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La bioetica sotto accusa. Osservazioni e considerazioni critiche

Autore


Luca Lo Sapio

Università di Napoli Federico II

Dottore di ricerca in Bioetica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice


  1. Introduzione e struttura
  2. La nascita della bioetica
  3. Alcuni rilievi critici contro la bioetica
  4. Punti di forza e punti di debolezza delle critiche alla bioetica
  5. Considerazioni conclusive

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S&F_n. 17_2017

Abstract


Bioethics on trial. Remarks and critical Observations


After the definitive consecration of Bioethics, both at the academic and at the public level some scholars, from the early years of the new century, have begun to move criticism into various aspects of the discipline. In the present paper, after a brief introduction of historical character (§ 2), I will present some of these criticisms (§ 3) by highlighting strengths and weaknesses (§ 4). In the final paragraph (§5), I maintain that bioethics, despite some critical elements, can still be an important discipline both to understand the transformations of our society induced by biomedical developments and to provide homo technologicus with useful tools to guide his own moral conduct.


  1. Introduzione e struttura

La bioetica è la disciplina che studia, in modo sistematico, le dimensioni morali delle scienze della vita e della salute, con una impostazione interdisciplinare e impiegando varie metodologie etiche[1]. La scoperta dei crimini di guerra nazisti nella seconda metà degli anni ’40, l’esigenza di riflettere intorno alla natura della medicina e delle sperimentazioni mediche, l’urgenza di ridefinire, in senso non paternalistico, il rapporto medico-paziente e, a partire dagli anni ’70, gli impetuosi sviluppi della biologia molecolare, della genetica e delle biotecnologie, hanno dato, gradualmente, forma a una disciplina il cui impatto sul XX secolo è stato rilevante. Dopo la sua definitiva consacrazione, sia a livello accademico (con l’istituzione di cattedre di bioetica)[2] sia a livello pubblico (con la nascita dei Comitati nazionali di Bioetica e la diffusione dei comitati etici ospedalieri), alcuni studiosi, a partire dai primi anni del nuovo secolo, hanno iniziato a muovere critiche a vari aspetti della disciplina. Albert Jonsen, ad esempio, scrive nel 2000 un articolo, in seguito molto citato, dal titolo emblematico Why Bioethics has become so boring?[3]; pochi anni dopo Jonathan Baron[4], pubblica Against Bioethics[5]; nel 2012 Tom Koch, dà alle stampe Thieves of virtu. When Bioethics stole medicine[6].

Nel presente contributo, dopo una breve introduzione di carattere storico (§ 2), presenterò alcune di queste critiche (§ 3) mettendone in luce punti di forza e punti di debolezza (§ 4). Nel paragrafo conclusivo (§5) sosterrò che la bioetica, nonostante taluni elementi di criticità, può ancora essere una disciplina importante sia per comprendere le trasformazioni della nostra società indotte dagli sviluppi biomedici, sia per fornire all’homo technologicus[7] strumenti utili per orientare la propria condotta morale.

2. La nascita della bioetica

  1. Sono trascorsi centodieci anni dalla pubblicazione di Bio-Ethick. Eine umschau über die ethischen Beziehungen des Menschen zu Tier und Pflanze[8]. Qui il pastore protestante Fritz Jahr proponeva di estendere l’imperativo categorico kantiano al di là della sfera antropica, in vista della costruzione di un imperativo bioetico. Era il 1927: per la prima volta troviamo traccia della parola bioetica. Quarantatré anni dopo (1970) l’oncologo statunitense Van Rensselaer Potter in un articolo, divenuto famoso, Bioethics. The science of survival[9] scriveva che «ciò che oggi dobbiamo affrontare è il fatto che l’etica non può più essere separata da una realistica comprensione dell’ecologia, in senso ampio. I valori etici non possono più essere separati dai fatti biologici». L’articolo, riproposto l’anno successivo come primo capitolo del volume Bioethics. Bridge to the future[10], segnava l’atto di nascita ufficiale della bioetica, nella visione di Potter una scienza della sopravvivenza. Quest’ultimo scriveva, infatti, che «la sopravvivenza dell’uomo potrebbe dipendere dalla costruzione di un’etica basata sulla conoscenza scientifica. Vale a dire una Bioetica»[11].

    Anche Hans Jonas, nel suo Il Principio responsabilità[12] e in Tecnica, medicina ed etica[13], giungendo a conclusioni non distanti da quelle di Potter, ha riflettuto sulla necessità di costruire una nuova etica per la civiltà tecnologica. Un’etica adeguata a fronteggiare la mutata natura dell’agire umano e le potenziali minacce alla sopravvivenza della nostra specie legate ai rapidi sviluppi tecnologici. Di fatto, questa l’analisi di Jonas:

    ogni etica tradizionale […] condivideva tacitamente le seguenti, tra loro correlate, premesse: 1) la condizione umana, definita dalla natura dell’uomo e dalla natura delle cose, è data una volta per tutte nei suoi tratti fondamentali. 2) Su questa base si può determinare senza difficoltà e avvedutamente il bene umano. 3) La portata dell’agire umano e quindi della responsabilità è strettamente circoscritta[14].

    Tali premesse sono messe radicalmente in discussione dalla «tecnica moderna» che «ha introdotto azioni, oggetti e conseguenze di dimensioni così nuove che l’ambito dell’etica tradizionale non è più in grado di abbracciarli»[15].

    Tuttavia, più che nell’accezione di Potter (ripresa da Jonas)[16] il termine è stato impiegato nel senso di Andrè Hellegers, ostetrico olandese, co-fondatore del Kennedy Institute, per il quale la bioetica è l’etica applicata alle scienze biomediche, e nel senso di Warren Reich, curatore della Encyclopedia of Bioethics, che nell’edizione del 1978 (la prima) scriveva che

    la bioetica è lo studio sistematico della condotta umana, nell’ambito delle scienze della vita e della salute, esaminata alla luce di valori e principi morali[17].

    D’altro canto, come ricorda Giovanni Fornero in Bioetica cattolica e bioetica laica «la fortuna del neologismo[…] non elimina le notevoli divergenze circa la natura, gli ambiti applicativi, le finalità e le origini della nuova disciplina. Circostanza che rende problematica ogni sua “definizione” univoca»[18].

    Innanzitutto, il disaccordo si registra sulla data di nascita della disciplina. Di fatto, alcuni studiosi ricordano che già dopo la scoperta delle atrocità commesse dai medici nazisti, si era avviato nelle democrazie liberali dell’Occidente un processo di: 1) ripensamento del rapporto medico-paziente che andasse oltre il paternalismo tradizionale e procedesse verso i principi dell’alleanza terapeutica e del consenso informato; 2) definizione dei diritti dei pazienti e ridefinizione degli obblighi dei professionisti della salute; 3) ripensamento dei principi-guida della sperimentazione medica. Questo dovrebbe indurre a retrodatare l’atto di nascita della disciplina (pur in assenza della parola bioetica volta a designarla)[19]. Se, da un lato, questo non può essere trascurato e non può essere trascurato il contributo dato dalla riflessione di quegli anni (che portò, per altro, alla redazione di importanti carte mediche internazionali come il Codice di Norimberga del 1947 o il Codice di Helsinki del 1964), dall’altro, come diversi autori ricordano, è soltanto a partire dagli anni ’70 che si sarebbero create le condizioni per una complessiva trasformazione degli stili di vita occidentali. Gli straordinari sviluppi medici e i cambiamenti introdotti nel diritto (ad esempio le nuove norme in materia di aborto e divorzio che cominciarono a essere varate in Europa e negli Stati Uniti tra la fine degli anni 60 e gli anni 70) avrebbero, in altri termini, contribuito a far emergere l’esigenza di una nuova disciplina in grado di fornire un quadro normativo adeguato alle novità del tempo.

    In secondo luogo, il disaccordo si registra sul tema della portata dell’indagine bioetica. Alcuni autori concepiscono la bioetica come un ramo dell’etica vertente sulle dimensioni morali delle scienze della vita e della salute (il nascere, il morire, le questioni legate alla fecondazione assistita o alla manipolazione genetica), altri autori, sulla scia di Potter, ritenendo troppo ristretta e limitante questa accezione, propendono, invece, per una bioetica globale, comprensiva sia della bioetica medica (contemplata dall’accezione di Hellegers e Reich) che di quella ecologica[20].

    E ancora, alcuni autori concepiscono la bioetica come quella disciplina che, sulla scorta di principi e valori tradizionali, si occupa delle dimensioni morali dischiuse dalle scienze biomediche[21], mentre altri la concepiscono come una “nuova etica” in grado di superare i limiti imposti dall’etica vitalistico-ippocratica, e il cui obiettivo di fondo deve essere la costruzione di una nuova tavola dei valori[22].

    Altro problema sorge allorquando si tenta di fornire un criterio di classificazione dei vari modelli bioetici. Alcuni autori, infatti, sostengono che la bioetica è caratterizzata da una pluralità di approcci morali che non possono essere ricondotti all’interno di schemi semplificanti[23]. Altri autori, pur riconoscendo l’esistenza di molteplici metodologie etiche, osservano, ciascuno in maniera peculiare, come le varie proposte bioetiche siano, in linea di massima, storicamente riconducibili a due macroparadigmi biomorali: il primo costruito intorno ai principi di sacralità e indisponibilità della vita e il secondo costruito intorno ai principi di qualità e disponibilità della vita[24].

    Infine, una ulteriore divergenza si registra rispetto allo statuto epistemologico della bioetica che per alcuni studiosi, sarebbe, in ultima istanza, disciplina eminentemente filosofica[25], mentre per altri non dovrebbe essere schiacciata sulla dimensione filosofica, essendo, di volta in volta, prioritari nelle varie indagini bioetiche, ora la dimensione giuridica, ora quella medica, ora quella sociologica

    In definitiva, sono presenti molti punti di dissenso in relazione alla bioetica, dalle questioni legate alla sua data di nascita, a quelle relative al suo peculiare statuto disciplinare.

    Nonostante ciò, la disciplina, nelle sue varie declinazioni[26], tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 ha attraversato un processo di istituzionalizzazione che ha segnato anche la sua definitiva consacrazione a livello pubblico. La bioetica sembrava, quindi, aver conquistato un posto d’onore tra le discipline nate nel XX secolo e la considerazione di cui godeva, sia tra i medici sia tra i filosofi, appariva in quegli anni non trascurabile.

3. Alcuni rilievi critici contro la bioetica

  1. In realtà, a partire dall’inizio degli anni 2000, diversi autori hanno messo in luce che la bioetica starebbe vivendo un momento di impasse. Per Albert Jonsen i giorni in cui questa disciplina si distingueva per gli stimoli intellettuali e il coraggio morale delle battaglie contro il paternalismo medico e in difesa dell’autonomia decisionale dei pazienti sarebbero giunti al capolinea. Al posto delle «formidabili questioni del passato» (se condurre o meno forme di sperimentazione sui bambini, se razionare la dialisi o sospendere la ventilazione artificiale) saremmo ora di fronte a un sapere freddo e distaccato che si interroga, in modo burocratico, su problemi di principio, rapporto norme-casi particolari, etc. Saremmo, in altri termini, di fronte a una disciplina autoreferenziale e di corto respiro. Il decano dei bioeticisti statunitensi in Why has bioethics become so boring? invita, quindi, i colleghi a uscire dalle strettoie nelle quali il dibattito si è rinchiuso e, al contrario, rivolgere la propria attenzione agli sviluppi più recenti della scienza, agli studi evoluzionistici ed ecologici e lavorare, quindi, sulla base di un’idea di etica più calata nella realtà delle scienze empiriche della vita.

    Secondo Jonathan Baron, invece, alla bioetica sarebbe imputabile la creazione di un sistema decisionale che favorirebbe, di fatto, scelte irragionevoli. Nel libro Against Bioethics, egli sostiene che la bioetica non sarebbe affatto riuscita a limitare gli abusi della ricerca e della pratica medica. Al contrario, essa avrebbe fornito argomenti (come il principio di precauzione o lo slippery slope argument) impiegati, poi, dalla politica per rallentare o bloccare la ricerca scientifica (ad esempio la sperimentazione sulle cellule staminali embrionali). I bioeticisti, in tal senso, sarebbero diventati dei preti secolari «a cui i governi e le istituzioni guardano come a delle guide morali»[27].

    Su posizioni simili lo psicologo canadese Steven Pinker, il quale scrive che

    una disciplina bioetica autenticamente etica non dovrebbe mettere i bastoni tra le ruote alla ricerca attraverso la promozione di moratorie o minacce basate su principi accattivanti ma essenzialmente nebulosi come dignità, sacralità o giustizia sociale. Né dovrebbe contrastare la ricerca che è capace di dare benefici all’umanità nell’immediato o nel futuro prossimo seminando paure infondate, basate su pericoli ipotetici relativi al futuro remoto. Ad esempio attraverso perverse analogie con armi nucleari o con le atrocità naziste, scenari distopici o mostruose ipotesi di clonazione di soldati o di Hitler[28],

    sottolineando, sulla scia di Baron, come la bioetica funga più da ostacolo che da supporto per le scienze biomediche e la ricerca scientifica.

    Robert Becker, altro influente bioeticista americano, denuncia, invece, la carenza di senso storico dei bioeticisti, i quali nell’affrontare le questioni morali sollevate dagli sviluppi biomedici non terrebbero in debito conto la dimensione diacronica dei problemi ma sarebbero interessati, per lo più, a vincere competizioni di tipo logico-filosofico[29].

    Anche nel nostro paese si sono levate voci critiche. Gilberto Corbellini[30], ad esempio, ha sottolineato che il dibattito bioetico avrebbe esaurito il suo combustibile e che la stagione della bioetica, diventata nient’altro che una riflessione autoreferenziale, sarebbe giunta al termine. Al suo posto discipline più attente agli sviluppi della scienza. Ad esempio la neuroetica, la quale partendo per lo sviluppo delle sue argomentazioni dai solidi dati offerti dall’indagine neuroscientifica non avrebbe a soffrire di quelle carenze che attanagliano, invece, la disciplina madre.

    Nell’analizzare la situazione bioetica italiana, poi, lo storico della medicina scrive che

    in Italia, la bioetica non ha […] contribuito a gettare un ponte tra scienza e società. Sfruttando le debolezze strutturali e lo scarso impatto politico-culturale della comunità scientifica, nonché alimentata dai pregiudizi antiscientifici diffusi all'interno delle tradizioni culturali cattolica e crociano-marxista, di fatto ha fomentato la paura per la scienza e la diffidenza verso gli scienziati. In questa azione è stata ed è ovviamente favorita e assecondata dai modi improvvisati, indecisi ovvero senza un background conoscitivo e progettuale che hanno caratterizzato il governo politico della ricerca e dell'istruzione in Italia negli ultimi quarant'anni. Il legame, per certi versi piuttosto inquietante, che si è andato stringendo tra una bioetica antiscientifica e una politica senza progettualità in materia, sta mettendo a rischio la libertà di ricerca, produce mostruosità normative come la legge sulla fecondazione assistita e connota il pressappochismo moralistico della maggior parte dei documenti del nostro Comitato Nazionale per la Bioetica[31].

    Anche la Chiesa cattolica, dopo l’elezione di Bergoglio (marzo 2013), sembra aver scelto una differente strategia rispetto alla bioetica. Se questa rappresentava nell’agenda vaticana un campo di indagine fondamentale sia sotto il pontificato di Wojtyla che di Ratzinger (una disciplina attraverso la quale poter condurre la battaglia decisiva a favore del vangelo della vita)[32], con Bergoglio viene ricordato, ad esempio in Amoris laetitia, come insistendo soltanto su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, non si riuscirebbero poi a sostenere in maniera efficace le famiglie e il loro percorso di crescita[33].

    Da qui la necessità di integrare i principi con una maggiore attenzione alla concretezza della vita e alla peculiarità dei singoli casi.

    In sintesi, i problemi da cui sarebbe affetta la bioetica sono i seguenti:

    • scarsa attenzione per i dati scientifici;
    • scarsa attenzione per la dimensione storica dei problemi biomorali;
    • autoreferenzialità delle argomentazioni morali;
    • natura eccessivamente astratta della disciplina;
    • scarsa utilità sociale della disciplina, che, spesso, crea ostacoli alla ricerca scientifica più che promuoverla.

     

4. Punti di forza e punti di debolezza delle critiche alla bioetica

  1. Le argomentazioni proposte colgono alcuni punti di criticità reali. Devono quindi essere soppesate con attenzione al fine di evidenziare sia gli elementi fondati sia quelli problematici.

    L’analisi di Jonsen (condivisa da Corbellini), per cui le indagini bioetiche non terrebbero in debito conto gli studi evoluzionistici ci consente di sottolineare che se da un lato è vero che taluni bioeticisti non considerano in modo adeguato le basi scientifiche[34] dei problemi di cui si occupano, questo aspetto non può essere generalizzato fino a farne un contrassegno della bioetica in quanto tale, tanto più se pensiamo che settori di indagine come la neuroetica[35], la nanoetica[36], l’etica del potenziamento umano[37], la roboetica[38] non sono necessariamente da considerarsi come settori disciplinari autonomi ma, piuttosto, come specificazioni del più ampio settore di indagine della bioetica[39]. Di fatto, l’attenzione per le interconnessioni tra scienza (dominio fattuale) ed etica (dominio prescrittivo) è un elemento fondante per molti autori[40]. I rilievi di Jonsen, quindi, sono plausibili se ci aiutano a sottolineare un dato essenziale nella individuazione e/o costruzione della carta d’identità della disciplina; diventano problematici, invece, se generalizzati alla disciplina in quanto tale.

    Anche le considerazioni di Baron e Pinker, che vedono la bioetica quale gendarme morale, vanno accolte ma non senza alcune precisazioni. La bioetica, infatti, si configura come riflessione razionale sulle situazioni problematiche dischiuse dalle scienze biomediche e non è ipso facto contraria alla sperimentazione o al progresso della ricerca. È una certa declinazione della bioetica che presenta questi tratti, ossia la bioetica di area conservatrice (ed è rispetto a questa che le osservazioni di Baron e Pinker appaiono fondate). A causa degli effetti prodotti da questo approccio alle questioni biomorali (visibile, ad esempio, in alcune decisioni assunte dal CNB, o nei protocolli restrittivi rispetto alla sperimentazione farmacologica elaborati da alcuni comitati bioetici ospedalieri), spesso si identifica la bioetica come la disciplina il cui compito è, né più né meno, quello di porre dei limiti alla ricerca scientifica, dimenticando, invece, che uno dei compiti storici che la disciplina si è assunto è proprio quello di costruire una tavola dei valori adeguata alle novità introdotte dalla scienza e dalla tecnologia.

    Infine, le critiche alla bioetica, vista come sapere astorico e astratto (secondo quanto sostenuto da Baker e, per certi aspetti, da papa Francesco), possono mettere in evidenza un potenziale problema presente in talune indagini bioetiche, troppo attente alla costruzione di argomentazioni cogenti solo sotto il profilo logico. Possono, altresì, fungere da sprone per la costruzione di argomentazioni morali non asettiche ma attente alle dimensioni concrete dell’esistere. Non possono, però, essere usate per sostenere che la bioetica debba essere abbandonata, dal momento che i problemi oggetto di indagine della bioetica non scompaiono cassando la disciplina che se ne occupa.

5. Considerazioni conclusive

  1. Di fatto, le argomentazioni analizzate nei §§3-4 segnalano elementi di criticità effettivamente presenti in talune indagini bioetiche ma non sono in grado di dimostrare né che la bioetica in quanto tale sia giunta al capolinea (e sarebbe pertanto da sostituire con qualche nuova disciplina) né che l’indagine bioetica sia viziata ab origine da qualche falla teorica. Piuttosto, esse suggeriscono strategie per migliorare la disciplina.

    Per altro, non bisogna dimenticare che la bioetica è passata attraverso varie fasi di sviluppo:

    • la fase di nascita, tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’80, in cui ne vengono costruite le basi teoriche;
    • la fase dell’esplosione e del mainstream mediatico, tra la seconda metà degli anni 80 e la fine degli anni ’90, allorquando la bioetica comincia anche un parallelo processo di istituzionalizzazione (con il sorgere, ad esempio, delle prime cattedre universitarie);
    • la fase attuale, in cui la disciplina, dopo essersi sistematizzata e istituzionalizzata, attraverso alcuni suoi autori, ripensa se stessa mettendo in evidenza aspetti critici e/o elementi da potenziare.

    Ebbene, se accogliamo in chiave costruttiva le indicazioni provenienti da Jonsen, Baron, Pinker, etc., dobbiamo riconoscere che, in talune circostanze, nell’attuale fase storica, la bioetica appare autoreferenziale, poco utile al progresso della ricerca scientifica, astorica e disattenta ai dati provenienti dalle scienze empiriche e a partire da tale riconoscimento sforzarci di ricordare che:

    • la bioetica non dovrebbe mai perdere di vista la sua connessione con le scienze della vita (e con i dati da esse forniti) e questo affinché la sua efficacia esplicativa possa crescere e affinché la costruzione di specifici quadri normativi non venga concepita a discapito della scienza ma, per quanto possibile, in armonia con essa;
    • le trasformazioni subite dai concetti di vita, morte, sessualità e riproduzione, natura umana, etc. non possono essere comprese adeguatamente se non attraverso un approccio multifocale che si sforzi di analizzare i problemi sempre all’interno della trama complessa nella quale si collocano;
    • gli autori impegnati in ambito bioetico dovrebbero cercare costantemente strategie affinché la riflessione teorica non sia disgiunta dalla capacità pratica di trasformare le modalità attraverso le quali gli individui comprendono la realtà e individuano principi e valori con cui regolare la propria condotta. Da questo punto di vista la bioetica non deve trincerarsi dietro un accademismo elitarista, ma al contrario aprirsi alla società ed essere un sapere trainante e fondamentale per l’accrescimento della consapevolezza dei cittadini (consapevolezza che si traduce in scelte e deliberazioni più ponderate rispetto a temi cruciali per la loro esistenza)[41].

    In definitiva, la riflessione bioetica può ancora avere un ruolo centrale a patto che non si rinchiuda in una sorta di torre d’avorio teorica dalla quale formulare principi astratti ai quali le persone dovrebbero attenersi e a patto che essa lavori per la costruzione di un sapere che: 1) sia effettivamente un ponte tra le scienze empiriche (con particolare attenzione alle scienze della vita e della salute) e l’etica; 2) non si proponga come gendarme morale; 3) si sforzi di realizzare una forma di interdisciplinarietà di carattere non meramente giustappositivo e affronti i temi etici sempre all’interno di una visione filosofica complessiva. L’interdisciplinarietà dovrebbe essere espressione della consapevolezza che i problemi bioetici sono sempre problemi complessi, ossia problemi che per essere correttamente inquadrati e per ricevere soluzioni adeguate richiedono l’apporto di più specificità disciplinari (da quella etico-filosofica a quella biologica, da quella clinica a quella giuridica). Andrebbe evitato, però, che ognuno di questi specifici campi disciplinari agisca in autonomia, generando una sorta di effetto “compartimento stagno”, e poi si raccordi agli altri, per giustapposizione, solo in occasione di un convegno o della pubblicazione di un volume collettaneo. D’altro canto, i bioeticisti, in particolare quelli di formazione filosofica, dai quali ci si aspetterebbe la costruzione di analisi di ampio respiro, non sempre rendono adeguatamente conto della complessità e multifattorialità dei problemi bioetici.

    Molti bioeticisti hanno compreso che l’esistenza di queste difficoltà non deve rappresentare un vulnus per la bioetica, piuttosto uno sprone e un puntello critico capace di generare un rinnovamento positivo, il potenziamento di alcuni strumenti di indagine e la messa a punto di strategie attraverso le quali accrescere le potenzialità di un sapere che può ancora oggi, per riprendere le parole di Potter[42], rappresentare un ponte verso il futuro.

 

 


  1. [1] Cfr. W. Reich, Encyclopedia of Bioethics, Macmillan Library Reference, New York 2003.

    [2] In Italia la prima cattedra di bioetica viene istituita nel 1985 presso la   Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica di Milano. Nel 2001 presso l’Ateneo pontificio Regina Apostolorum nasce la prima facoltà di Bioetica.

    [3] A.R. Jonsen, Why has bioethics become so boring? in «Journal of Medicine and Philosophy», 26, 6, 2000, pp. 689-699.

    [4] Noto studioso di psicologia morale degli Stati Uniti e membro di diversi comitati etici.

    [5] J. Baron, Contro la bioetica (2006), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2008.

    [6] T. Koch, Thieves of virtu. When Bioethics stole medicine, The Mit Press, Cambridge 2012.

    [7] Uso questa espressione per indicare il fatto che l’uomo moderno vive completamente immerso in un ambiente caratterizzato dalla presenza di dispositivi tecnologici più o meno complessi.  

    [8] Cfr. H.M. Saas, Fritz Jahr’s 1927 Concept of Bioethics in «Kennedy Institute of Ethics», 17, 4, 2007, pp. 279-295.

    [9] V.R. Potter, Bioethics. The science of survival in «Perspectives in Biology and Medicine», 14, 1, 1970, pp. 127-153.

    [10] Id., Bioethics. Bridge to the future, Prentice-Hall, New Jersey 1971.

    [11] Questa idea di bioetica venne ulteriormente sviluppata da Potter nel testo Global Bioethics dove l’oncologo americano sottolineò il carattere globale della disciplina (Id., Global Bioethics. Building on the Leopold legacy, Michigan State University Press, East Lansing 1988).

    [12] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), tr. it. Einaudi, Torino 2002.

    [13] Id., Tecnica, medicina ed etica: prassi del principio responsabilità (1985), tr. it. Einaudi, Torino 1997.

    [14] Ibid., p. 3.

    [15] Ibid., p. 10.

    [16] Va qui, però, ricordato che Jonas non utilizza il neologismo “bioetica” per indicare le sue riflessioni e non pone, in modo così netto, l’accento sulle scienze biologiche.

    [17] W. Reich, Encyclopedia of Bioethics, The free Press, New York 1978, p. XIX.

    [18] G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 3-4.

    [19] Sono, soprattutto, alcuni autori di area cattolica a sottolineare come la bioetica sarebbe de facto nata intorno agli anni ’50, ricordando che, in quegli anni, era ben presente una riflessione articolata intorno alla medicina, ai suoi compiti e obblighi di natura etica e professionale (una riflessione, per altro, alla quale diversi autori di area cattolica diedero un contributo rilevante).

    [20] V.R. Potter, G. Russo, L’idea originaria di bioetica, in G. Russo (a cura di), Storia della bioetica, Sei, Torino 1995, p. 153.

    [21] Questa accezione è, ad esempio, accolta dal Magistero romano e da quegli autori che si muovono in sintonia con esso (cfr. E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, Vita e Pensiero, Milano 2007).

    [22] Cfr. P. Singer, Ripensare la vita (1994), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1994.

    [23] F. D’Agostino afferma che i vari modelli bioetici possono essere distinti in base alle differenti metodologie etiche impiegate dai vari autori (avremmo pertanto una bioetica deontologica e una bioetica consequenzialista, una bioetica personalista e una bioetica comunitarista): cfr. F. D’Agostino, L. Palazzani, Bioetica. Nozioni Fondamentali, Editrice la Scuola, Brescia 2013, p. 37 sgg.

    [24] Cfr. M. Mori, Manuale di bioetica. Verso una civiltà biomedica secolarizzata, Le Lettere, Firenze 2013, p. 52 sgg.; G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica: tra passato e presente, in L. Lo Sapio, Bioetica cattolica e bioetica laica nell’era di papa Francesco, Utet, Torino 2017, pp. 7-47.

    [25] L’idea della bioetica come disciplina eminentemente filosofica viene proposta da vari autori [cfr. J.J. Ferrer, La Bioética como quehacer filosófico in «Acta Bioethica», 15, 1, 2009, pp. 35-41; E. Sgreccia, Manuale di bioetica, cit., p. 102; M. Schiavone, Statuto epistemologico della bioetica e obiettivi didattici, in P. Cattorini (a cura di), Insegnare l’etica medica. Obiettivi e metodi di valutazione dell’apprendimento, FrancoAngeli, Milano 1999, p. 49].

    [26] Non va dimenticato qui, ad esempio, che all’inizio degli anni ’90 è nata la biogiuridica come ulteriore campo di indagine connesso alla bioetica. E, ancora, non va dimenticato che la stessa etica medica, per quanto distinta, sotto il profilo disciplinare dalla bioetica, ha con quest’ultima connessioni rilevanti.

    [27] G. Corbellini, Contestualizziamo la bioetica, in «Notizie di Politeia», 88, 23, 2007, pp. 233-240.

    [28] S. Pinker, The moral imperative for Bioethics, in

    https://www.bostonglobe.com/opinion/2015/07/31/the-moral-imperative-for-bioethics/JmEkoyzlTAu9oQV76JrK9N/story.html.

    [29] R. Baker, Bioethics and History, in «Journal of Medicine and Philosophy», 27, 2002, pp. 449-476.

    [30] Cfr. G. Corbellini, E. Sirgiovanni, Tutta colpa del cervello. Introduzione alla neuroetica, Mondadori, Milano 2013.

    [31] G. Corbellini, Contestualizziamo la bioetica, cit. È sempre Corbellini a stigmatizzare il ruolo che, negli anni, sono andati assumendo i cosiddetti comitati etici, i quali, spesso, avrebbero ostacolato la ricerca scientifica e la sperimentazione farmacologica più che promuoverla. Sulla questione, per altro, si è sviluppato nel 2015 un ampio dibattito sulle pagine del Sole24Ore nel quale sono intervenuti studiosi come Maurizio Mori, Gilberto Corbellini, Luca Pani, Giovanni Corrao, etc.

    [32] Familiaris consortio, 30; Evangelium vitae, 27; Caritas in veritate, 74.

    [33] Amoris laetitia, 37.

    [34] È interessante a questo proposito richiamare quanto scritto da Giovanni Boniolo, il quale afferma che requisito indispensabile per intraprendere un’indagine bio-etica è 1) possedere adeguate conoscenze delle basi scientifiche (biologiche) del tema oggetto di indagine; 2) possedere adeguate conoscenze etiche (sia di etica descrittiva, sia di metaetica, sia di etica normativa); 3) avere dimestichezza con le tecniche dell’argomentazione (Cfr. G. Boniolo, P. Maugeri, Etica alle frontiere della biomedicina. Per una cittadinanza consapevole, Mondadori, Milano 2014).

    [35] Cfr. J. Illes (a cura di), Oxford Handbook of Neuroethics, Oxford University Press, Oxford 2011.

    [36] Cfr. P. O’Mathuna, Nanoethics. Big Ethical Issues with small Technology, Continuum, New York 2009; F. Allhoff, P. Lin, J. Moor, Nanoethics. The Ethical and Social Implication of Nanotechnology, John Wiley and Son, New York 2007.

    [37] Cfr. J. Savulescu, A. Clarke (et al.), The Ethics of Human Enhancement. Undestanding the Debate, cit.

    [38] S.G. Tzafestas, Roboethics. A Navigation Overview, Springer Verlag, Berlin 2016.

    [39] Su questo passaggio c’è un ampio dibattito. Ad esempio, a proposito della neuroetica, molti autori impegnati in questo settore d’indagine tengono a sottolinearne l’autonomia rispetto alla bioetica. Questa strategia argomentativa (per cui la neuroetica sarebbe un settore specifico e autonomo dell’indagine etica, e similmente la nanoetica o la roboetica) andrebbe però problematizzata. Di fatto, se intendiamo la bioetica come il vasto settore di indagine intorno alle dimensioni morali e alle implicazioni etiche e filosofiche degli sviluppi delle scienze biomediche non si comprende bene perché la neuroetica non debba rientrare all’interno di essa. Per altro le strategie argomentative dei neuroeticisti e le teorie normative che vengono proposte a partire dall’analisi degli sviluppi dell’indagine neuroscientifica sono, nella maggior parte dei casi, contigue a quelle proposte dai bioeticisti. Non è questo il luogo deputato a uno specifico approfondimento ma si potrebbe ipotizzare che questa tendenza all’autonomizzazione disciplinare sia, in realtà, la spia più profonda di una trasformazione del sapere filosofico in senso iperspecialistico (alla maniera delle scienze empiriche), tendenza sulla quale non esprimo un giudizio di valore negativo o positivo ma che mi limito qui a registrare.

    [40] A tal proposito, autori come Julian Savulescu, Ingmar Persson, Nick Bostrom e Allain Buchanan (solo per citarne alcuni) si dimostrano molto attenti ai dati scientifici. Julian Savulescu poggia le sue argomentazioni a sostegno del potenziamento morale degli esseri umani su alcuni dati provenienti dalla psicologia evoluzionistica (cfr. J. Savulescu, I. Persson, Unfit for the Future. The Need for Moral Enhancement, Oxford University Press, Oxford 2012). Allen Buchanan, dal canto suo, si oppone all’idea che gli esseri umani possano essere potenziati, sotto il profilo morale, attraverso interventi di natura neurochimica e farmacologica sulla base di una diversa interpretazione di dati provenienti dall’indagine evoluzionistica. (A. Buchanan, The Evolution of Moral Enhancement, in J. Savulescu, A. Clarke (et al.), The Ethics of Human Enhancement. Undestanding the Debate, Oxford University Press, Oxford 2016).

    [41] Questo punto apre alla complessa questione, che può essere qui soltanto accennata, di quali strategie di comunicazione adottare per permettere ai non addetti ai lavori di relazionarsi alla bioetica e, ancora, alla questione di quali strategie adottare per rendere efficace l’insegnamento della disciplina (ivi compresa la questione dell’insegnamento della bioetica nelle scuole).

    [42] Riprendere le parole di Potter, ma, verrebbe da dire, contro Potter stesso, il quale concepiva il compito della bioetica in un’ottica sostanzialmente conservatrice.

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