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Gehlen, Darwin e la salamandra

Autore


Vallori Rasini

Università di Modena e Reggio Emilia

Indice


  1. L’orgoglio e il pregiudizio
  2. Una sgradevole graduazione
  3. Primitivismi e superiorità
  4. L’uomo e la salamandra

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S&F_n. 16_2016

Abstract


Gehlen, Darwin and the Salamander


Arnold Gehlen creates a theory of man as “lacking being” that leads to a theory of a “superior being”. Man is radically different from animal, and Gehlen uses the biological idea of human neoteny to refuse the Darwinian theory of human evolution. However his arguments are preconceived and ineffectual.


  1. L’orgoglio e il pregiudizio

La determinazione con cui Gehlen cerca di neutralizzare la teoria dell’evoluzione umana di stampo darwiniano si può spiegare solo con la sua tenace convinzione di una “superiorità antropologica”. Si tratta di un ancestrale residuo di supponenza difficilmente sradicabile. L’idea della specialità dell’uomo, dinanzi agli altri viventi, ormai costretta ad abbandonare la veste teologica e a riporre logori strumenti metafisici, ha trovato nell’antropologia filosofica di Gehlen nuovi canali di sopravvivenza. E nell’epoca della caduta degli dei, col dilagare della mentalità empirica e delle indagini sulla natura animale, il pregiudizio della magnificenza umana cerca di reinventarsi attraverso argomenti biologici, schermato dietro ricerche recenti e una terminologia schiettamente scientifica.

L’idea reggente rimane tuttavia vetusta; rimanda al mito di Prometeo (al quale Gehlen si richiama espressamente nelle sue opere), alla sprovveduta distribuzione tra i viventi delle qualità e delle forze organiche operata da un inetto Epimeteo (che esaurisce le scorte di attributi, dimenticando l’essere umano) e alla conseguente necessità di una adeguata “riparazione” del torto subito dall’uomo, mediante un “dono” speciale, a lui riservato. Che si tratti dell’uso del fuoco, della facoltà razionale o dello sviluppo del linguaggio verbale non fa la minima differenza: entra comunque in gioco uno strumento straordinario, concesso all’essere umano in dotazione esclusiva. Ma, per rimarcare questa esclusività, occorre determinare una cesura netta tra l’animale e l’uomo, in modo da escludere che l’eccellenza in questione possa darsi come momento di semplice sviluppo di una medesima essenza, come stadio apicale o punto di arrivo di un processo organico che mantiene per i viventi le stesse premesse e una “consustanzialità”.

Per distinguere nettamente l’uomo da qualunque altro organismo vivente occorre insomma rifiutare il «pregiudizio» – così lo definisce Gehlen – dello «schema graduale»[1], un sistema di correlazione tra viventi che, consentendo un passaggio progressivo da un livello biologico a un altro, prevede tra gli enti una differenza di tipo qualitativo ma non “essenziale”. Per questo, Gehlen rifiuta la strategia adottata dal fondatore della corrente filosofico-antropologica, Max Scheler (benché non ne rinneghi affatto l’idea di fondo), e contemporaneamente rigetta la teoria dell’evoluzione darwiniana: perché – appunto – egli non è disposto ad accettare l’idea di una naturale continuità tra l’animale e l’uomo.

  1. Una sgradevole graduazione

Neppure Scheler intendeva mettere l’uomo e l’animale sul medesimo piano; ma, convinto della sterilità di una considerazione meccanicistica del vivente, aveva concepito l’esistenza di un principio biopsichico unico, che si sviluppa per tappe via via più complesse. Descritto a seconda delle capacità che lo individuano, il vivente si presenta dapprima, nelle sue forme più elementari, come un ente in grado di reagire creativamente a stimoli sempre più complessi e capace anche di grandi prove di sopravvivenza, assistito dalla guida sicura dell’istinto; mentre nelle forme più complesse (sino a giungere all’essere umano) come dotato di facoltà complicate e importanti, quali la memoria associativa e l’intelligenza pratica[2]. Il principio biopsichico scheleriano, garantendo una continuità essenziale tra i viventi, non consente di individuare una “differenza umana” realmente specifica, e tale da decretarne la netta superiorità. Tanto più che gli studi etologici dell’epoca, insistendo sulla necessità di riconoscere precise capacità e forme di intelligenza anche all’interno del regno animale[3], costringeva una filosofia antropologica che si concepisse come moderna e attenta agli sviluppi delle scienze naturali a non rischiare di porsi in controtendenza. Dove trovare allora il discrimine, l’elemento di stacco tra l’uomo e l’animale? Secondo Scheler, esso non può che essere dato dalla presenza dello “spirito”, un secondo principio, separato e contrapposto a quello biopsichico, la partecipazione al quale – riservata all’uomo – consente una deviazione della direzione biologica del vivente, una elevazione oltre le necessità organiche, tale persino da consentire al vivente umano di dire “no” alla vita[4].

Si tratta però di un principio metafisico, non osservabile e non attestabile scientificamente, che Gehlen non intende accettare. L’errore compiuto da Scheler – sostiene Gehlen – sta proprio nell’essersi affidato all’“ordine ingannevole” di uno schema graduale, il quale lascia sussistere due sole possibilità:

o c’è semplicemente una differenza graduale tra intelligenza pratica, che già alcuni animali possiedono, e quella umana; e dunque si dà una transizione senza soluzione di continuità dall’animale all’uomo, sì che l’uomo sarebbe definito dal solo arricchimento o raffinamento o complicazione di “qualità” animali – del tutto nel solco della teoria evoluzionistica classica; o invece la differenza tra i due tipi di intelligenza, e quindi l’essenzialmente umano, sarebbe da cercare in una particolare “natura” propria unicamente dell’intelligenza umana, in una particolare qualità che chiamiamo “spirito”[5].

Scheler ha introdotto un principio metafisico inaccettabile per il pensiero contemporaneo e dunque da rigettare. Egli tuttavia ha sbagliato l’argomento, non l’obiettivo: quello di non cedere all’idea avanguardista della similarità fondamentale tra uomo e animale, fortemente sostenuto e alimentato dalla teoria darwiniana.

Per minare le fondamenta di questa idea, occorre dunque smontare la possibilità di considerare l’uomo e l’animale come appartenenti allo stesso piano organico; se infatti l’essere umano dovesse rappresentare un tipus vivente non riconducibile a quello animale, verrebbe meno la possibilità di costruire una scala graduale e una speciale differenza dell’uomo sarebbe salvaguardata (senza il bisogno di introdurre, all’interno di una progressione, un principio “altro” metafisico, come si era trovato costretto a fare Scheler). La divaricazione tra animale e uomo, insomma, deve potersi dare “alla radice” (non all’apice di una scala) e gli argomenti per sostenerla devono portare con sé l’autorità della scienza contemporanea.

  1. Primitivismi e superiorità

Liquidato dunque Scheler come filosofo metafisico, Gehlen si appresta a smontare il gradualismo biologico proposto dalla teoria evoluzionistica “classica”, identificata tout court con la concezione di Darwin (ancorché decisamente fraintesa). Per farlo, si rivolge principalmente a scienziati contemporanei di tendenza antievoluzionista (o comunque antidarwiniana), alla ricerca di riflessioni ed esempi utili nella costruzione di una idea di sviluppo umano affatto peculiare, quella di «un essere molto arcaico che sin da tempi remotissimi ha evitato la via che conduceva alla specializzazione»[6]. Se l’essere umano non è specializzato – sostiene – come invece lo sono gli animali (si badi bene: tutti gli animali, tranne l’uomo!), non può appartenere al loro stesso genere e seguire le leggi individuate dalla teoria evoluzionistica classica.

A partire da questo assunto, Gehlen seleziona i seguenti argomenti biologico-paleontologici. Rispetto alle scimmie antropoidi, unanimemente considerate gli animali più vicini all’essere umano, l’uomo presenta caratteristiche morfologiche “più primitive” e quindi – inferisce – anche “più originarie”, sia sul piano dello sviluppo ontogenetico sia su quello dello sviluppo filogenetico. Guardiamo anzitutto alla regione cefalica: nell’uomo si conservano caratteri fetali del cranio e della dentatura, che nelle scimmie invece si perdono nel corso dello sviluppo ontogenetico. Ciò porterebbe a concludere, sulla base di una certa lettura delle tracce paleontologiche, che anche lo sviluppo filogenetico abbia seguito vie differenti: nelle scimmie antropoidi quella dell’accrescimento e della modificazione specializzante (trasformazione della volta cranica, allungamento del muso, trasformazione della zona frontale ecc.); nell’uomo invece quella della conservazione di precise configurazioni fetali, che vanno considerate “non-specializzazioni”:

è infatti fuor di dubbio – dichiara Gehlen sulla base degli studi di Adolf Naef e Johannes Ranke – che la posteriore, possente formazione del muso delle grandi scimmie è una specializzazione assai adeguata, nel senso di un’interazione di funzioni quali l’afferrare (mordere), il mangiare e il fiutare, corrispondentemente alla disposizione dei quadrupedi, nei quali il muso costituisce l’estrema terminazione anteriore. Le grandi scimmie si sono pertanto evolute nel senso di questa specializzazione[7].

Lo stesso varrebbe per la disposizione topologica e funzionale della dentatura o per la conformazione delle estremità degli arti, che a loro volta, secondo Gehlen, forniscono argomenti utili a sottolineare l’originalità e la non specializzazione dei caratteri umani[8]. Stando agli studi, ancorché tra loro differenti, di Henry F. Osborn e di Serge Frechkop, risulterebbe infatti impossibile immaginare una derivazione delle estremità umane da quelle antropoidi: la mano nelle scimmie presenta le dita allungate e una “riconversione” del pollice, correlativamente alla capacità di afferrare rami e arrampicarsi, e altresì un piede dalle estremità accorciate e dalla struttura idonea alla vita sugli alberi; nell’uomo invece mancano queste peculiarità, il pollice diviene opponibile e il piede adatto alla deambulazione sulla terraferma.

Assunta questa prospettiva, Gehlen ritiene che l’anatomista olandese Lodevijk Bolk ha saputo dare il giusto rilievo ai primitivismi umani ponendosi la domanda basilare: «che cosa è l’essenziale dell’uomo in quanto organismo, e che cosa l’essenziale dell’uomo in quanto forma?»[9]. Un simile passaggio consente di uscire dalla griglia delle domande sull’evoluzione dell’animale e di ripartire da un terreno nuovo, certamente più consono alle intenzioni di Gehlen, quello cioè della “forma” di un preciso corpo e dell’individuazione di “caratteri primari” dell’essere umano[10]. La primitività di certi aspetti morfologici viene presa come dato fondativo; non c’è una ricerca dei motivi per cui ci si trova dinanzi a un simile dato, ma il dato stesso è preso ipso facto come punto di partenza per valutare la posizione dell’essere umano. Allora, il carattere fetale prende le redini dell’intera spiegazione e l’uomo diventa il prodotto della «inibizione evolutiva»[11], l’essere soggetto alla «legge del ritardamento»[12], vale a dire un ente dal «divenire rallentato», in cui si determina un rapporto disarmonico tra lo sviluppo sostanziale e corporeo e quello funzionale dei singoli apparati organici. Secondo Bolk, la causa di questo ritardamento va individuata nel funzionamento specifico del sistema endocrino, dal quale deriverebbe uno sfasamento tra sviluppo fisico e maturazione organico-sessuale[13]. La teoria del ritardamento sarebbe poi direttamente collegata (passando attraverso i lavori di Jan Versluys ed Eugène Dubois) a quella della evoluzione cerebro-razionale: «l’enorme sviluppo cerebrale dell’uomo e la connessa ristrutturazione della sua physis in direzione della “embrionalizzazione” e della “primitività” non sarebbero affatto una conseguenza della “lotta per l’esistenza”, l’esito di un “processo di selezione”, sarebbero bensì provocati da cause intrinseche dirette»[14].

A rincarare la dose, intervengono le ipotesi di Otto H. Schindewolf, che aveva proposto a sua volta – e peraltro non in accordo con Bolk – una idea di divaricazione del percorso evolutivo: sarebbero le scimmie antropoidi a derivare da forme animali simili all’essere umano, mentre l’uomo avrebbe conservato forme primitive e più “originarie”, per la legge della “proterogenesi”. Questa legge sostiene una inversione evolutiva nel caso delle scimmie, rispetto a quanto normalmente si verifica per la legge biogenetica fondamentale, così che sarebbero gli stadi adulti, e non quelli giovanili, a ripetere i passati stadi filogenetici. Per quanto riguarda l’uomo, l’evoluzione avrebbe un andamento progressivo nel senso che certi caratteri giovanili si darebbero negli stadi adulti come persistenti, mentre nella scimmia essi sarebbero regressivi[15].

  1. L’uomo e la salamandra

Certo, Bolk e Schindewolf non la pensano esattamente allo stesso modo, ma a Gehlen ciò che importa veramente è quanto le loro idee abbiano in comune e quanto possano essere utili per sostenere la teoria antropologica secondo la quale una carenza biologica è compensata dal principio di azione e dal linguaggio, una teoria all’interno della quale la “differenza” dell’essere umano si possa presto trasformare in “superiorità”. Per questo, gli serve mettere a fuoco una “specificità legislativa”, nella natura umana, mediante cui reclamarne la “posizione speciale” nel novero dei viventi; e non importa se si debba parlare di ritardamento o di proterogenesi: l’essenziale per lui è sostenere l’idea di una biforcazione radicale tra gli animali (tutti insieme, senza eccezione) e l’essere umano.

Ora, gli argomenti che sostengono un’idea sono decisivi e se non sono solidi rischiano di farne crollare l’intera struttura; contemporaneamente è importante la capacità di tenuta del terreno in cui vengono installati, il contesto teorico in cui sono sviluppati. La faccenda della neotenia umana sembra costituire in Gehlen non un argomento tra gli altri, ma il “pilastro portante” in grado di condurre direttamente alla specificità della natura umana: se l’uomo non va confuso con la gran massa degli altri animali – dice – è perché diversamente da essi è «biologicamente carente», cioè «non specializzato», come dimostra chiaramente la primitività dei suoi organi e delle sue funzioni, considerabili veri e propri «stati fetali divenuti permanenti»[16]. E questo argomento sembra decisivo proprio perché applicabile esclusivamente alla realtà umana[17].

Naturalmente, la suddetta consequenzialità si fonda su alcune premesse che potrebbero essere poste in discussione, prima tra tutte una identificazione netta tra neotenia e “non specializzazione” (una locuzione a cui peraltro Gehlen dà un significato diverso da quello che gli attribuisce Darwin[18]); là dove la non specializzazione non è mai da considerare come un “conseguimento” ma sempre solo come un “arresto”. Questa precisazione gli serve proprio per individuare nella neotenia un fenomeno che non rientra nella legge biogenetica darwiniana, e gli consente di spostare la regolamentazione dello sviluppo umano all’interno di un canale a sé stante. Gehlen sostiene questa idea appellandosi alla «Legge di Dollo»[19], secondo la quale «un organismo è incapace di ritornare anche solo parzialmente a un precedente stadio già realizzato dai suoi antenati»; motivo per cui, se presenta caratteri appartenenti a uno stadio più arcaico rispetto alle scimmie antropoidi, l’uomo non può derivare da esse[20]. Grazie all’idea che una funzione specializzata non si possa perdere, Gehlen può rifiutare l’ipotesi che certe caratteristiche vengano meno per via dello sviluppo di altre funzioni o capacità, ad esempio quella di produrre tecnicamente strumenti ausiliari[21]. In base alle medesime considerazioni, rifiuta spiegazioni che si richiamano al principio della domesticazione, secondo cui certi fenomeni di variazione funzionale sarebbero dovuti a particolari condizioni di vita, di nutrizione e riproduzione, facilmente osservabili negli animali e ammissibili anche nel caso dell’uomo (come sostiene ad esempio Konrad Lorenz)[22].

Torniamo però alla legge di Dollo: essa è stata interpretata in vario modo e messa parzialmente in discussione, specie se anziché parlare di “caratteri” definitivamente perduti si tratta di “funzioni” (che possono essere recuperate nel percorso evolutivo attraverso vie e meccanismi alternativi)[23]. A ogni modo, lo stesso Gehlen è disposto a utilizzare, a seconda della bisogna, autori e idee che escludono totalmente la possibilità di perdita di specializzazione (o la rifunzionalizzazione degli organi) o che invece non la escludono affatto[24]. Assai più risaputo è che la neotenia non costituisce una caratteristica esclusivamente umana: il cane è considerato mammifero neotenico rispetto al lupo; l’axolotl – una simpatica larva di salamandra messicana – è addirittura eletta a simbolo stesso della neotenia evolutiva. Questi fenomeni possono essere letti all’interno della complessa e plastica griglia delle teorie evoluzionistiche di stampo darwiniano e non costituiscono di per sé argomenti contrari all’idea che l’uomo appartenga al medesimo regno degli animali[25].

Ѐ chiaro che non si intende negare che la neotenia abbia potuto avere un importante ruolo nello sviluppo delle specificità umane o che alcuni aspetti della legge di Dollo possano trovare parziale conferma ad esempio, nel comportamento di certi geni[26]; ciò che si vuole sottolineare è come Gehlen a partire da un assunto preciso abbia forzato determinate questioni e ne abbia ignorato pregiudizialmente altre. Va poi aggiunto che, forse favorito dal proliferare di una letteratura divulgativa talora decisamente fuorviante, Gehlen ha attribuito alla teoria “classica” posizioni che non appartengono propriamente a Darwin, come l’idea che l’evoluzione costituisca un processo unico, ben direzionato, e che vede l’uomo come suo apice[27]. Ma se l’evoluzionismo darwiniano viene così maltratto è principalmente – come si diceva – a causa del preconcetto atavico, efficacemente riproposto dalle ideologie borghesi e conservatrici contemporanee, della ineguagliabile “superiorità” di un essere che con le proprie forze sa rendersi potente come un dio.

 

 


[1] A. Gehlen, L’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. Mimesis, Milano 2010, p. 57.

[2] M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, tr. it. Armando, Roma 1997, p. 119 sgg.

[3] W. Köhler, L’intelligenza nelle scimmie antropoidi, tr. it. Giunti, Firenze 2009.

[4] M. Scheler, op. cit., p. 156.

[5] A. Gehlen, op. cit., p. 59.

[6] Ibid., p. 128.

[7] Ibid., p. 133.

[8] Ibid., p. 139.

[9] Ibid., p. 144.

[10] Ibid., p. 145.

[11] Ibid.

[12] Ibid., p. 146.

[13] Ibid., p. 147. Di L. Bolk, Il problema dell’ominazione, tr. it. Derive Approdi, Roma 2006; su Bolk e Gehlen, cfr. A. Gualandi, L’individuazione neotenica umana e la genesi exattante e comunicativa del “senso”, in «Discipline Filosofiche» XIX, 1, 2009, pp. 117-136.

[14] A. Gehlen, op. cit., p. 157.

[15] Ibid., p. 159.

[16] Ibid., p. 149. Il principio della fetalizzazione viene generalizzato da Gehlen, il quale dichiara espressamente che l’uomo è senz’altro «l’unico “mammifero superiore embriologico”» (ibid., p. 155).

[17] Si veda, ad esempio, ibid., p. 128.

[18] Il concetto di non specializzazione usato da Gehlen è ricavato per negazione da quello di specializzazione ambientale proposto da J. von Uexküll (si veda almeno Ambienti animali e ambienti umani, tr. it. Quodlibet, Macerata 2010), il quale implica una complessiva combinazione morfo-fisiologica di animale e ambiente di vita: un concetto che non solo non corrisponde a quello di specializzazione di Darwin, ma appare fuorviante anche rispetto a quello di “adattamento”.

[19] Si veda Gehlen, op. cit., p. 128.

[20] Né sembrerebbe poter derivare da un antenato comune che non fosse scimmia né pre-uomo, giacché quando Gehlen attribuisce a tutti – ma proprio tutti – gli animali il “supercarattere” della specializzazione rende difficile in generale l’idea di una derivabilità dell’essere umano – non specializzato per definizione – da un qualunque animale; il punto perciò diviene: quanto in basso andrebbe posto, secondo Gehlen, l’inizio del processo di non specializzazione?

[21] Si veda, ad esempio, come contrasta A. Schwalbe, ibid., p. 162.

[22] Essi vengono liquidati come secondari rispetto a una teoria dei caratteri della specie umana, e tali da potere essere relegati «al capitolo “guasti provocati dalla civiltà”» (A. Gehlen, op. cit., p. 164).

[23] Si veda ad esempio A. Brunelli, Andata e ritorno, un racconto anfibio, in https://volodeldodo.com/tag/dollo/.

[24] Quando H.F. Osborn parla di “riconversione” del pollice o dell’alluce sembra rimandare a un’idea di specializzazione rifunzionalizzata o sostituita (da altra specializzazione).

[25] Cfr., ad esempio, S.J. Gould, Ontogenesi e filogenesi, tr. it. Mimesis, Milano 2013.

[26] Cfr., ad esempio, R. Dawkins, L’orologiaio cieco, tr. it. Mondadori, Milano 2009, p. 137.

[27] Diversamente da altri evoluzionisti, Darwin non vedeva nell’uomo l’apice dell’evoluzione, ma il prodotto di una delle molte linee evolutive concernenti i primati (cfr. lo schizzo del 1868, in H.E. Gruber, Darwin on Man, University of Chicago Press, Chicago 1981; inoltre G. Scarpelli, Il cranio di cristallo, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 45).

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