Trasformare Majorana nel gatto di Schrödinger è un effetto speciale preterintenzionale, eppure l’azzardo di Giorgio Agamben va premiato. Controverso principe della filosofia italiana, outsider dell’accademia («Si è dimesso dall’insegnamento di filosofia teoretica nell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia» fa scrivere nelle quarte di copertina dei suoi ultimi libri), amatissimo fuori confine, relatore nelle università di mezzo mondo ma schivo come nemmeno Lucio Battisti dopo il ritiro dalle scene, con Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana, Agamben dà una lezione pop a tutti i prof. aspiranti tali ma non più che piacioni e, prima ancora, a tutti gli intellettuali così impegnati a recitare la parte degli engagé da riuscire sì a non abbassarsi alla popular culture ma solo per annegare nel trash.
La storia è nota. Dopo gli anni trascorsi all’Istituto di Fisica dell’Università di Roma insieme a Fermi e ai formidabili “ragazzi di via Panisperna” (1929-1932), il soggiorno in Germania ospite di Werner Heisenberg e di Niels Bohr (1933), gli anni di studio forsennato in uno stato di volontaria semi-reclusione con tanto di diagnosi di “esaurimento nervoso”, Majorana accetta la cattedra in Fisica teorica offertagli “per chiara fama” dall’Università di Napoli. È il 1937 e lo scienziato ha solo 31 anni. Comincia le lezioni il 12 gennaio del ‘38 ma non farà in tempo a finire il corso. Il 25 marzo si imbarca su un piroscafo della Tirrenia diretto a Palermo e da lì manda una lettera all’amico e collega Antonio Carrelli, professore di Fisica sperimentale nella città partenopea, in cui scrive: «Il mare mi ha rifiutato, tornerò domani». Ma dopo quella lettera, di Majorana si perde ogni traccia.
Cosa è successo a quel ragazzo geniale? Suicida, riparato nella Germania nazista, emigrato in Argentina, rintanato in un monastero calabrese, le ipotesi sulla sua scomparsa sono suggestive, fantasiose, introspettive. La versione che propone Agamben è semplicemente filosofica. Il pensatore romano utilizza il caso Majorana per fare quel che meglio gli riesce: esercizi teoretici. Al centro del volumetto non c’è infatti la scomparsa di Majorana ma niente poco di meno che una riflessione sullo statuto ontologico dell’oggetto della conoscenza scientifica all’indomani della rivoluzione quantistica. Cosa conosciamo attraverso la lente della fisica che descrive il comportamento della materia a livello microscopico? Qual è la natura della realtà o, per dirla in pompa magna, cosa ne è dell’essere reinventato dalla meccanica di Plank, Bohr, Einstein, De Broglie e Heisenberg? Interrogativi divenuti a un certo punto letteralmente “inquietanti” per menti acute come quella del giovane scienziato catanese. Secondo la fisica quantistica è impossibile stabilire con esattezza lo stato di un sistema atomico, al massimo – spiega lo stesso Majorana – si può «stabilire la probabilità che una misura eseguita su un sistema preparato in un dato modo dia un certo risultato», per poi significativamente aggiungere: «Il risultato di qualunque misura sembra perciò riguardare piuttosto lo stato in cui il sistema viene portato nel corso dell’esperimento stesso, che non quello inconoscibile in cui si trovava prima di essere perturbato» (cfr. p. 75). La realtà si palesa a un tratto “inconoscibile” lasciando l’uomo di scienza solo di fronte ai suoi artefatti e, per dir così, l’uomo e basta, spettatore di un mondo in evanescenza.
In Natura e Fisica moderna Heisenberg ribadisce il concetto spiegando che «L’idea della obbiettiva realtà delle particelle elementari si è quindi sorprendentemente dissolta, e non nella nebbia di una qualche nuova, poco chiara o ancora incompresa idea di realtà, ma nella trasparente chiarezza di una matematica che non rappresenta più il comportamento della particella, ma il nostro sapere sopra questo comportamento». In altre parole, «dietro il mondo statistico non c’è nessun mondo “reale” in cui valga il principio di causalità». Abbandonato il determinismo della meccanica classica a favore del meno rassicurante principio di indeterminazione, che ne rimane allora della realtà? Che cos’è reale? E qui Agamben mette in scena il suo coup de théâtre: la scomparsa di Majorana, per come è avvenuta, è essa stessa la risposta a questa domanda. Vediamo perché.
Prima della missiva del 26 marzo, Majorana scrive a Carrelli un’altra lettera e un telegramma. «Caro Carrelli – scrive il 25 marzo del ‘38 – ho preso una decisione che era ormai inevitabile. Non vi è in essa un solo granello di egoismo, ma mi rendo conto delle noie che la mia improvvisa scomparsa potrà procurare a te e agli studenti. (…) Ti prego anche di ricordarmi a coloro che ho imparato a conoscere e ad apprezzare nel tuo Istituto, particolarmente a Sciuti; dei quali tutti conserverò un caro ricordo almeno fino alle undici di questa sera, e possibilmente anche dopo» (p. 6). Majorana parla di “improvvisa scomparsa” ma non di suicidio, il riferimento alle “undici di questa sera” sembra un presagio di morte ma aggiunge poi un “possibilmente anche dopo” che pare una smentita. Molto più netta è invece la lettera, lasciata in albergo, rivolta ai familiari. «Ho un solo desiderio: che non vi vestiate di nero. Se volete inchinarvi all’uso, portate pure, ma per non più di tre giorni, qualche segno di lutto. Dopo ricordatemi, se potete, nei vostri cuori e perdonatemi» (p. 8). È la lettera di un suicida.
Il giorno dopo però succede l’inaspettato. Majorana manda un telegramma a Carrelli in cui smentisce ogni strana intenzione: «Non allarmarti. Segue lettera. Majorana». Al telegramma segue, infine, la missiva in cui dice: «Spero che ti siano arrivati insieme il telegramma e la lettera. Il mare mi ha rifiutato e ritornerò domani all’albergo Bologna, viaggiando forse con questo stesso foglio. Ho però intenzione di rinunziare all’insegnamento. Non mi prendere per una ragazza ibseniana perché il caso è differente. Sono a tua disposizione per ulteriori dettagli» (p. 8). Dopo di che scompare davvero.
Quando Majorana comunica l’intenzione di sparire, riemerge. Quando dice di tornare, sparisce. Come una particella quantistica, tra il 25 il 26 marzo 1938, Majorana riappare e scompare in luoghi diversi simultaneamente. Non solo, egli produce un evento assolutamente certo (la scomparsa) quanto improbabile («improbabile nel senso letterale del termine: essa non può essere in alcun modo provata e accertata sul piano dei fatti»). Siamo di fronte a un’architettura da messa in scena e, secondo Agamben, a fare il suo ingresso sul palcoscenico di questa storia è l’eclissarsi del reale nelle paludi del probabile. Un po’ come se col passaggio dalla causalità della meccanica classica all’indeterminazione di quella quantistica, la solidità dell’essere perdesse di consistenza (esattamente come la presenza di Majorana). Un esito considerato “inquietante” da Majorana tanto che, ipotizza Agamben, con i suoi contraddittori comportamenti lo scienziato avrebbe inteso ridare un senso alla solidità del reale. «La scomparsa di Majorana contiene in se stessa, con le proprie motivazioni e il suo senso un’obiezione decisiva alla natura della meccanica quantistica» (p. 52), sentenzia il filosofo e a sostegno di questa tesi assume l’articolo postumo pubblicato nel ‘42 su Il valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze sociali, utilmente riportato in appendice al testo. Qui Majorana spiega la sostanziale inconoscibilità dello stato di un sistema atomico «prima di essere perturbato» dallo sperimentatore e precisa che «questo aspetto della meccanica quantistica è senza dubbio il più inquietante, cioè più lontano dalle nostre obiezioni ordinarie che non la semplice mancanza di determinismo» (p. 75).
Nel delineare le trasformazioni implicate dalla nascita della nuova fisica dei quanta e del rinnovato significato dei modelli statistici nella descrizione della realtà, Majorana apre scenari inediti sul “potere di comando” dello sperimentare. «Ciò che Majorana sembra suggerire – scrive Agamben – è che proprio il carattere esclusivamente probabilistico dei fenomeni in questione nella fisica quantistica autorizza un intervento dello sperimentatore che gli permette di comandare il fenomeno stesso in una certa direzione. Il principio di indeterminazione rivela il suo vero significato, che non è quello di porre un limite alla conoscenza, ma quello di legittimare come inevitabile l’intervento dello sperimentatore» (p. 18). Se nel suo celebre testo a metà tra ricostruzione storica e romanzo, Leonardo Sciascia suppone che a spingere Majorana ad abbandonare la fisica sarebbe stata la sua capacità di intravedere e conseguentemente rifiutare il fuoco nucleare delle sperimentazioni sull’atomo, Agamben congettura che egli «abbia visto con chiarezza le implicazioni di una meccanica che rinunciava a ogni concezione non probabilistica del reale: la scienza non cercava più di conoscere la realtà ma solo di intervenire su di essa per governarla» (p. 50). Al depotenziamento del reale fa da controcanto un “inaudito” potenziamento dell’uomo su di esso. Una tesi, sia detto per inciso, sviluppata per altre vie di lì a poco da Martin Heidegger e che avrebbe contribuito non poco a segnare la sciagurata chiusura della filosofia novecentesca rispetto al pensiero scientifico. Ma tant’è. Majorana, secondo Agamben, rifiuta questa virata e si trasforma nel gatto di Schrödinger.
Nel pieno di una polemica tra Einstein e Bohr sul carattere probabilistico della nuova fisica, Erwin Schrödinger inventa un esperimento mentale che passerà alla storia come il “Paradosso del gatto”. Lo scopo è mostrare l’impossibilità di descrivere i fenomeni quantistici come nella scala macroscopica. Per esempio, prima della misurazione da parte dello sperimentatore, la particella da osservare in un sistema atomico ha le stesse probabilità di trovarsi in una qualsiasi posizione o, nel caso di due stati distinti, in una qualsiasi loro combinazione. Date queste premesse, osserva lo scienziato austriaco, «si possono anche costruire casi del tutto burleschi. Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale» tale da poter liberare una fiala di cianuro al disintegrarsi di un singolo atomo di una sostanza radioattiva. Le probabilità che, in un’ora, l’atomo si disintegri o meno sono identiche. «Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati con uguale peso». Ovvero, in termini probabilistici, il gatto è allo stesso tempo vivo e morto. Solo aprendo la scatola si potrebbe “comandare” il sistema a passare in uno dei due stati, gatto vivo o gatto morto. Dopo le sue ultime tracce lasciate tra il 25 e il 26 marzo del 1938 Majorana è vivo o è morto? Non si sa. Agamben non ambisce a fare il detective, tutt’al più lo psicologo. Non se si sia suicidato o meno dopo essere sparito ma perché sia sparito, è questo il problema cui prova a dare una soluzione.
«Se la realtà diventa l’ombra della probabilità, la scomparsa è l’unico modo con cui il reale può affermarsi perentoriamente come tale sottraendosi alla presa del calcolo» (p. 52). Nella ricostruzione filosofica di Agamben, Majorana diventa un “martire” del reale in un universo probabilistico. «Decidendo, quella sera di marzo del 1938, di sparire nel nulla e di confondere ogni traccia sperimentalmente rivelabile della sua scomparsa, egli ha posto alla scienza la domanda che aspetta ancora la sua inesigibile e tuttavia ineludibile risposta: che cos’è reale?» (p. 53).
I toni ultimativi di chi ha frequentato Heidegger, Klossowski, Debord, Derrida, Nancy e compagnia bellissima non mancano, come pure non mancano iperboli di scetticismo nei confronti della nuova fisica e della conoscibilità del mondo (in un passo non citato da Agamben, Majorana ammette «Questa straordinaria teoria è dunque così solidamente fondata nell’esperienza come forse nessun’altra fu mai»), eppure fosse pure solo per il ritmo narrativo che l’alone di mistero che il mito Majorana riesce a imprimere a riflessioni sull’“ontologia del probabile”, fosse pure solo per quel sentiment di fiction che finisce per accompagnare erudite digressioni su Aristotele, Gerolamo de Cardano, Pascal, Fermat e Poincaré, fosse pure solo per averci regalato la possibilità di immaginare Majorana nei panni del più celebre gatto che la fisica contemporanea abbia mai concepito, fosse pure solo per questo quella di Agamben è un’impresa gustosamente pop che fa bene al pensiero.
Cristian Fuschetto
S&F_n. 17_2017