali, mettendo in luce l’esigenza di recuperare i valori della solidarietà e dell’equità. Gli autori sottolineano come l’attenzione posta al problema dell’equità lasci emergere la necessità di tutelare i gruppi più deboli. Tale questione risulta particolarmente sentita in ambito epidemiologico, dove si è giunti alla formulazione di un ideale di ricerca che non sia semplicemente finalizzato ad assicurare il benessere al maggior numero possibile di persone, ma tenga conto anche di quelle componenti della popolazione mondiale che, per la propria vulnerabilità, non potrebbero trarre alcun beneficio da misure precauzionali indifferenziate (pp. 35-122).
La complessità che si profila così nel discorso relativo alla salute si riflette sul piano politico nell’esigenza di costituire una «società della partecipazione» (p. 172), fondata su una comune assunzione di responsabilità in merito agli interventi di prevenzione. Proseguendo con la lettura del testo, si osserva come la prospettiva di un governo partecipativo consenta di rilevare il ruolo centrale che in questo scenario ricopre la comunicazione. Quest’ultima si presenta come lo strumento indispensabile per assicurare l’accesso di tutti alle conoscenze scientifiche in materia di ambiente e salute, contribuendo in tal modo all’instaurarsi di un confronto tra diversi valori e punti di vista. È solo grazie a questo confronto che diventa finalmente possibile porre in atto decisioni che possano far fronte all’incertezza che caratterizza la nostra epoca e che abbiano come fine ultimo quello di garantire il benessere dell’intero genere umano.
Anna Baldini
S&F_n. 2_2009