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Indice
- Introduzione
- Per una tassonomia dei casi di incapacità
- Il consenso informato di fronte a un limite invalicabile?
- L’argomento del Sé biologico e del Sé biografico
- Considerazioni conclusive
S&F_n. 18_2017
Abstract
Incompetent patients between advance directives and the objection to moral authority
The present paper aims at focusing on some of the arguments for or against the possibility for incompetent individuals to exercise their will through living will. After providing clarification about the specific subject of investigation (of the paper) and the context in which informed consent has raised and developed, I analyze the objections to the extension View argument, and the counter-arguments by Buchanan, Brock and Brody. Finally, I formulate an argument in support of the thesis that the will of the patient is not betrayed by the use of any self-determination paper which, on the contrary, constitutes an extension of the informed consent principle in situations of incapacity.
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Introduzione
La centralità assunta dal consenso informato in medicina passa per il superamento del paternalismo medico, ossia «la prospettiva che pone il medico come figura analoga al “buon padre di famiglia”»[1]. Il paternalismo medico, che affonda le sue radici nel vitalismo ippocratico[2], si basa, infatti, sull’idea che l’operatore sanitario, a differenza del paziente, sia in possesso di adeguate conoscenze diagnostico-terapeutiche e possa, pertanto, meglio del paziente stesso, deliberare intorno al suo miglior interesse.
Questo paradigma ha iniziato a incrinarsi a cavallo tra la prima e la seconda metà del XX secolo, allorquando sulla scorta del Codice di Norimberga (1947) e della Dichiarazione di Helsinki (1964), il rapporto tra medico e paziente ha subito una complessiva ridefinizione, con l’emergere dei concetti di consenso informato e, progressivamente, di alleanza terapeutica. Il consenso informato rappresenta, in tal senso, lo strumento-chiave attraverso il quale il patto di fiducia tra medico e paziente trova concreta attuazione, un principio-simmetria che ci mette di fronte all’idea che il paziente deve essere sempre adeguatamente informato degli aspetti che riguardano il suo percorso di cura (affinché possa deliberare rispetto alle scelte mediche da intraprendere o co-deliberare, in accordo con gli operatori sanitari che lo assistono, le scelte mediche per lui più adeguate). Uno dei corollari di questo principio è, dunque, che nessuno può obbligare un soggetto a curarsi, in nome di un (presunto) miglior interesse. Un Testimone di Geova che non vuole essere trasfuso, oppure una donna che rifiuta l’amputazione dell’arto che la salverebbe dalla gangrena e quindi da morte certa, non possono essere obbligati a eseguire una trasfusione o a essere amputati.
Nella sua prima forma, il consenso informato si afferma come baluardo contro le sperimentazioni cliniche condotte senza la volontà del paziente. Successivamente, dal ristretto contesto della sperimentazione clinica, si allarga fino a diventare il cuore dell’alleanza terapeutica. Bisogna, però, attendere fino agli anni ‘80 perché esso si affermi nella concreta prassi medica[3]. Tuttavia, le difficoltà non vengono completamente sciolte[4], come dimostra l’ampio dibattito che si è prodotto, in ambito bioetico (e nell’arena pubblica) intorno alla questione delle direttive anticipate e dei pazienti incapaci. I pazienti incapaci, soggetti che hanno perso la capacità di esprimere attualmente la propria volontà a causa delle lesioni subite a seguito di un incidente o del decorso di una patologia degenerativa, in alcune circostanze, hanno prodotto, prima del sopravvenire dell’incapacità, dei documenti attraverso i quali dichiarano a quali trattamenti medici desiderano sottoporsi in caso di perdita della facoltà di esprimere attualmente la propria volontà. Tali documenti sono intesi da alcuni bioeticisti come un’estensione del consenso informato (tesi continuista). Altri, invece, negano tale posizione, sostenendo che consenso informato possa esservi solo se il paziente ha la possibilità di esercitare in atto la propria volontà (tesi discontinuista). Il presente contributo intende fornire alcune argomentazioni a sostegno della tesi continuista: le direttive anticipate costituiscono un’estensione del consenso informato; esse ci consentono di rispettare la volontà del soggetto (in caso di sopravvenuta incapacità) e di attuare scelte coerenti con la storia-di-vita di cui il soggetto prima del sopravvenire dell’incapacità era protagonista. Per dare sostegno a questa tesi procederò come segue.
Innanzitutto fornirò una tassonomia delle tipologie di incapacità del paziente. Ciascuna tipologia presenta, infatti, dei tratti peculiari. Mi concentrerò poi su una di queste tipologie, quella dei pazienti incapaci che hanno espresso in precedenza la propria volontà attraverso documenti scritti (direttive anticipate). Accennerò brevemente alle principali tappe che hanno consentito l’emergere dell’idea di consenso informato. Analizzerò, quindi, le principali argomentazioni contro la tesi che le direttive anticipate siano in grado di riaffermare la volontà del soggetto (essendo, di fatto, un’estensione del consenso informato) e alcune obiezioni a queste argomentazioni (tesi continuiste). Infine, formulerò un’argomentazione ulteriore a supporto della tesi continuista, basata sull’idea che le scelte formulate dal Sé biografico (anche se non qui e ora) andrebbero apprezzate più degli interessi di cui (in modo non cosciente) il Sé biologico sarebbe latore.
- Per una tassonomia dei casi di incapacità
Per paziente incapace, nei contesti sanitari, si intende un paziente che ha perso la capacità (attuale) di operare scelte autonome rispetto a decisioni mediche di cui è il destinatario[5]. Per circoscrivere l’oggetto di questa indagine occorre, però, fissare l’attenzione sulla volontà e sulle modalità in cui essa si è manifestata prima del sopravvenire dell’incapacità del paziente. Questa operazione preliminare mi consente di circoscrivere con precisione i nodi concettuali che intendo mettere a fuoco in questo contributo.
Non è possibile, di fatto, trattare tutti i casi di incapacità allo stesso modo.
Innanzitutto ci sono pazienti che hanno espresso la propria volontà rispetto ai trattamenti medici da erogare in caso di sopravvenuta incapacità e pazienti che non hanno espresso tale volontà (li indicherò come Tipologia I e II). Questa può essere una prima macro-distinzione. Consideriamo ora i pazienti che hanno espresso la propria volontà. Bisogna, in questo caso, stabilire quale sia la forma attraverso la quale la volontà è stata espressa.
Abbiamo allora: a) pazienti che hanno espresso la propria volontà attraverso un documento scritto[6] e b) pazienti che hanno espresso la propria volontà oralmente, dando indicazioni, più o meno precise, in merito ai trattamenti medici che avrebbero voluto ricevere in caso di sopravvenuta incapacità (è questo ad esempio il caso di Eluana Englaro)[7]. Questa distinzione non è affatto priva di conseguenze. Infatti, sebbene in entrambi i casi la volontà risulta essere oggettivata, nel primo caso abbiamo una forma di oggettivazione forte, nel secondo caso una forma di oggettivazione debole. La forza dell’oggettivazione è data dalla sua evidenza. Un testo scritto, per quanto possa essere soggetto ad alcuni problemi (ad esempio, se la scrittura non è recente, ci si può domandare se determinati eventi avrebbero potuto alterare la volontà veicolata dal testo), è sottoponibile a esame autoptico. Un testo ci pone senza mediazioni di fronte alla volontà di un soggetto[8]. È qualcosa che lui o lei hanno scritto e non altri. La volontà resa oralmente (fa eccezione il caso in cui la traccia orale sia stata registrata, ma se così fosse, fatte salve alcune precisazioni, rientreremmo nella fattispecie precedente), invece, è sempre mediata da un soggetto terzo che per quanto affidabile (un genitore, un parente, un caro amico) media la volontà del paziente. Mediazione non significa minore affidabilità o tradimento della volontà del paziente. Tuttavia, in ordine alla capacità di oggettivare la volontà di un soggetto la ripetizione, da parte di un terzo, della volontà resa oralmente dal paziente, è una forma debole.
C’è poi il caso di pazienti che non hanno reso né per iscritto né oralmente la propria volontà in merito ai trattamenti medici da erogare.
Anche qui ci sono delle distinzioni da fare: a) pazienti che non hanno mai avuto una volontà strutturata tale da metterli in grado di esprimere un proprio desiderio rispetto ai trattamenti medici da erogare (è questo il caso di bambini con gravi patologie, come nel recente caso di Charlie Gard); b) pazienti che non sono più capaci e non si sono mai espressi in merito ai trattamenti medici da erogare, la cui volontà può però essere ricostruita sulla base della loro storia-di-vita; c) pazienti che non sono più capaci e non si sono mai espressi in merito ai trattamenti medici da erogare, la cui volontà non può essere agevolmente ricostruita sulla base della loro storia-di-vita.
Ognuno di questi casi presenta dei tratti peculiari e non può essere sovrapposto agli altri. In questo contributo mi occuperò solo dei casi che rientrano nella Tipologia I a (con alcune considerazioni estendibili alla Tipologia I b). Mi occuperò, dunque, dei pazienti che non sono più capaci di intendere e volere ma hanno lasciato una direttiva anticipata nella quale viene espressa la propria volontà rispetto ai trattamenti medici da erogare in caso di sopravvenuta incapacità.
- Il consenso informato di fronte a un limite invalicabile?
Gli sviluppi delle tecnologie mediche e l’aumento dell’aspettativa di vita hanno sollevato dilemmi prima impensabili. Pazienti in stato vegetativo permanente, pazienti allo stadio terminale di malattie degenerative non possono esercitare in actu la propria volontà. Si pone, pertanto, il problema di appurare se questi pazienti abbiano manifestato in precedenza la propria volontà circa gli eventuali trattamenti medici da attuare, in caso di sopravvenuta incapacità[9].
Nel caso questa manifestazione di volontà vi sia stata, resta da appurare quale sia stata la modalità di manifestazione. Quest’ultima, infatti, come accennato in precedenza, può essere stata oggettivata in forma scritta o orale. La forma scritta costituisce una oggettivazione forte della volontà. La forma orale una oggettivazione debole. Molti studiosi tendono a inquadrare i testamenti biologici (living will)[10] come documenti in grado di estendere il consenso informato, in un tempo in cui il paziente non può più esercitarlo in actu.
Per fornire coordinate utili a inquadrare con precisione la questione in esame, soffermiamoci ora sul consenso informato. Esso è un concetto-chiave della odierna medicina. Con riferimento alla sperimentazione clinica, si configura quale strumento per evitare abusi.
Nel codice di Norimberga del 1947 viene evidenziato, ad esempio, come
il consenso volontario del soggetto-persona dello studio è assolutamente necessario. Ciò significa che il partecipante alla ricerca:
- deve essere legalmente abilitato a concedere il consenso;
- deve avere il diritto di libera scelta;
- deve approvare senza utilizzare elementi di interferenza o uso di forze, frodi, inganni, rivalutazione delle informazioni o altre forme di coercizione o violenza;
- devono avere sufficienti conoscenze e comprendere l'essenza delle informazioni fornite, al fine di poter prendere una decisione sul consenso in condizioni di informazioni sufficienti sulla ricerca[11].
Nella Dichiarazione di Helsinki del 1964, è scritto, d’altro canto, che «dopo essersi assicurato che il soggetto abbia compreso le informazioni, il medico deve ottenere dal soggetto il consenso informato, liberamente espresso, preferibilmente in forma scritta. Se il consenso non può essere ottenuto per iscritto, deve essere formalmente documentato e testimoniato un consenso non scritto»[12].
Più in generale, a partire dagli anni Sessanta, esso viene a essere l’architrave del rapporto medico-paziente.
Nella convenzione di Oviedo del 1997, all’art. 5 è richiamato il principio per cui
un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso[13].
D’altro canto, la Costituzione italiana già fissava negli articoli 13 e 32 le premesse per l’accoglimento del principio del consenso informato nel nostro ordinamento. Tale principio è stato, inoltre, recepito dal Codice di deontologia medica italiano, fino alla sua ultima edizione del 2014, laddove nell’art. 35 appuriamo che
l’acquisizione del consenso o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile.
Il medico non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato[14].
Nonostante il consenso informato sia oggi guardato come la pietra angolare dell’alleanza terapeutica e come lo strumento principale attraverso il quale stabilire un rapporto di fiducia tra medico e paziente, ci sono circostanze in cui emergono delle difficoltà.
Che cosa succede quando un paziente non può esercitare il proprio consenso circa i trattamenti sanitari da erogare? Secondo la prospettiva continuista attraverso le direttive anticipate di trattamento (o carta di autodeterminazione o living will)[15] si può, di fatto, estendere il potere decisionale dei soggetti. Tali documenti, infatti, si configurerebbero come una modalità di attuazione del principio di autonomia.
Questo argomento è definito Extension view argument.
Se il paziente ha espresso in precedenza la propria volontà, essa deve valere come se il paziente la stesse esprimendo qui e ora. La propria volontà, espressa in direttive anticipate, deve pertanto esibire un’autorità morale pari a quella esibita dalla propria volontà effettivamente espressa qui e ora. Ci sono, contro l’idea che le direttive anticipate esibiscano un’autorità morale pari a quella della volontà in atto, due obiezioni principali. La prima è di ordine pratico, la seconda di ordine morale[16].
La prima afferma che un soggetto non può prevedere con un sufficiente livello di precisione quale sarà la sua condizione futura, tanto da poter formulare intorno a quest’ultima delle deliberazioni specifiche. La seconda, invece, sostiene che non c’è alcuna autorità morale per esercitare il controllo su un futuro sé ormai incapace di intendere e volere (Argomento dell’obiezione all’autorità morale). Se infatti un paziente ha perso le sue capacità mentali di comprendere e riaffermare consapevolmente i propri interessi, valori, preferenze, etc. allora queste ultime non possono essere più coerentemente attribuite a lui e, pertanto, non sussiste alcun obbligo morale di rispettarle. Anzi ciò che deve essere promosso è il miglior interesse attuale del paziente (riposto in elementi come l’assenza di dolore, il godimento di semplici piaceri, etc.). Promuovere il miglior interesse del paziente può significare anche disattendere le deliberazioni formulate da quest’ultimo quando era in grado di esercitare la propria volontà.
A questo proposito John Robertson, uno dei principali oppositori dell’argomento della Extension View sostiene non solo che gli interessi del paziente incapace di deliberare qui e ora sui trattamenti medici da erogare non possono essere sovrapposti a quelli del soggetto allorquando era capace di intendere e volere, dal momento che tali interessi potrebbero non essere sopravvissuti al sopraggiungere della disabilità, ma, oltre a ciò, che seguendo le preferenze espresse in precedenza o promuovendo gli interessi maturati in precedenza si potrebbe danneggiare il paziente[17].
Un ulteriore argomento, sviluppato ad esempio da King, sostiene, sulla scorta di specifiche teorie dell’identità, quelle proposte da John Locke o da Derek Parfit[18], che quest’ultima implica continuità e connessione degli stati psicologici e ciò rende impossibile affermare che un paziente incapace possa essere considerato la medesima persona che in precedenza era in possesso della propria capacità. Una data persona X, considerata in un tempo T1 può essere considerata la stessa persona in un tempo T2 se la persona considerata nel tempo T2 condivide un quoziente minimo di memorie e proprietà psicologiche con la persona X considerata nel tempo T1 o un qualche quoziente minimo di catene sovrapposte di memorie e proprietà psicologiche. Sulla scorta di questo presupposto, se il paziente non è più, in senso stretto, la stessa persona, trattarlo in accordo con le scelte da lui compiute in precedenza equivale a imporre a una nuova persona la volontà di qualcun altro[19].
Ritorno ora alla teoria della Extension View, per definirla con più precisione e analizzare alcune delle risposte fornite dai suoi sostenitori contro le obiezioni summenzionate.
Buchanan e Brock, tra i principali sostenitori dell’Extension View argument, affermano che le direttive anticipate hanno lo stesso tipo di autorità morale delle decisioni autonome, con la sola differenza che la loro applicazione va estesa al futuro.
La tendenza dominante, sia in ambito giuridico che nella letteratura bioetica, è stata quella di considerare i diritti degli individui incapaci come se fossero un estensione dei diritti degli individui in grado di intendere e volere[20].
La Extension View è stata sviluppata in un report del 1983 della Commissione presidenziale per lo studio dei problemi etici in medicina e nella ricerca biomedica e comportamentale[21]. Per questa prospettiva, ripresa da Buchanan e Brock, le direttive anticipate, nonostante possano incorrere nei medesimi problemi del consenso informato (in particolare, la presenza nel paziente di un livello di informazione non adeguato), o in alcuni casi possano accentuare alcuni di questi problemi, si configurano come atti di autodeterminazione[22]. Va, inoltre, aggiunto che in quanto atti di autodeterminazione essi si basano sull’idea della sopravvivenza degli interessi alla persona che li ha espressi. Alla morte di un soggetto noi siamo portati ad affermare che esistono ancora degli interessi della persona dipartita (relativi ad esempio a come avrebbe voluto che la sua famiglia amministrasse le finanze o a come egli avrebbe voluto che si organizzasse il suo funerale, etc.) che producono i loro effetti sugli eventi attuali (che si decida di assecondarli o meno)[23]. Parlare di interessi, in questo contesto, come ci ricorda John Davies[24], vuol dire parlare di interessi da investimento e non di semplici interessi di benessere. Gli interessi da investimento hanno a che vedere con la visione del mondo di un soggetto, con i suoi valori, le sue scelte religiose, etc. e sopravvivono alla morte del soggetto (o al sopravvenire di uno stato di incapacità). Gli interessi di benessere, invece, hanno a che vedere con il provar piacere o l’evitare il dolore e sono interessi che, in alcune circostanze, potrebbero non coincidere o essere in opposizione agli interessi più profondi di cui il soggetto è portatore. Resta il fatto che gli interessi da investimento rappresenterebbero il sé autentico del soggetto, interessi che permarrebbero anche in caso di assenza della volontà (qui e ora) del soggetto.
Le considerazioni relative all’identità, invece, vengono depotenziate mettendo in luce come il grado della continuità psicologica e della connessione necessaria a rimanere la stessa persona in un arco di tempo determinato non è una questione metafisica ma una questione morale e che ci sono ragioni morali che ci suggeriscono di porre questo grado piuttosto in basso, pena la perdita di istituzioni e pratiche sociali come i contratti, le promesse, l’imputabilità civile e penale, etc.
In altri termini, questa la tesi di Buchanan, dal momento che un paziente privo della capacità di intendere e volere e privo di qualsivoglia capacità di interagire con il mondo esterno, non può essere considerato persona sotto il profilo morale (dal momento che per essere persona sono richiesti alcuni requisiti, tra i quali essere consapevoli di se stessi nel tempo, essere capaci di soppesare le ragioni per agire o non agire e la capacità di programmare specifiche azioni) nessun danno può essergli arrecato quando i desideri da lui precedentemente espressi vengono imposti sul corpo ancora vivente di quest’ultimo (privo, però, della capacità di intendere e volere). Quest’ultimo argomento presenta delle assonanze con quello che andrò a presentare nell’ultima parte del contributo, ragion per cui lo ritengo un punto di partenza rilevante per la nostra discussione.
Una possibilità ulteriore di argomentare contro l’Obiezione all’autorità morale è quella proposta dai teorici dell’approccio narrativo. Quest’ultimo si rifà alla teoria della virtù presentata da Alasdair MacIntyre[25] rielaborata da autori come Howard Brody. L’idea di fondo è che ciascuna vita è immersa in una trama narrativa. Può in altri termini essere vista come una storia. L’immagine della vita come narrazione si incastra molto bene con l’idea del giudizio surrogato, perché secondo l’approccio narrativo la surrogazione consente di prendere la decisione che meglio è in grado di proseguire le trame della storia-di-vita del paziente[26].
Facciamo un esempio. La vicenda Eluana Englaro[27] ha visto contrapposti da un lato i genitori della ragazza, i quali si facevano portavoce della sua autentica volontà (Eluana non avrebbe mai voluto trovarsi in quella condizione clinica, costretta a subire la pervasività di trattamenti medici invasivi) dall’altra i medici che non desistevano dai trattamenti di idratazione e alimentazione artificiali, sulla base dell’idea che la vita di Eluana era comunque da salvaguardare e che l’idratazione e alimentazione, in quanto tecniche di supporto vitale, non potevano essere, in senso stretto, equiparate a trattamenti medici[28]. Ora, Beppino Englaro e sua moglie erano i soggetti più vicini a Eluana e, in senso stretto, coloro che potevano con maggiore precisione (supportati per altro dalle testimonianze di altri parenti e amici) ristabilire una continuità tra l’Eluana in grado di intendere e di volere e l’Eluana non più capace di intendere e di volere. Tale continuità è stata interrotta dalle decisioni prese a prescindere dalla volontà espressa dalla ragazza (volontà in linea con la sua storia-di-vita) e ristabilita di fatto solo quando, in esecuzione al decreto della Corte d’appello di Milano del 9 luglio 2008, si è potuti procedere alla sospensione delle terapie che la mantenevano in vita.
Questi argomenti sembrano già esibire ragioni convincenti a favore della tesi continuista. L’argomento che proporrò, dunque, nel prossimo paragrafo va inteso come integrativo rispetto a quelli summenzionati e non alternativo.
- L’argomento del Sé biologico e del Sé biografico
In questo paragrafo sosterrò che nel valutare l’autorità morale di una direttiva anticipata (per certi aspetti, le considerazioni possono essere estese anche se la ricostruzione della volontà di un soggetto è avvenuta sulla base di dichiarazioni rese da quest’ultimo oralmente) non possiamo prescindere completamente dal riferimento a una teoria dell’identità. Innanzitutto, vado a presentare i tratti minimi di una teoria dell’identità che può essere utile a guidarci nella soluzione dei nostri problemi. A tale fine ripropongo qui la distinzione introdotta da Harry Frankfurt tra first order desires e second order desires[29]. Nel filosofo morale statunitense tale teoria veniva avanzata per fornire al concetto di autonomia un supporto empiricamente plausibile. Essa, però, può essere impiegata anche per la costruzione di una teoria dell’identità (minimale). Frankfurt infatti sostiene che
al di là del volere e dello scegliere e dell’essere portato a fare questo o quello, un soggetto potrebbe anche voler avere o non voler avere certi desideri e motivi. Gli uomini sono capaci di voler essere differenti, per quanto riguarda le loro preferenze e i loro propositi, rispetto a quello che effettivamente sono. Molti animali sembrano avere la capacità di provare quelli che io definisco desideri del primo ordine, ossia semplici desideri di fare o non fare una cosa piuttosto che un’altra. Nessun altro oltre l’uomo tuttavia sembra avere la capacità dell’autoriflessione valutativa che si manifesta nella formazione di desideri del secondo ordine[30].
Ancora, nelle parole di Gerald Dworkin, che riprende le tesi di Frankfurt, l’uomo è caratterizzato dalla capacità di autodeterminarsi, ossia di «riflettere criticamente sulle proprie preferenze e desideri di primo livello e modificarli sulla base delle preferenze e valutazioni di ordine superiore»[31]. La proposta di Frankfurt, ripresa da Dworkin, non ci impegna all’accettazione di una teoria sostanzialistica della persona, né a una teoria funzionalistica o emergentista. Essa ci permette, piuttosto, di individuare alcuni tratti basilari per l’identificazione di un soggetto. Un soggetto è identificabile sulla base delle sue preferenze, desideri, valori di ordine superiore. Egli stesso valuterà le sue azioni sulla base della corrispondenza o meno al quadro valoriale e preferenziale di ordine superiore che lo rappresenta[32]. Ora, a partire da queste considerazioni si può affermare che in un dato soggetto X è possibile rintracciare un Sé biologico, rappresentato da desideri, pulsioni, preferenze e un Sé biografico rappresentato dalla vita relazionale, dai valori, dalle idee strutturate che quel soggetto ha costruito durante la sua esistenza. Come passare da questo livello, descrittivo, a un livello di ordine differente, morale, per cui il Sé biografico è da preferire al Sé biologico? Se riusciamo a mostrare che il Sé biografico è, in qualche modo, preferibile al sé biologico (ossia ha una qualche priorità rispetto al Sé biologico), allora ciò che dipende dal Sé biografico (decisioni, valori, scelte, etc.) andrebbe, quantomeno in linea di principio, anteposto a quello che dipende dal Sé biologico[33] e avremmo, così, depotenziato l’argomento per cui, interpretando il miglior interesse del Sé biologico, un soggetto terzo può decidere di disattendere le scelte effettuate ora per allora dal Sé biografico.
L’ossatura dell’argomento è la seguente: il Sé biografico, in caso di incapacità sopravvenuta o è ancora presente ma non manifesto (questa potrebbe essere la posizione di coloro i quali ritengono che esista una sostanza non identificabile con il corpo, un’anima) o è ormai assente. Se è ancora presente ma non manifesto esso, in virtù della continuità con ciò che c’era prima del sopravvenire dell’insulto fisico, dovrebbe essere assecondato nella sua volontà, in quanto, sia da una prospettiva materialista sia da una prospettiva non materialista, l’uomo si definisce soprattutto (non solo ma soprattutto) sulla base delle sue facoltà razionali e sulla base di quegli elementi che lo fanno essere esattamente quello che è (la sua storia-di-vita)[34].
Passiamo ora al secondo caso. Se non fosse più presente, al Sé biologico sarebbe del tutto indifferente quello che facciamo di lui. In apparenza questo potrebbe sembrare un argomento a supporto degli obiettori della Extension View. In realtà non lo è. Vediamo perché. Se al Sé biologico è indifferente ciò che facciamo di lui, non si comprende perché dovrebbe disporre di lui un soggetto che non vi ha intrattenuto alcun rapporto.
Questo argomento si comprende bene quando in ballo ci sono decisioni che riguardano oggetti, persone o animali con le quali intratteniamo un rapporto di profonda interconnessione. L’argomento afferma che nella misura in cui intratteniamo un rapporto (di profonda interconnessione) con un oggetto, un animale o una persona, proprio in virtù di quel rapporto di profonda interconnessione, acquisiamo una posizione di priorità rispetto a eventuali scelte da intraprendere riguardanti quell’oggetto, animale o persona. Da qui discende che intrattenendo noi stessi con il nostro corpo un rapporto di diretta interconnessione dovremmo avere, sempre e comunque, una posizione di priorità rispetto a eventuali scelte da intraprendere riguardanti il nostro corpo (e che questa priorità non viene meno con il venir meno della coscienza, così come non viene meno con il venir meno della vita, come dimostrato dal fatto che i familiari di un defunto assecondano le volontà di quest’ultimo, ad esempio, rispetto al tipo di funerale da preparare).
Volendo provare a formulare un esempio, poniamo che Giuseppe, un uomo un po’ solitario, viva con il suo cane Baldo e Baldo sia sul punto di morire. Dopo molte sofferenze Baldo muore e bisogna decidere se condurlo al cimitero degli animali o farlo portare via dagli addetti del comune. Sotto il profilo morale, è più giusto che decida Giuseppe o una qualsiasi altra persona? Verrebbe da dire Giuseppe, dal momento che Giuseppe è colui il quale ha intrattenuto con Baldo un rapporto affettivo, di simbiosi, una trama relazionale che ha elevato quel rapporto al punto da farne un elemento caratterizzante della biografia sia di Giuseppe che di Baldo. In tutto ciò è altrettanto evidente che a Baldo, ora morto, è del tutto indifferente quel che si deciderà di lui. Noi riteniamo che a scegliere debba essere Giuseppe proprio perché Giuseppe intratteneva con Baldo un rapporto di profonda interconnessione.
Ora nel caso delle direttive anticipate, la situazione non è poi così difforme. Noi deliberiamo in merito alla permanenza o meno del nostro Sé biologico, con il quale intratteniamo un rapporto di diretta dipendenza. Anzi, nel caso degli esseri umani, quel Sé biologico, fatto di pulsioni, desideri, emozioni, ha il suo significato profondo proprio nell’interazione e interdipendenza con il Sé biografico che lo ha ricompreso dentro di Sé e ne ha fatto un elemento della propria autorappresentazione.
Perché allora, se al Sé biologico è indifferente quale possa essere il suo destino, dobbiamo lasciare la decisione a terzi? Dovrebbe essere, invece, proprio colui il quale ha intrattenuto con quel Sé biologico una trama relazionale a poter decidere. Nessun altro.
Provo a dettagliare ulteriormente quanto appena sostenuto.
Gli interessi autenticamente umani sviluppati da un soggetto sono riposti nel suo Sé biografico; se il Sé biografico viene meno, tali interessi vengono meno sul piano della loro possibile riaffermazione in atto. Il Sé biologico, però, non ha interessi, per cui nel momento in cui si prende una decisione sul Sé biologico, a quest’ultimo è indifferente quale decisione si prenda.
Proprio perché è indifferente, però, sarebbe preferibile accogliere le decisioni espresse dal Sé biografico da cui quel Sé biologico dipendeva (o con il quale quel Sé biologico era interrelato).
Questo andrebbe fatto per almeno tre ragioni: quel Sé biologico acquisiva un significato umano nel momento in cui, armonicamente, andava a sposarsi con un Sé biografico. Pertanto sarebbe opportuno agire come se il Sé biografico potesse ancora fungere da centro di produzione di decisioni intorno al Sé biologico. In secondo luogo, di fatto, espropriare il Sé biografico dalla possibilità di decidere significa assegnarla ad altri, con il paradosso che la decisione viene a essere doppiamente subita. Subita in quanto, per definizione, il Sé biologico è passivo e subita perché la decisione viene da un soggetto o da soggetti che con quel Sé biologico non hanno intrattenuto rapporti di “vincolanza”.
Infine, si fa un torto alla memoria del Sé biografico, la quale in una concezione narrativa dell’identità (che io accolgo come plausibile) è riposta nell’immagine di sé che il soggetto ha costruito e promosso nello spazio sociale. È non rispettando la direttiva anticipata del soggetto (la quale veicola la sua visione del mondo) che si rompe di fatto la continuità che il Sé biologico aveva con il Sé biografico. Rispettando, invece, la volontà di quest’ultimo si consente a questi di conservare una trama identitaria (anche se essa non può essere più vissuta dal soggetto medesimo).
Una ulteriore forma di questo argomento può essere declinata attraverso il seguente esperimento mentale. Poniamo che Alberto sia caduto in uno stato di incapacità e che abbia espresso in precedenza i suoi desideri circa i trattamenti medici da erogare. Sebbene egli non abbia più la possibilità di riaffermare quei desideri e quegli interessi specifici, potrebbe farlo qualora si risvegliasse e mettesse fine allo stato di incapacità in cui è piombato.
Ora, poniamo il caso che la ricerca biomedica riesca a costruire un dispositivo che consente a un paziente incapace di risvegliarsi per pochi secondi e che questa tecnologia venga impiegata proprio per stabilire quale sia la volontà di determinati pazienti rispetto ai trattamenti medici da erogare. Nel caso specifico, egli andrebbe a riaffermare la sua volontà e i medici dovrebbero a quel punto rispettarla. Spostandoci nel mondo a noi familiare, noi dobbiamo agire come se quel risveglio fosse possibile dal momento che noi sappiamo che quel soggetto qualora potesse risvegliarsi ribadirebbe i desideri e gli interessi che appartengono al Sé cosciente (o Sé biografico).
- Considerazioni conclusive
James Rachels, nel suo volume, The end of life. Euthanasia and morality, apparso per la prima volta nel 1986[35], ricordava che «esiste una profonda differenza tra avere una vita e semplicemente essere vivi»[36]. Ciò è reso ancor più evidente da condizioni cliniche (lo SVP ne è un chiaro esempio) nelle quali grazie all’impiego di nutrizione e idratazione artificiali o del ventilatore meccanico si tengono in vita individui le cui funzioni corticali sono irreversibilmente assenti. Non è qui in discussione la liceità o illiceità della sospensione dei trattamenti o, ancora, se la nutrizione e idratazione artificiale siano da considerare terapie mediche o meno. Il punto in questione è stabilire se una direttiva anticipata possa o meno surrogare la volontà di un soggetto nel caso in cui quest’ultimo sia caduto in stato di incoscienza e, verosimilmente, non possa più recuperare uno stato di normofunzionalità corticale.
La risposta fornita in questo contributo è positiva. Le direttive anticipate possono essere considerate a tutti gli effetti (e discorso simile può essere fatto anche nel caso in cui la volontà di un soggetto, resa oralmente, sia ricostruibile in modo adeguato) una estensione della volontà di un individuo e un atto di autodeterminazione. Il loro rifiuto conduce, infatti, alla paradossale conseguenza che intorno al corpo di un soggetto verranno comunque prese delle decisioni da parte di terzi, ma che queste decisioni potrebbero non essere in linea con la storia-di-vita di quel soggetto. Ciò rappresenterebbe un tradimento della memoria e della identità che quel soggetto ha costruito durante la sua esistenza, tradimento che va evitato in nome della vita biografica che contraddistingue gli esseri umani in quanto esseri umani.
[1] M. Mori, Il caso Eluana Englaro. La «Porta Pia» del vitalismo ippocratico ovvero perché è moralmente giusto sospendere ogni intervento, Pendragon, Bologna 2008, p. 82.
[2] Il vitalismo medico (o ippocratico) si configura come «quella concezione secondo cui il rispetto dei finalismi biologici è sempre buono e la loro violazione o degenerazione è sempre cattiva, con la morte come il peggiore dei mali. Sulla scorta di questa premessa, la conoscenza dei finalismi vitali propria del medico dà a questi la capacità di sapere anche quale sia il bene del paziente» (ibid.).
[3] A questo proposito appare quantomeno indicativo che la Corte di appello di Milano, nella sentenza del 16 ottobre del 1964, affermi, in conformità alla concezione paternalistica di stampo vitalistico-ippocratica, l’alto valore morale del medico che nasconde la verità al paziente e la sua piena discrezionalità in merito alle informazioni da fornire a quest’ultimo.
[4] Cfr. M. Mori, Manuale di bioetica. Verso una civiltà biomedica secolarizzata, Le Lettere, Firenze 2010, p. 298 sgg.
[5] Tale definizione è ricavata, per contrasto, dalla definizione che Morreim impiega per i pazienti capaci, ossia «coloro che esibiscono in ambito sanitario una capacità autonoma di operare scelte» [E.H. Morreim, Competence: At the Intersection of Law, Medicine, and Philosophy, in Competency: A Study of Informal Competency Determinations in Primary Care (ed. by Mary Ann Gardell Cutter and Earl E. Shelp), Kluwer, Dordrecht 1991, pp. 93-125].
[6] Non mi interessa stabilire, per gli scopi specifici di questo contributo, se tale documento scritto sia riconosciuto dall’ordinamento di un determinato stato o meno (anche se questo aspetto risulta di importanza cruciale per l’apertura di una effettiva possibilità di impiego delle carte di autodeterminazione).
[7] G. Englaro, La vita senza limiti. La morte di Eluana in uno stato di diritto, Bur, Milano 2012.
[8] Una obiezione possibile è che la mediazione consiste proprio nella presenza del testo scritto, dal momento che solo la volontà espressa attualmente esibisce i caratteri dell’immediatezza.
[9] È qui solo il caso di accennare alla distinzione tra direttive anticipate “generali” e “contestuali”. Quelle “generali” riguardano un possibile futuro stato di salute, rispetto al quale il soggetto può solo astrattamente ipotizzare degli scenari; quelle “contestuali” invece riguardano il decorso prevedibile di una patologia (morbo di Alzheimer, fase terminale di un tumore maligno, etc.) che ha già colpito il soggetto e rispetto al quale quest’ultimo vuole preventivamente deliberare (a quali trattamenti sottoporsi nel momento in cui sopravvenisse incapacità di intendere e volere).
[10] Sulla opportunità di impiegare l’espressione living will per riferirci al testamento biologico (mutuando l’espressione dal mondo anglosassone) o, piuttosto, quella di direttiva anticipata o carta di autodeterminazione si potrebbe discutere. Non è, però, obiettivo del presente contributo quello di analizzare queste differenze (terminologiche e/o eventualmente di contenuto), essendo il problema di fondo, piuttosto, quello generale, di comprendere se e perché la volontà di un paziente sia validamente (sotto il profilo morale) estensibile attraverso un documento scritto.
[11] Consultabile al link https://it.wikipedia.org/wiki/Codice_di_Norimberga
(ultimo accesso novembre 2017).
[12] Consultabile al link http://centridiateneo.unicatt.it/bioetica-Helsinki.pdf
(ultimo accesso novembre 2017).
[13] Consultabile al link
http://www.unimi.it/cataloghi/comitato_etico/Convenzione_di_Oviedo.pdf (ultimo accesso novembre 2017).
[14] Consultabile al link
https://portale.fnomceo.it/fnomceo/showArticolo.2puntOT?id=115184
(ultimo accesso novembre 2017).
[15] È qui opportuno accennare al fatto che esistono diversi strumenti per far valere la propria volontà in caso di sopravvenuta incapacità. Una distinzione generale, all’interno della quale cadono poi altre specificazioni, può essere, ad esempio, quella tra “direttive di istruzione” e “direttive di delega”. Le prime contengono specifiche istruzioni fornite dal soggetto redattore rispetto ai trattamenti medici ai quali egli vorrà essere sottoposto in caso di sopravvenuta incapacità. Le seconde, invece, contengono una delega a favore di un tutore o un amministratore fiduciario, i quali saranno chiamati a prendere decisioni nel miglior interesse per il paziente o quella di eseguire la volontà del soggetto nel momento della eventuale sopravvenuta incapacità.
[16] Una ulteriore obiezione è quella per cui le direttive anticipate rappresenterebbero un modo surrettizio di introduzione dell’eutanasia nell’ordinamento di uno stato. Questa obiezione può, però, facilmente essere contrastata dal momento che le direttive anticipate non sono vincolate ad alcun contenuto specifico e possono, anzi, essere impiegate anche dai soggetti che volessero, in caso di sopravvenuta incapacità, proseguire i trattamenti medici ed essere, ad esempio, ventilati meccanicamente e idratati e nutriti artificialmente, senza interruzioni.
[17] J. Robertson, Second thoughts on Living wills, in «Hastings Center Report», 21, 6, 1991, pp. 6-9.
[18] Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano (1690), tr. it. La Scuola, Brescia 2005; D. Parfit, Ragioni e persone (1984), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1989; R. Nozick, Spiegazioni filosofiche (1981), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1987.
[19] M. Quante, Precedent autonomy and personal identity, in «Kennedy Institute of Ethics Journal», 9, 4, 1999, pp. 365-381.
[20] A. Buchanan, D.W. Brock, Deciding for Others: The Ethics of surrogate decision making, Cambridge University Press, Cambridge 1990, p. 116.
[21] President's Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research, Deciding to Forego Life-Sustaining Treatment: A Report on the Ethical, Medical, and Legal Issues in Treatment Decisions (1983), in A.R. Jonsen, R.M. Veatch, L. Walters, Source Book in Bioethics: A Documentary History (1998), Georgetown University Press, Washington DC 1998, pp. 159-219.
[22] A. Buchanan, D.W. Brock, Deciding for Others: The Ethics of surrogate decision making, cit.
[23] J. Feinberg, Harm to Self, Oxford University Press, Oxford 1986, pp. 47-51.
[24] J. Davies, Precedent autonomy, advance directives, and end-of-life care, in B. Steinbock (a cura di), The Oxford handbook of Bioethics, Oxford University Press, Oxford 2009.
[25] In particolare alle tesi proposte da quest’ultimo nel capitolo 15 di After Virtue. Qui possiamo leggere, ad esempio, che il concetto di un io è caratterizzato dall’«unità di una narrazione che collega la nascita alla vita e alla morte, come l’inizio di un’opera letteraria è collegata al suo centro e alla sua fine» (A. MacIntyre, Dopo la virtù (1981), tr. it. Armando Editore, Roma 2007, p. 250).
[26] H. Brody, Stories of sickness, Oxford University Press, New York 2003, p. 254; J. Blustein, Choosing for Others as Continuing a Life Story: The Problem of Personal Identity Revisited, in «Journal of Law, Medicine & Ethics», 27, 1, 1999, p. 20.
[27] M. Mori, Il caso Eluana Englaro, cit.
[28] La ricostruzione qui presentata è, con ogni evidenza, semplificatoria. Rimando per una disamina completa della vicenda ai testi di Maurizio Mori e Beppino Englaro menzionati nelle note 1 e 7.
[29] H.G. Frankfurt, Freedom of the will and the concept of the person, in «The Journal of Philosophy», 68, 1, pp. 5-20.
[30] Ibid.
[31] G. Dworkin, The theory and Practice of Autonomy, Cambridge University Press, Cambridge 1988.
[32] L’eventuale obiezione secondo la quale sarebbe arbitrario distinguere tra vita biologica e vita biografica, essendo la vita sempre e comunque dotata di una intrinseca dignità non mi sembra sostenibile. Il motivo è che anche per rifiutare la distinzione tra vita biologica e vita biografica, anche per rifiutare l’attribuzione di una qualche priorità della seconda sulla prima e anche per affermare che nel proprio “sistema di valori” la vita è intrinsecamente dotata di valore a prescindere se sia presente, qui e ora, un livello minimo di coscienza o di capacità di relazionarsi con il mondo esterno, richiede come condizione necessaria che sia in atto una vita biografica che abbia scelto come suo sistema di valori quelli che prevedono la non separabilità di vita biologica e vita biografica e il riconoscimento della intrinseca dignità di ogni vita a prescindere dal suo stato.
[33] A questo proposito cfr. M. Mori, Il caso Eluana Englaro, cit., p. 107. «Questo ci porta a distinguere la mera vita biologica dalla vita biografica: la prima non ha alcun valore intrinseco, perché questo valore è proprio della vita biografica che ha contenuti. Come diceva Amleto: non c’è né bene né male, ma è il pensiero che lo rende tale». E prosegue «Quello individuato è un punto cruciale per due ragioni: perché spiega la centralità assunta dal consenso informato […]. La seconda ragione è che, ove sia dissolto il Cosmo e il valore dipenda dai contenuti biografici, ci si deve chiedere quali siano i soggetti capaci di vita biografica» (ibid., p. 108).
[34] Sarebbe interessante approfondire ulteriormente questo punto, in quanto sembrerebbe rappresentare una sorta di breccia di Porta Pia all’interno delle concezioni teistiche, per le quali la vita del corpo non esaurisce mai l’essere-persona di un dato soggetto.
[35] J. Rachels, Quando la vita finisce. La sostenibilità morale dell’eutanasia (1986), tr. it. Sonda, Casale Monferrato (Al) 2007.
[36] Ibid., p. 19.